Economia dei sentimenti
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Scritti sulla morale e sulla ricchezza

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Economia dei sentimenti

Scritti sulla morale e sulla ricchezza

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«Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro amor di sé, e a loro non parliamo mai delle nostre necessità ma dei loro vantaggi».È possibile una società armoniosa basata sulla libertà individuale, i cui appartenenti non siano già tutti saggi? Quale potrebbe essere l'origine di questa armonia? Ecco il nocciolo della questione che affrontò Adam Smith con le sue due opere, La ricchezza delle nazioni e la Teoria dei sentimenti morali, sopravvissute alla mummificazione degli storici grazie al dibattito che seppero suscitare. Oggi, però, il suo pensiero è ostaggio di un'ideologia che oblitera le sue domande e trasforma le sue battute in sentenze. Sottrarlo a letture avventate o volutamente parziali significa riprendere in mano i suoi testi, tanto citati quanto poco letti. Egli è noto per aver focalizzato l'attenzione sulla produttività del lavoro, piuttosto che sull'oro o sulla produttività della terra, mediante l'astrazione del lavoro in quantità di tempo, sulla quale Marx avrebbe costruito la sua teoria dello sfruttamento eclissando la questione della morale individuale. Attenzione poco gradita ai neoliberali, che si sono assunti l'onere di condurre Smith nel Terzo millennio, preferendo rappresentarlo come colui che ha mostrato la possibilità di un ordine sociale meccanicistico, basato sull'isolamento egoistico, e quindi di uno svincolamento dell'economia dalla morale. Ma è possibile leggere Smith attraverso Marx o fermarsi alla sua lettura? Siamo inoltre sicuri che Smith parlasse di individui egoisti? La Teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni sono realmente in contraddizione come si è lungamente sostenuto? Nel caso contrario, cosa potrebbe davvero significare? Il rapporto tra economia e morale non è chiuso, ma è fruttuosamente problematico: la possibilità di un accordo tra uomini nel pensiero di Smith ruota intorno a un equilibrio interiore, che ciascuno può guadagnare nel commercio dei sentimenti quotidiani e che costituisce il perno – anzi, i perni, per quanti sono gli uomini – di un equilibrio economico. C'è forse uno Smith tutto ancora da scoprire? C'è forse un abisso tra il liberalismo smithiano e la sua versione ipermoderna? L'ultima parola non spetta né a Marx né ai neoliberali, ma all'attento e libero lettore, che potrà giudicare cosa sia propriamente in gioco nel pensiero di Smith.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855220866

Teoria dei sentimenti morali

(1759)

1. La simpatia.

Per quanto egoista lo si possa supporre, l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principî che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria la loro felicità, sebbene da ciò egli non tragga altro che il piacere di vederla. Di questo tipo è la pietà o la compassione, l’emozione che proviamo per l’altrui miseria, quando la vediamo oppure quando siamo portati a concepirla in modo molto vivo.
Che dal dolore altrui ci derivi spesso dolore, è un dato di fatto talmente ovvio da non richiedere esempi per provarlo, visto che questo sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto circoscritto alle persone virtuose e dotate di umanità, sebbene queste possano forse provarlo con la più squisita sensibilità. Il peggior furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società, non ne è del tutto privo.
Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini provano, non possiamo formarci alcuna idea sul modo in cui essi ne sono toccati, se non con il concepire ciò che noi stessi proveremmo nella medesima situazione. Anche se nostro fratello è sotto tortura, finché noi saremo tranquilli a nostro agio, i nostri sensi non ci informeranno mai di quel che sta soffrendo. Essi non hanno mai potuto, né possono mai, trasportarci oltre la nostra persona, ed è solo con l’immaginazione che noi possiamo formarci un’idea di quali siano le sue sensazioni. Né tale facoltà può aiutarci in questo se non rappresentandoci quali sarebbero le nostre sensazioni se fossimo al suo posto. Sono solo le impressioni dei nostri sensi, non quelle dei suoi, ciò che le nostre immaginazioni riproducono. Con l’immaginazione ci mettiamo nella sua situazione, ci concepiamo mentre sopportiamo tutti i suoi stessi tormenti, entriamo per così dire nel suo corpo, diventiamo in una certa misura la sua stessa persona e da qui ci facciamo un’idea delle sue sensazioni, e sentiamo persino qualcosa che, sebbene di grado più debole, non è del tutto dissimile da esse. Le sue agonie, quando le abbiamo così ricondotte a noi stessi, quando le abbiamo adottate e fatte nostre, cominciano infine a toccarci, e allora tremiamo e rabbrividiamo al pensiero di ciò che egli prova. In effetti, come il provare pena o angoscia di qualsiasi genere provoca il più smisurato dolore, allo stesso modo il concepire o l’immaginare di esserne afflitti suscita un certo grado della stessa emozione, in proporzione alla vivacità o alla debolezza della concezione.
Che questa sia l’origine del nostro sentimento di partecipazione per la miseria altrui, che essa avvenga scambiandosi di posto nella fantasia con chi soffre, e che arriviamo così a concepire ciò che egli sente o a esserne toccati, potrebbe essere dimostrato attraverso molte ovvie osservazioni, se non fosse già abbastanza evidente di per sé.
Quando vediamo che un colpo sta per cadere dritto sulla gamba o sul braccio di un’altra persona, naturalmente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio; e quando cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi e ne siamo feriti come chi lo subisce.
La folla intenta a fissare un funambolo sulla corda, naturalmente si contorce e ruota e bilancia il proprio corpo, così come vede fare a lui e come sente che dovrebbe fare se si trovasse nella sua situazione. Persone di fibra delicata e di debole costituzione lamentano che, nel vedere le piaghe e le ulcere esposte per strada dai mendicanti, tendono a sentire un prurito o una spiacevole sensazione nella parte corrispondente del proprio corpo. L’orrore che concepiscono davanti alla miseria di quei disgraziati colpisce in loro quella parte determinata più che ogni altra, poiché tale orrore proviene dal concepire ciò che essi stessi patirebbero se realmente fossero i disgraziati sui quali stanno posando lo sguardo, e se quella parte determinata fosse effettivamente colpita nello stesso miserabile modo. La forza stessa di tale concezione è sufficiente, nella loro debole struttura, a produrre quel prurito e quella spiacevole sensazione di cui si lamentano. Uomini della più robusta tempra notano che, guardando degli occhi doloranti, spesso provano un dolore davvero sensibile nei loro, e ciò deriva dallo stesso motivo, essendo quell’organo, negli uomini più forti, più delicato di qualsiasi altra parte del corpo negli uomini più deboli.
Né sono solo queste circostanze, che creano sofferenza o dolore, a evocare il nostro sentimento di partecipazione. Qualunque sia la passione che da un qualsiasi oggetto sorge nella persona direttamente interessata, un’emo zione analoga nasce, al pensiero della sua situazione, nell’animo di ogni attento spettatore.
La nostra gioia per la liberazione degli eroi delle tragedie o dei racconti fantastici che ci appassionano è altrettanto sincera della nostra pena per il loro travaglio, e il nostro sentimento di partecipazione per la loro miseria non è più reale di quello per la loro felicità. Accediamo alla loro gratitudine verso quegli amici fedeli che non li hanno lasciati soli nelle avversità e condividiamo il loro risentimento per quei perfidi traditori che li hanno feriti, abbandonati o ingannati. In tutte le passioni cui la mente dell’uomo è suscettibile, le emozioni dell’astante corrispondono sempre a ciò che, riconducendo il suo caso a sé, egli immagina dovrebbero essere i sentimenti di chi sta soffrendo.
Pietà e compassione sono parole appropriate per indicare il nostro sentimento di partecipazione per il dolore altrui. La parola simpatia, sebbene il suo significato fosse probabilmente in origine il medesimo, adesso tuttavia può essere utilizzata, non molto impropriamente, per denotare il nostro sentimento di partecipazione per qualsiasi passione.
In alcune circostanze può sembrare che la simpatia sorga semplicemente dalla vista di una certa emozione in un’altra persona. Le passioni, in alcune occasioni, possono sembrare trasfuse da un uomo a un altro istantaneamente, e prima di qualsiasi conoscenza di ciò che le ha suscitate nella persona direttamente interessata. Pena e gioia, per esempio, vivamente espresse nello sguardo e nei gesti di qualcuno, subito colpiscono lo spettatore con un certo grado di un’analoga emozione dolorosa o gradevole. Un volto sorridente è, per chiunque lo veda, un oggetto che mette di buon umore; così come, d’altro canto, un aspetto triste è un oggetto melanconico.
Tuttavia, ciò non regge universalmente o per ogni passione. Ci sono alcune passioni le cui manifestazioni non suscitano alcun tipo di simpatia ma, prima che noi possiamo essere messi a conoscenza di ciò che ne ha dato occasione, servono piuttosto a disgustarci e provocarci contro di esse. Il comportamento furioso di un uomo in collera è più probabile che ci esasperi contro di lui, piuttosto che contro i suoi nemici. Dal momento che non siamo a conoscenza di ciò che lo ha provocato, non possiamo ricondurre il suo caso a noi stessi, né concepire alcunché di simile alle passioni che esso suscita. Ma scorgiamo chiaramente qual è la situazione nella quale si trovano coloro con i quali egli è in collera e a quale violenza possano essere esposti dinanzi a un così irato avversario. Prontamente, quindi, simpatizziamo con la loro paura o con il loro risentimento, e siamo immediatamente disposti a parteggiare contro l’uomo dal quale sembrano messi in così grande pericolo.
Se la sola manifestazione della pena e della gioia ispira in noi un pari grado di analoghe emozioni, ciò avviene perché esse ci suggeriscono l’idea generale di una qualche buona o cattiva sorte accaduta alla persona in cui le osserviamo; e per tali passioni, ciò è sufficiente affinché esse abbiano una qualche piccola influenza su noi. Gli effetti della pena e della gioia sono limitati alla persona che prova quelle emozioni, le cui espressioni non suggeriscono in noi, come invece quelle del risentimento, l’idea di una qualche altra persona dalla quale siamo coinvolti e i cui interessi sono opposti ai suoi. La generica idea di buona o cattiva sorte, perciò, fa nascere un certo interesse per la persona che vi si è imbattuta, ma la generica idea di provocazione non suscita alcuna simpatia per la collera di chi l’ha ricevuta. Sembra che la Natura ci insegni a essere più restii ad avere accesso a questa passione e, finché non ne conosciamo la causa, a essere disposti piuttosto a parteggiare contro di essa.
Anche la nostra simpatia per la pena o la gioia di un altro, prima di essere informati sulla causa dell’una o dell’altra, è sempre estremamente imperfetta. Lamenti generici, che altro non esprimono se non il tormento di chi soffre, generano più una curiosità di indagare la sua situazione, insieme a una certa disposizione a simpatizzare con lui, che un’effettiva simpatia davvero sensata. La prima questione che poniamo è: «Che cosa ti è successo?». Finché non otteniamo risposta, nonostante la nostra inquietudine per una vaga idea sulla sua sventura, e ancora più perché ci tormentiamo con congetture su ciò che potrebbe essere accaduto, il nostro sentimento di partecipazione non è ancora davvero significativo.
La simpatia, quindi, non sorge tanto dalla vista di una passione, quanto dalla vista della situazione che la suscita. A volte proviamo al posto di un altro una passione della quale lui stesso sembra del tutto incapace, perché quando ci mettiamo nella sua situazione l’immaginazione fa sorgere quella passione nel nostro animo, sebbene la realtà non la faccia nascere nel suo. Arrossiamo per l’impudenza e la rozzezza di un altro, nonostante egli stesso sembri non rendersi conto dell’inappropriatezza del suo comportamento, perché non possiamo evitare di sentire l’imbarazzo nel quale ci saremmo trovati, se fossimo stati noi a comportarci in un modo così assurdo.
Chiunque abbia il benché minimo barlume di umanità considera la perdita della ragione di gran lunga la più atroce di tutte le calamità cui la condizione di mortalità espone il genere umano, e guarda a quell’ultimo stadio dell’umana miseria con la più profonda commiserazione.
Ma il povero sciagurato che si trova in una simile condizione forse ride e canta, del tutto inconsapevole della sua stessa disgrazia. L’angoscia che l’umanità prova a una simile vista, quindi, non può essere il riflesso di un qualche sentimento del sofferente. La compassione dello spettatore deve sorgere interamente dalla considerazione di ciò che egli stesso proverebbe se fosse ridotto nella stessa infelice situazione, e, cosa magari impossibile, se fosse allo stesso tempo capace di osservarla con la ragione e il giudizio che ha attualmente.
Qual è la stretta al cuore che una madre prova quando ascolta i gemiti del suo neonato che, durante l’agonia della malattia, non riesce a esprimere ciò che sente? Nell’idea che si fa di ciò che lui sta patendo, lei unisce all’effettiva impotenza del figlio la sua propria consapevolezza di quell’impotenza e i propri terrori per le conseguenze ignote del suo disturbo; e da tutto questo forma, con suo tormento, la più completa immagine della miseria e dell’angoscia. Il neonato, tuttavia, sente solo il disagio del momento, che non può mai essere enorme. Riguardo al futuro, egli è perfettamente tranquillo e nella sua sconsideratezza e assenza di lungimiranza possiede un antidoto contro la paura e l’ansia, i grandi tormenti dell’animo umano, dai quali la ragione e la filosofia tenteranno invano di difenderlo, quando diventerà un uomo.
Proviamo simpatia anche per i defunti, e trascurando ciò che è di reale importanza nella loro condizione, quello spaventoso avvenire che li aspetta, siamo principalmente toccati da quelle circostanze che colpiscono i nostri sensi, ma che non possono avere alcuna influenza sulla loro felicità. È triste, pensiamo, essere privati della luce del sole, essere tagliati fuori dalla vita e dalla conversazione, essere deposti nella fredda tomba, preda del deperimento e dei vermi della terra, non essere più pensati in questo mondo ma venire cancellati in poco tempo dagli affetti, e quasi dalla memoria, dei più cari amici e parenti. Sicuramente, immaginiamo, non è mai troppo ciò che possiamo provare per coloro che hanno patito una così terribile sciagura. Il tributo del nostro sentimento di partecipazione sembra loro doppiamente dovuto, adesso che corrono il pericolo di essere dimenticati da tutti; e, con i vani onori che rendiamo alla loro memoria, tentiamo, con nostra grande tristezza, di mantenere artificialmente vivo il nostro melanconico ricordo della loro sventura. Che la nostra simpatia non possa offrir loro alcuna consolazione sembra un’aggiunta alla loro disgrazia; e il pensare che tutto ciò che possiamo fare è inutile, e che ciò che allevia ogni altra pena, il rimpianto, l’amore e i lamenti dei loro amici, non può dar loro alcun conforto, serve solo a esasperare la nostra sensazione della loro miseria. La felicità dei defunti, tuttavia, certamente non è toccata da nessuna di queste circostanze, né il pensiero di queste cose può mai turbare la profonda quiete del loro riposo. L’idea di quella cupa e infinita tristezza che la fantasia naturalmente ascrive alla loro condizione sorge interamente dal collegare il cambiamento che si è prodotto in loro alla nostra coscienza di quel cambiamento, dal mettere noi stessi nella loro situazione e dal collocare, se mi è concesso esprimermi così, le nostre anime vive nei loro corpi inanimati, e da lì concepire quali sarebbero le nostre emozioni in una tale situazione. È per questa vera e propria illusione dell’immaginazione che la previsione della nostra dissoluzione è così terribile per noi, e che l’idea di quelle circostanze, che indubbiamente non possono darci pena da morti, ci avviliscono mentre siamo vivi. E da qui sorge uno dei più importanti principî della natura umana: la paura della morte, il grande veleno della felicità, ma anche il grande freno all’ingiustizia umana che, mentre affligge e mortifica l’individuo, custodisce e protegge la società.

2. Il piacere della reciproca simpatia.

Ma quale che sia la causa della simpatia, o comunque essa possa venir suscitata, nulla ci fa più piacere dell’osservare in altri uomini un sentimento di partecipazione con tutte le emozioni del nostro animo; e mai siamo così tanto scossi quanto dalla manifestazione del contrario. Coloro che adorano dedurre tutti i nostri sentimenti da certi raffinamenti dell’amor di sé, credono di non avere alcun problema a render conto, in base ai propri principî, di questo piacere e di questo dolore. L’uomo, affermano, consapevole della propria debolezza e della necessità che ha dell’assistenza degli altri, ogni volta si rallegra nel vedere che questi fanno proprie le sue passioni, perché allora è certo della loro assistenza; e si addolora ogni volta che si accorge del contrario, perché allora è certo della loro ostilità. Tuttavia, sia il piacere sia la pena sono sempre sentiti così istantaneamente, e spesso per così futili motivi, che sembra evidente che nessuno dei due possa esser fatto derivare da considerazioni così autointeressate. Un uomo è mortificato quando, dopo essersi sforzato di divertire la compagnia, si guarda intorno e vede che nessuno tranne lui ride alle sue facezie. Al contrario, l’ilarità della compagnia gli è profondamente gradita e considera questa corrispondenza dei loro sentimenti ai suoi come il più grande degli applausi.
Il suo piacere non sembra nascere del tutto dalla vivacità supplementare che la sua gaiezza può ricevere dalla simpatia per quella degli altri, né la sua pena dalla delusione che incontra quando perde questo piacere; tuttavia, sia l’una sia l’altra, senza dubbio, vi contribuiscono in qualche misura. Quando abbiamo letto un libro o un poema così tante volte da non poter più trovare alcun diletto nel leggerlo per noi stessi, possiamo ancora prenderci il piacere di leggerlo a un amico. Per costui esso ha tutte le grazie della novità; noi accediamo alla sorpresa e all’ammirazione che esso naturalmente provoca in lui, ma che non è più capace di suscitare in noi; consideriamo tutte le idee che presenta nella luce in cui appaiono a lui, piuttosto che in quella in cui appaiono a noi, e siamo divertiti dalla simpatia per il suo divertimento, che così ravviva il nostro. Al contrario, ci sentiremmo delusi se lui non ne sembrasse affatto divertito e potremmo non avere più alcun piacere a leggerglielo. È lo stesso caso qui. L’ilarità della compagnia, senza dubbio, ravviva la nostra e il loro silenzio, senza dubbio, ci amareggia. Ma, nonostante ciò possa contribuire tanto al piacere che ci deriva dall’uno quanto alla pena che proviamo nell’altro caso, non è affatto la loro unica causa; e questa corrispondenza dei sentimenti altrui con i nostri sembra essere una causa di piacere, e la sua mancanza causa di pena, che non può essere spiegata in questo modo. La simpatia che i miei amici esprimono per la mia gioia, potrebbe, in verità, procurarmi piacere ravvivando quella gioia: ma la simpatia che esprimono per il mio dolore non potrebbe procurarmene alcuno, se servisse soltanto a ravvivare tale dolore. La simpatia, comunque, ravviva la gioia e allevia il dolore. Ravviva la gioia presentando un’altra fonte di soddisfazione e allevia il dolore insinuando nel cuore pressoché l’unica sensazione gradevole che è capace in quel momento di accogliere. È stato osservato, di conseguenza, che siamo più ansiosi di comunicare ai nostri amici le nostre passioni spiacevoli piuttosto che quelle piacevoli, che traiamo ancora più soddisfazione dalla loro simpatia per le prime piuttosto che per le seconde, e che siamo ancora più scossi dalla sua mancanza.
Quanto sono sollevati gli sfortunati quando trovano qualcuno cui poter comunicare la causa della loro sofferenza? Grazie alla sua simpatia sembrano alleggerirsi di una parte della loro angoscia: non è scorretto dire che egli se la spartisce con loro. Non solo egli sente un dolore dello stesso tipo di quello che essi sentono ma, come se avesse preso una parte di esso per sé, ciò che lui prova sembra alleviare il peso di ciò che essi provano. Eppure, raccontando le loro sventure, in qualche misura rinnovano il loro dolore e risvegliano nella loro memoria il ricordo di quelle circostanze che hanno dato luogo alla loro afflizione. Le loro lacrime, di conseguenza, sgorgano più velocemente di prima ed essi tendono ad abbandonarsi a tutte le debolezze della sofferenza. Tutto ciò, però, fa loro piacere e in tutta evidenza li conforta sensibilmente; perché la dolcezza della sua simpatia compensa ampiamente l’amarezza di quel dolore che, per suscitare questa simpatia, loro hanno così ravvivato e rinnovato. Al contrario, l’offesa più crudele che si possa fare allo sventurato è mostrare di prendere alla leggera le sue sciagure. Non sembrare toccati dalla gioia dei nostri compagni non è altro che una mancanza di garbo, ma non assumere un contegno serio quando ci raccontano le loro sofferenze è segno di reale e grave inumanità.
L’amore è una passione gradevole, il risentimento una passione sgradevole; e di conseguenza, non siamo nemmeno la metà così ansiosi che i nostri amici condividano le nostre amicizie, di quanto siamo ansiosi che abbiano accesso ai nostri risentimenti. Possiamo perdonare che sembrino poco toccati dalle cortesie che potremmo aver ricevuto, ma perdiamo completamente la pazienza se sembrano indifferenti agli insulti che potremmo aver ricevuto: non siamo nemmeno la metà in collera con loro se non condividono il nostro sentimento di gratitudine, di quanto lo siamo se non simpatizzano con il nostro risentimento. Possono facilmente evitare di essere amici dei nostri amici, ma difficilmente possono esimersi dall’essere nemici di coloro con i quali siamo in dissidio. Raramente ci risentiamo se sono in cattivi rapporti con i primi, benché ciò possa a volte portarci a qualche imbarazzante bisticcio con loro; ma litighiamo in tutta onestà se vivono in amicizia con i secondi. Le gradevoli passioni dell’amore e della gioia possono soddisfare e riempire il cuore senza alcun piacere ausiliario. Le amare e dolorose emozioni della pena e del risentimento richiedono più decisamente la salutare consolazione della simpatia.
Come la persona principalmente coinvolta in un determinato evento è compiaciuta della nostra simpatia e irritata dalla sua assenza, così anche noi sembriamo compiaciuti quando siamo capaci di simpatizzare con lei e irritati quando non ne siamo capaci. Non solo corriamo a congratularci con chi ha avuto successo, ma anche a condolerci con chi è afflitto; e il piacere che troviamo nel conversare con qualcuno per il quale possiamo simpatizzare rispetto a ogni passione del suo cuore sembra più che compensare la penosità della sofferenza con la quale la vista della sua situazione ci tocca. Al contrario, è sempre spiacevole accorgerci che non riusciamo a simpatizzare con lui e invece di essere rallegrati per questa esenzione dalla pena simpatetica, ci urta scoprire che non riusciamo a condividere la sua inquietudine. Se ascoltiamo una persona lamentarsi ad alta voce delle sue sfortune, che, tuttavia, riconducendo il suo caso a noi stessi, sentiamo che non possono produrre un effetto così violento su di noi, allora siamo sconcertati dal suo dolore; e poiché non riusciamo ad accedere a questo sentimento, chiamiamo tutto ciò viltà e debolezza. D’altro canto, ci mette di malumore vedere che un altro è troppo felice o addirittura esaltato, come si dice, per un pizzico di fortuna. Siamo anche contrariati dalla sua gioia; e poiché non riusciamo a condividerla, la chiamiamo superficialità e stoltezza. Ci mette di cattivo umore persino un compagno che ride a uno scherzo più forte o più a lungo di quanto pensiamo non meriti, cioè più di quanto sentiamo che potremmo riderne noi.

3. Il giudizio sull’appropriatezza delle affezioni altrui.

Quando le passioni originali della persona direttamente interessata sono in perfetta concordanza con le emozioni simpatetiche dello spettatore, necessariamente esse appaiono a quest’ultimo giuste e appropriate, e adeguate ai loro oggetti; e al contrario, quando, riconducendo il caso a sé, trova che esse non coincidono con ciò che sente, esse necessariamente gli sembrano ingiuste e inappropriate, e inadeguate alle cause che le suscitano. Approvare le passioni di un altro, quindi, in quanto adeguate ai loro oggetti, equivale a osservare che simpatizziamo interamente con esse; e, non approvarle come tali, equivale a osservare che con esse non simpatizziamo affatto. Colui che si risente per le offese che mi vengono fatte e che osserva che io mi risento allo stesso modo, necessariamente approva il mio risentimento. L’uomo la cui simpatia accompagna la mia pena non può che ammettere la ragionevolezza del mio dolore. Chi ammira la stessa poesia o lo stesso dipinto esattamente come li ammiro io deve sicuramente riconoscere la giustezza della mia ammirazione. Chi ride alla stessa battuta e rid...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Introduzione di Michele Bee
  6. La ricchezza delle nazioni (1776)
  7. Teoria dei sentimenti morali (1759)
  8. Estratto dalla lettera all’«Edinburgh Review» (1755)
  9. Nota biografica