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L'architettura e le sue storie

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L'architettura e le sue storie

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Perché le storie dell'architettura moderna passano in pochi anni da grandi affreschi a indagini per specialisti? Perché lo storico dell'architettura viveva il suo lavoro come impegno intellettuale che si esercitava non solo negli archivi, ma anche alla radio, nei circoli sindacali e politici, in definitiva in comunità più allargate, e oggi si accontenta di una riconoscibilità quasi tra adepti? Perché il nodo che arrovellava gli storici era la funzione di quella scrittura mentre oggi è la difesa di una professione, delle sue regole interne, del riconoscimento che altri storici possono tributare al lavoro di ricerca storiografica? L'architettura pone a chi la voglia indagare questioni complesse, a partire dall'incipit: quali sono le fonti di questa storia. I disegni, i cantieri, le opere costruite, gli usi? È una storia che si scontra con i problemi più delicati per chi esercita il mestiere dello storico: le grandi architetture, così come quelle quotidiane, sono esempi straordinari di anacronismo che le catastrofi rendono espliciti, come nel caso dell'incendio della cattedrale di Notre-Dame. Ma la storia dell'architettura è anche una storia dei limiti, delle scansioni temporali, dei protagonisti delle vicende giuridiche e politiche. Esistono valori, credenze, modelli che siano europei o universali, locali o nazionali? È la storia dell'architettura a contribuire a definire patrimoni, icone, valori che si vorrebbe appartenessero a un'umanità oggi davvero ardua da definire. Quello dello storico dell'architettura è un mestiere che entra nella vita quotidiana dei cittadini, e, insieme, è un mestiere chiamato a definire gli scenari, gli immaginari, le stesse retoriche del mondo in cui viviamo. L'architettura e le sue storie sono parte del nostro modo di abitare la città, di viaggiare e conoscere la diversità, di pensare il futuro. Il libro vuole offrire non solo l'occasione di una riflessione sulle storie, ma anche di una possibile verifica sul modo in cui poi la storia si scrive, scegliendo quattro esempi, che toccano temi tra i più delicati di questa straordinaria materia.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855220859

VI. Ritornare sulle Esposizioni Universali

Nel 1950, nella prima edizione della sua fortunata Storia dell’architettura moderna, Bruno Zevi individua nel Crystal Palace e nell’Esposizione Universale di Londra del 1851 l’incipit della modernità1. Nel 2012 Jean-Louis Cohen a sua volta situa, nella sua worldwide history, quell’incipit in un’altra Esposizione Universale, quella parigina del 18892. Non sono che due casi significativi di quanto quelle che vengono generalmente presentate come vetrine del progresso costituiscano in realtà uno degli enigmi e una delle ambiguità maggiori della stessa periodizzazione della storia dell’architettura moderna. E rimangano sino a oggi una delle sfide più difficili per lo storico che si occupa di età contemporaneista3.
A iniziare dalla scelta di distinguere una modernità dentro la contemporaneità, un periodo storico che anch’esso darà luogo a diverse scansioni temporali. È soprattutto tra gli anni settanta e ottanta del Novecento che il dibattito sulle origini e sulla conclusione della contemporaneità più si accende, mentre si apre la discussione proprio sulla distinzione, ancora oggi praticata, tra modernità e contemporaneità. Sono storici dell’architettura (Joseph Rykwert e Robin Middleton), come storici modernisti e contemporaneisti (Lawrence Stone ed Eric Hobsbawm), a spostare quei confini tra il 1711 e i Caracteristics di Shaftesbury4, e il 1989 e la caduta del Muro di Berlino, tanto per assumere le date più estreme di quella discussione. Di nuovo, anche per la storia delle Esposizioni Universali possono essere delle parole chiave a segnare quel dibattito, uscendo dal senso comune5 di una storiografia che unifica sotto il termine di avanguardie storiche le esperienze che si diffondono in Europa dal 1916 e che avranno proprio in un’Esposizione, quella parigina del 1925, uno dei suoi momenti pubblici più importanti6. Ma non solo.
1. Il tempo nelle Esposizioni Universali.
Le Esposizioni Universali sono l’autentico cimitero di scansioni della storia contemporanea fondate sullo stile, l’industrializzazione, l’innovazione, la pedagogia e la scoperta scientifica, sino a far capitolare anche la specializzazione: ultima frontiera nel nuovo millennio, di una storiografia contemporanea rifugiatasi nelle procedure e nella riduzione a infinito del caso di studio7. Non senza paradossi, le Esposizioni Universali sono anche la sterilizzazione di un’altra chiave di lettura della modernità: la merce e la mercificazione di ogni prodotto umano8. Le Esposizioni Universali come vetrina delle merci hanno fatto la stessa fine delle Esposizioni come vetrina del progresso, lasciando lo storico e la storiografia quasi con la cassetta degli attrezzi svuotata. Ma è anche un altro aspetto centrale, già nelle Esposizioni Universali ottocentesche, a entrare in discussione e a mutare il quadro di riferimento della storia contemporanea. Le Esposizioni sono il laboratorio fondamentale di un’alleanza che sembra, pur con tutte le sue diverse declinazioni, non scalfita ancora oggi: quella tra artista e critica, tra opera d’arte e funzione di legittimazione che la critica svolge nell’arte contemporanea9, funzione sempre più importante mano a mano che si entra nel Novecento e nelle strade diverse che prendono il rapporto tra récit ed événement10.
Regno dell’azione volontaria – con la conseguente esaltazione dell’intenzionalità dell’azione di chi la progetta o la realizza – espressione tra tutte di una vita effimera dei prodotti e dei simboli che sembra rendere congiunturali misure, calcoli, razionalità e usi che, una volta chiusi i cancelli delle Esposizioni, ripropongono nuovi, incerti confini di ritrovati e metaforici Jardins de Soubise11. Discrasie, diacronie, persino anacronismi12, che le Esposizioni sembrano rendere quasi troppo didascaliche, alimentano, insieme, il naturalismo della fonte e il trionfo dell’esegesi sull’esegesi. La discontinuità appare fondata sulla pluralità dei «fatti» che si generano nei suoi recinti. L’unità sembra ritrovarsi su un’idea di modernità e poi di modernizzazione con le relative egemonie (di tecnica, mercato, estetizzazione della vita sociale) che le Esposizioni metterebbero in scena e che le Esposizioni stesse si peritano di smentire. Una ricerca di legittimazione per la storia di un avvenimento effimero, tutta esterna alla costituzione di quel fatto che è l’Esposizione, che finisce con il negarne quasi la specificità: l’Esposizione la si studia per la folla, le macchine, la fotografia, le feste, la copia, l’esotismo, tutti fenomeni che hanno le loro storiografie e soprattutto le loro misure13.
La difficoltà dell’esercizio fondamentale dello storico, la comparazione14 (e la quasi conseguente accettazione di una storiografia tutta narrativa)15, non riposa per le Esposizioni, occorre forse ricordarlo, su una pluralità di tempi storici nata dalla problematicità che un oggetto così denso di avvenimenti e attori porta con sé. La difficoltà sembra nascere piuttosto dalla stessa costituzione del fatto che si vuole studiare – le Esposizioni appunto – che non avrebbero un proprio statuto, che anzi sembrano spesso giocare i propri dispositivi argomentativi, non solo di legittimazione, sull’indeterminatezza di quello status. Non solo, ma sull’essere forse l’esempio più paradigmatico des régimes d’historicités16.
Il rischio di accentuare il naturalismo della fonte (in presenza di un oggetto peraltro quasi immateriale) e il relativismo dell’interpretazione legittimato dalla densità degli avvenimenti che si stratificano persino nell’oggetto effimero, quasi per antonomasia, pongono, ancor più oggi rispetto al 1990, quando per la prima volta ci trovammo Linda Aimone e io a lavorare sulle Esposizioni Universali17, come preliminare la necessità di riconcettualizzare l’oggetto di studio.
Cosa siano o come si considerino le Esposizioni Universali si ripropone come l’enigma e l’ambiguità irrinunciabile attraverso cui provare a costruire tematizzazioni, periodizzazioni, rotture e a riconoscere un universo di protagonisti, altrimenti davvero quasi scoraggiante anche solo per numero. La storiografia del contemporaneo ha già abbandonato, o frammentato sino alla biografia di un edificio, la storia urbana: le Esposizioni Universali sono oggetti di studio, fatti, non avvenimenti, come scrivono Gianna Pomata e Simona Cerutti nel 200118, ben più complessi.
È solo se si accetta di non spiegare tutto avvicinando vicende culturali e accettando un’idea astorica, estetica e ubiquitaria della forma (architettonica, artistica, del prodotto di un design sempre più presente in tutte le sue declinazioni con gli anni), che si può riprendere a lavorare sulle Esposizioni. Solo così facendo si mette in discussione l’alibi della complessità che vedrebbe intrecciarsi nella genesi dello spazio e nell’ordinarsi delle pratiche delle Esposizioni, immaginari, diritti e valori, azioni individuali e dimensioni di massa della produzione e del mercato, senza nessun possibile ordine. Le Esposizioni allora come simbolo, un po’ consumato in realtà, dei non luoghi, della società liquida, della città diffusa, della merce come forma di collezionismo?
Le Esposizioni possono essere un campo di studio privilegiato per mettere alla prova una storiografia che ha fatto dell’azione individuale e del rifiuto della storicità dei propri strumenti di lavoro due paradigmi. È sufficiente leggerle per settori e le Esposizioni Universali diventano esercizi di periodizzazione validi per quasi ogni specializzazione dei saperi scientifici e sociali: per i fisici della luce sino al 1862, per l’industria bellica sino al 1889, per gli architetti sino al 1893. I fotografi ne accompagnano la storia sino al 1900, il nazionalismo ne scandisce paradossalmente l’identità sino al secondo dopoguerra19. Se si analizzano cioè le singole sezioni di cui è composta un’Esposizione, ogni ipotesi di periodizzazione che basi la sua legittimità sulla produzione di quel fatto (e spesso su fatti trasformati poi in apologhi) sembra lasciare spazio solo alla frammentazione del tempo, con tutte le imperfezioni e le sovrapposizioni che esso comporta nella costruzione di quella narrazione unitaria che ne fece la sua fortuna e che suscitò, in quanto tale, critiche sin dal 1851, e da John Ruskin e dalla sua critica alla ricostruzione di un’architettura già all’origine effimera: una copia ingigantita e nazionalizzata!20
Eppure le tematizzazioni che riconducono un oggetto tanto variegato a unità, sono volute e ricercate dai promotori, sono analizzabili se si pone il problema della genesi del documento Esposizione Universale come un problema cognitivo, nelle tante relazioni che accompagnano la nascita, la progettazione, la costruzione e la ricezione delle stesse21. Sono quasi il paradiso perduto della «conoscenza storica». Le attribuzioni, le certificazioni, le affermazioni cui abbiamo accesso attraverso la documentazione, ancora una volta, si dimostrano il frutto di costruzioni di senso, che spetta allo storico disvelare: che nulla hanno di naturale. Non solo. Ma soprattutto la convinzione che i due dispositivi fondamentali nelle Esposizioni Universali, l’argomentazione e la legittimazione, non possono essere separati dalla produzione di senso che le fonti, non tanto i singoli documenti, generano22.
Come risponde a queste premesse la ricchissima produzione storiografica che con il tema delle Esposizioni Universali di secondo Ottocento, e ancor più dell’intero Novecento, si è confrontata nei trent’anni che seguono la stampa del libro di Linda Aimone e mio? È proprio il rapporto tra produzione delle fonti e frammentazione della ricerca storiografica a generare testi che non affrontano le Esposizioni Universali come un «fatto» unitario e non unico. È questa l’emergenza storiografica che si deve affrontare. Proprio la lunga stagione della celebrazione della complessità, che ha segnato anche la storia urbana, quasi si ferma davanti al fenomeno che condensa e anticipa quella stagione23: finendo con il celebrare il frammento, la traccia, l’indizio24. Solo nel 2006 esce negli Stati Uniti un testo che cerca di conservare l’unità del tema, privilegiando l’argomentazione industriale, in un clima segnato dall’imminente crisi economica e dalla profonda ridiscussione sullo statuto stesso dell’industrializzazione25. Altri testi si presentano invece come guida dell’intero ciclo delle Esposizioni Universali26 o ritagliano, sempre sull’intero arco temporale, una chiave di lettura molto specifica27. L’attenzione di storici di formazioni eterogenee restituisce così uno spaccato alquanto suggestivo dello stato dell’arte degli studi storici su una contemporaneità che l’enfasi sulla complessità sembra aver privato di tensione e reale motivazione allo studio.
La maggiore attenzione in anni recenti è dedicata alle monografie e, dentro queste, a due Esposizioni in particolare, quella di Londra del 1851 e quella di Chicago del 1893. Nel caso di Londra è l’anniversario a sollecitare la pubblicistica. Tra il 1999 e il 2001 escono da narrative histories a studi interdisciplinari dedicati a quell’Esposizione, per focalizzare poi l’interesse dello storico su un argomento che attraversa il dibattito storiografico e che segnerà il nuovo millennio: shaped a Nation, per riprendere il sottotitolo del testo forse più interessante sull’Esposizione Un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Introduzione
  7. I. Sulla conoscenza storica in architettura
  8. II. La storia dell’architettura contemporanea: dalla narrazione alla professionalizzazione. Cinquant’anni su cui riflettere
  9. III. Il cruccio di un diritto ordinario
  10. IV. Ideali e idoli: la storia dentro la scuola di architettura
  11. V. Tra unicità e mercato: la storiografia urbana tra politica e democrazia
  12. Metamorfosi
  13. VI. Ritornare sulle Esposizioni Universali
  14. VII. L’Europa vista dai tetti del Birkbeck College
  15. VIII. Un impossibile dialogo tra Achab e Starbuck
  16. IX. L’envers du miroir