La rapida accelerazione dello sviluppo e della diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) sta aprendo inedite opportunità all’uomo e alla società. Ne sono esempio l’ampliamento delle conoscenze, l’accrescimento dell’informazione e della comunicazione, la dilatazione della libertà di espressione, la possibilità di confrontare punti di vista diversi, di entrare in contatto di enti/gruppi/individui lontani, la velocizzazione e la globalizzazione delle relazioni, il miglioramento nella organizzazione delle strutture, l’implementazione di servizi e di monitoraggio digitali, ecc. Eppure, accanto alle opportunità stanno emergendo anche alcune problematicità, di cui spesso non siamo pienamente consapevoli, che la riflessione etica e bioetica (con particolare riferimento alla salute) stanno elaborando. Emergono potenziali e possibili rischi, alcuni non del tutto prevedibili.
Quello che si rende sempre più evidente è che le nuove tecnologie della informazione e della comunicazione non costituiscono una sfera ‘neutrale’: sta crescendo la consapevolezza delle attuali e possibili implicazioni che possono anche danneggiare il singolo e la collettività.
Sta sempre più sviluppandosi la riflessione etica e bioetica sull’argomento, sia nella letteratura che nelle sedi di organismi istituzionali nazionali ed internazionali. Tra tecnoscientismo tecnofilo e ottimista, che esalta ogni sviluppo della tecnologia in questo settore accogliendolo come un beneficio per l’uomo e l’umanità, e anti-tecnoscientismo tecnofobo e pessimista, che mette in luce le perplessità, le minacce per il singolo e la società presente e futura, emerge nel contesto della riflessione interdisciplinare e pluralista l’esigenza di una ricerca di una riflesisone critica, equilibrata, saggia e prudente, che garantisca il progresso e l’uso delle nuove tecnologie ICT ma che non ostacoli, anzi promuova l’autentico sviluppo dell’identità personale e delle relazioni interpersonali, rispettando i valori umani fondamentali, quali la dignità umana, l’autonomia, la privacy, la responsabilità e la giustizia nell’orizzonte del rispetto dei diritti umani fondamentali.
La rivoluzione digitale sta vivendo un’impressionante accelerazione in questi ultimi anni: si pensi a personal computer, internet, cloud computing, social network, internet of things. Si tratta di una rivoluzione che ha un considerevole impatto a livello politico, economico, sociale in senso lato. Ci siamo ormai abituati al prefisso “ e” davanti a molti nomi in lingua inglese, la lingua ufficiale del web: e-governance, e-commerce, e-health, e-learning. Un segnale della pervasività della dimensione elettronico-informatica nella nostra quotidianità. Una rivoluzione che porta con sé un’inevitabile modificazione del modo di concepire l’identità personale e le relazioni interpersonali [1] .
Si parla di “identità digitale”, espressione che indica come l’identità stia assumendo connotazioni peculiari. L’identità on-line può non corrispondere alla identità off-line: è una identità digitale, disincarnata, virtuale, dinamica e plurale. Un’identità che si costruisce e si modifica sommando frammenti (foto, video, narrazioni digitali) condivisi in rete, che rischia di erodere la dimensione sostanziale, incarnata, della persona autentica e reale. L’identità digitale si costruisce in un processo dinamico: non è una identità fissa, statica, rigida, ma semmai una identificazione dinamica e fluida.
Può essere un’identità inautentica, non corrispondente all’identità reale: una identità fittizia a misura di social network, una fake identity finalizzata a raggiungere una visibilità nella rete, ad accumulare il maggior numero di like e followers, per ampliare la condivisione digitale. Un’identità che si esprime, spesso, come una “vetrinizzazione” di sé, una spettacolarizzazione, un’esibizione di frammenti della propria esistenza, con una rinuncia consapevole (ma non sempre consapevole) alla riservatezza nella ricerca della condivisione [2] . Un’identità che tende a comunicare sempre meno con la voce e le parole, e sempre più con le immagini; la voce e le parole divengono strumento di comunicazione indiretta, registrata nel cogliere un pensiero o un’impressione momentanea, e ascoltata in un altro tempo, disarticolando spazio-temporalmente la comunicazione diretta. La non simultaneità delle conversazioni è ormai sempre più diffusa e sta modificando il modo di usare anche i cellulari: messaggi vocali o immagini registrate e fruibili quando l’utente è disponibile, sostituiscono le telefonate dirette.
Si parla anche di “identità quantificata” ( quantified self): l’identità si costruisce anche sul conteggio delle calorie ingerite, sulla statistica dei passi e del movimento, sul monitoraggio dello stato emotivo. Una quantificazione che, se eccessiva, diviene una nuova forma di vulnerabilità dell’era tecnologica. Si tende ad applicare il metodo scientifico quantitativo alla vita quotidiana, per controllare sé stessi e il mondo esterno, rischiando di dimenticare la dimensione qualitativa della persona umana. La quantificazione di sé può nascere dalla volontà di auto-controllo sul proprio corpo e sulla propria psiche, una sorta di compensazione alle difficoltà o all’impossibilità di controllare il mondo esterno: ma l’ossessiva concentrazione su di sé può portare a ritenere irrilevante il mondo esterno, a ridurre la salute ad una dimensione numerica, nel contesto di una visione riduzionistica antropologica. L’enfasi posta sul controllo individuale può portare inoltre ad incrementare la tendenza all’auto-gestione di sé, impoverendo o forse anche annullando il rapporto con gli altri (si pensi al fenomeno della “salute-fai-da-te”, con possibili gravi rischi per il soggetto).
La quantificazione si inserisce nella ricerca di conformazione ad uno standard “normale”, o anche di superamento dello standard. Ma chi definisce lo standard e la normalità? Sono generalmente gli sviluppatori delle applicazioni scaricabili sui cellulari che definiscono gli standard sulla base di parametri statistici sociali. La standardizzazione porta alla creazione di “norme di comportamento” che tendono ad imporsi (peraltro, spesso in modo arbitrario o meramente statistico), diminuendo la sfera personale di libertà.
I rapporti interpersonali cambiano: è possibile in rete connettersi con più persone contemporaneamente in ogni luogo del mondo, senza barriere di spazio e tempo, dunque oltre la prossimità spazio-temporale. La virtualizzazione e la digitalizzazione della comunicazione hanno portato alla velocizzazione (nel tempo) e alla globalizzazione (nello spazio) dell’interazione umana. Un aumento quantitativo delle relazioni digitali rischia di essere inversamente proporzionale alla dimensione qualitativa: le relazioni “faccia-a-faccia” nella condivisione di interessi e di responsabilità sono sostituite da relazioni virtuali, a distanza e spesso superficiali, episodiche, fungibili. Possono essere centinaia e migliaia gli “amici virtuali”, ove l’amicizia si misura sulla moltiplicazione quantitativa delle connessioni e dei contatti digitali, sulla quantità di “ like” sui social o “ followers” su twitter. Gli amici sono i “seguaci digitali”: l’io cerca il riconoscimento digitale di sé sulla base dell’aumento del numero di contatti [3] .
La spinta verso la condivisione digitale sottrae solo apparentemente l’io dalla autoreferenzialità individuale: emerge un “narcisismo digitale” ed esibito, che consegna idee, immagini, anche confidenze ad ‘estranei digitali’ con i quali stabilisce relazioni anche intime virtualmente ma impersonali per strappare un “mi piace” che viene inteso come conferma della propria esistenza digitale nello spazio della rete. La dislocazione dell’io nella rete, come “potere relazionale sconfinato” è la forma della “alienazione contemporanea”. Alienare significa trasferire ad altri qualcosa che si possiede: la volontà di trasferimento digitale, come esibizione di pensieri, foto, sentimenti, convinzioni politiche, credo religioso.
I figli nati nell’era delle ICT si troveranno, inconsapevolmente, ad essere stati esibiti nella costruzione della loro “storia virtuale” o “memoria tecnologica” con commenti, anche senza averlo scelto [4] . Il tempo da ‘divenire nella durata’ diviene “tempo spazializzato”, compresso nel presente che rende disponibile il passato mediante immagini, video, tocchi ( touch) sullo schermo. La rete rende presente ciò che è passato senza filtri e selezioni. Internet è la “coscienzializzazione della realtà”: l’ esse est percipi di G. Berkeley, l’essere esiste in quanto percepito nella virtualità [5] .
Ma la non autenticità, la non trasparenza, può compromettere la fiducia nei rapporti e sostituirla con una “fiducia digitale” non sempre attendibile. L’interlocutore digitale è reale o virtuale? Scrive ed esprime davvero quello che pensa? Anche nelle relazioni interpersonali può accadere che le persone reali siano inautentiche: ma a volte un’espressione o un comportamento possono fare capire se la persona è sincera o ci inganna. I like non sono facilmente interpretabili nella loro autenticità. Con l’uso di internet e i social network è difficile controllare la veridicità di quello che l’altro dice/scrive. Può essere invece facile l’isolamento, in quanto la connessione rischia di trasformarsi in una de-connessione dal mondo, riducendo alla sola interazione con i like.
La virtualizzazione della comunicazione, da un lato può intensificare, accelerare e contestualizzare la comunicazione, dall’altro può creare una ‘distanza’ spaziale e temporale e/o un isolamento digitale. Nell’ambito della salute, e del rapporto tra medico e paziente, l’uso di internet, dei cellulari o dei social, può aumentare il monitoraggio della salute (il paziente può inviare video o foto per documentare l’evoluzione di una patologia), può compilare un diario elettronico che registra e traccia le reazioni fisiologiche e psicologiche controllabile in tempo reale dal medico, può consentire la rilevazione immediata di effetti collaterali e la misurazione della soglia del dolore del paziente.
Il rischio, in modo particolare nel rapporto medico/paziente, è l’uso del digitale non come integrazione del rapporto interpersonale reale, ma come sostituzione. Esercitare la professione “a distanza” per pazienti non conosciuti, senza un esame obiettivo, senza una comunicazione interpersonale di “vicinanza” e “prossimità” faccia-a-faccia, che si esprime mediante l’ascolto di parole, l’osservazione di percezioni visive, di espressioni e di atteggiamenti può essere rischioso. Da parte del medico può emergere la tentazione di affidarsi alle tecnologie per “fretta” e mancanza di tempo e attenzione nei confronti del paziente. Da parte del paziente emerge la tendenza a rivolgersi a internet senza consultare il medico, tendendo all’autoreferenzialità medica (il c.d. self-patient), sia per la diagnosi che per la terapia (auto-diagnosi e auto-medicazione), senza indicazioni, consulenze e controlli, con molti rischi per la salute. La medicina solo digitale tende a trasformare il rapporto medico/paziente in un contratto utente-consumatore/medico-datore di servizi. Bisognerebbe prima costruire un rapporto di fiducia tra paziente e medico (alleanza terapeutica), con un uso di internet successivo e integrativo, finalizzato ad aumentare la collaborazione, la partecipazione, l’interazione con il medico.
L’uso di ICT, se sostitutivo e non integrativo del rapporto medico/paziente, può allontanare, creare sospetto e sfiducia. Il paziente può rivolgersi a internet perché non ha avuto sufficienti informazioni dal medico o sospetta che non siano informazioni adeguate rispetto al suo problema. Con una possibile perdita o diminuzione della comunicazione interpersonale, il rischio di impoverimento, spersonalizzazione o depersonalizzazione della comunicazione. Il rischio dell’isolamento autoreferenziale del paziente si traduce anche nella possibilità di acquistare farmaci per internet, di comprare farmaci non autorizzati (o autorizzati nel paese che li vende, ma non nel paese di residenza di chi li acquista), senza indicazione e/o prescrizione del medico o interazione con il farmacista (che può sempre fornire consulenze sulle conseguenze indesiderate dovute a interazione con altri farmaci, sulle modalità di assunzione non corrette), senza controllo sullo stato di conservazione dei farmaci, a volte senza chiarezza sui principi attivi. In rete si possono anche comprare test genetici ( direct-to-consumer genetic tests) o body imaging, senza alcuna certificazione dell’autenticità del test e senza consulenza, elemento fondamentale per la comunicazione di possibili patologie anche inguaribili, ad esordio tardivo, ereditate o ereditabili (con il possibile coinvolgimento di familiari), di possibili risultati inattesi ( incidental findings) la cui rilevazione richiede una specifica prudenza, come sempre più sta emergendo nella riflessione bioetica.
I flussi di comunicazione online costruiscono un “ambiente artificiale”, costruito in modo simile all’ambiente naturale: un ambiente artificiale che “vive” nella connessione, nell’accumulo di informazioni. La tecnologia diventa la nostra “protesi sensoriale”, che a volte indossiamo, nella quale siamo immersi e navighiamo [6] . “È il mondo che viene in noi”, senza che sia più necessario “uscire dal mondo”. L’ambiente virtuale è la “realtà artificiale” che simula la realtà naturale e che dilata anche il nostro modo di percepirla. Possiamo uscire dal luogo fisico in cui siamo e interagire nel mondo artificiale, che possiamo manipolare, modificare, rivedere.
L. Floridi parla di “info-sfera” per indicare come le ICT abbiano modificato la nostra interazione con il mondo e la stessa comprensione di noi stessi: non ci percepiamo più come individui, ma come “organismi informazionali interconnessi”, o “inforg”, in un contesto di agenti biologici e artefatti ingegnerizzati, in un ambiente informazionale, detto anche “infosfera” [7] nel contresti della nuova rivoluzione digitale (la quarta) delle tecnologie informatiche.
L’etica di internet si occupa della corretta relazione tra online e offline, nella convergenza tra “rea...