Alle origini della crisi.
La modernità individualizzata e la sindrome narcisistica
«Postmodernità» (LYOTARD 2014), «modernità liquida» (BAUMAN 2007), «surmodernità» (AUGÉ 2009a), «ipermodernità» (CODELUPPI 2013a) sono alcune delle formule coniate negli ultimi decenni per descrivere la società e la cultura contemporanee.
Non è questa la sede per avviare una discussione teorica su quale di esse sia la più appropriata. Se, cioè, sia più corretto parlare di «postmodernità» per indicare una cesura, un superamento delle caratteristiche della società moderna o se invece sia più opportuno considerare l’epoca attuale come una prosecuzione, senza soluzione di continuità, della modernità «solida» (BAUMAN 2007): un apice, una sua estremizzazione e intensificazione.
Ognuna di queste formule coglie un aspetto importante e reale della transizione culturale in corso da decenni. Il concetto di postmodernità è per certi versi più epistemologico-filosofico, non a caso si fa spesso riferimento alla definizione di Lyotard sulla progressiva «incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (2014, p. 6), ossia sulla crisi profonda di fiducia e di unitarietà che ha colpito la trasmissione del sapere – la scienza, il progresso, la ricerca, la cultura, le religioni, le “visioni del mondo” e le autorità cognitive – nella seconda metà del Novecento1, fino a sfociare nella società della post-verità.
Le formule che invece fanno riferimento a un’evoluzione continua ed “estrema” della modernità puntano maggiormente sugli aspetti socio-psicologici, quali individualismo, liberazione, secolarizzazione, flessibilità, deregolamentazione, deistituzionalizzazione, perdita del senso sociale, velocità, presentismo, narcisismo. Come sostiene Codeluppi, secondo questa interpretazione «la stessa modernità viene portata all’eccesso, in quanto è soggetta a un processo di accelerazione e intensificazione dei principali fenomeni che l’hanno da sempre contrassegnata, e diventa pertanto “ipermodernità”» (2013, cap. 1, par. 1).
Ci sarebbe anche una terza lettura, quella che accetta l’etichetta della postmodernità, riconoscendone una sua specificità, ma la interpreta in continuità con alcune fasi moderne. Rientra all’interno di questo filone David Harvey. Egli sostiene che, sia dopo la crisi del 1847-48, sia negli anni antecedenti la prima guerra mondiale, sia ancora in quelli compresi tra le due “grandi guerre”, la modernità abbia vissuto periodi di trasformazione socio-culturale per certi versi simili a quanto sarebbe accaduto in seguito, cioè a partire dagli anni ’60 del Novecento. Tuttavia, aggiunge che «l’intensità della compressione spazio-temporale nel capitalismo occidentale a partire dagli anni sessanta, con tutte le sue caratteristiche di eccessiva fuggevolezza e frammentazione in campo politico, privato e sociale, sembra indicare un contesto di esperienza che rende la condizione postmoderna in qualche modo speciale» (2010, p. 374).
La posizione di Harvey è interessante perché da un lato, appunto, accetta e impiega la formula del “postmodernismo” – e riconosce anche una sua differenza ontologica – ma dall’altro contesta che la modernità sia descrivibile tout court e in tutte le sue fasi come il trionfo della razionalità, del positivismo, del tecnocentrismo, della fede nel progresso e nelle visioni del mondo, della morale e del diritto universali, della standardizzazione della conoscenza e della produzione2. La sua è un’interpretazione critica che di fatto non fa coincidere perfettamente modernità e progetto illuministico e mette in luce la presenza di momenti specifici in cui – per varie ragioni, tra cui diverse crisi del sistema capitalistico – si sono prodotte trasformazioni importanti già in piena epoca moderna, in linea con quanto si sarebbe poi verificato nella seconda metà del Novecento. Specie dopo Nietzsche e Freud – scrive Harvey – si iniziò a «riconoscere l’impossibilità di rappresentare il mondo con un unico linguaggio. La conoscenza doveva essere costruita attraverso l’esplorazione di una molteplicità di prospettive. Il modernismo, insomma, fece del prospettivismo multiplo e del relativismo la propria epistemologia per rivelare ciò che ancora considerava la vera natura di una realtà sottostante unificata anche se complessa» (Ivi, p. 46). Tuttavia, se nel secolo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento il modernismo ha vissuto strappi e metamorfosi importanti, Harvey sottolinea come dal 1945 diventi egemone il «modernismo universale», riprendendo esattamente il filo illuministico abbandonato a più riprese un secolo prima:
La fede nel progresso lineare, nelle verità assolute e nella pianificazione razionale di ordini sociali ideali in condizioni standardizzate di conoscenza e produzione era particolarmente profonda. Il modernismo che ne risultava era di conseguenza positivistico, tecnocentrico e razionalistico e veniva imposto come opera di un’avanguardia elitaria di urbanisti, artisti, architetti, critici e altri guardiani del gusto. La modernizzazione delle economie europee procedeva di buon passo, mentre l’impulso della politica e del commercio internazionale era giustificato in quanto determinava un processo di modernizzazione benevolo e progressista per un Terzo mondo arretrato (Ivi, p. 52).
È anche questo ritorno dirompente della modernità universale che spinge Harvey a riconoscere che il postmoderno rappresenti comunque qualcosa di nuovo e di originale nel panorama culturale occidentale. Dopo la seconda guerra mondiale, nel giro di circa venti anni, prende quindi forma un movimento che non può essere considerato semplicemente uno dei tanti passaggi critici della modernità. «Il postmodernismo con la sua enfasi sull’effimero della jouissance, la sua insistenza sull’impenetrabilità dell’altro, il suo concentrarsi sul testo anziché sull’opera, la sua tendenza alla decostruzione che sfiora il nichilismo, la sua preferenza per l’estetica rispetto all’etica, spinge le cose troppo in là» (Ivi, p. 147).
Come anticipato, non è questa la sede per discutere della bontà o dell’attendibilità delle varie formule e dei percorsi interpretativi impiegati per descrivere la contemporaneità. Mi interessano invece le conseguenze socio-culturali e i mutamenti psico-sociali che derivano dalle dinamiche più recenti e che, a mio avviso, costituiscono le principali variabili indipendenti dell’odierna crisi della democrazia. Per tale ragione, utilizzerò i termini in maniera interscambiabile, come peraltro fanno quasi tutti gli autori fin qui menzionati.
A questo fine, inizierò questo percorso di analisi partendo dalla descrizione seguente di Bauman, che, a differenza di Harvey, non tratteggia la modernità come un processo complesso, aperto e ondivago, bensì in maniera più schematica e semplificata. Scegliere questa linea aiuta a far emergere le specificità dell’epoca contemporanea, per differentiam:
La modernità pesante/solida/compatta/sistemica della “teoria critica” aveva un’endemica tendenza al totalitarismo. La società totalitaria fatta di un’omogeneità onnicomprensiva, compulsiva e coatta spuntava costantemente e minacciosamente all’orizzonte, come sua destinazione finale […] Quella modernità era un nemico giurato della contingenza, della varietà, dell’ambivalenza, dell’indocilità e dell’idiosincrasia, tutte “anomalie” cui aveva giurato guerra; e tutti si aspettavano che le prime vittime della crociata sarebbero state la libertà e l’autonomia individuale. Tra le principali icone di quella modernità troviamo la fabbrica fordista, che ridusse le attività umane a movimenti semplici, standardizzati e in grande misura preprogrammati, da seguire ubbidientemente e meccanicamente senza impegnare alcuna facoltà mentale e tenendo alla larga la spontaneità e qualsiasi iniziativa individuale; la burocrazia, affine al modello ideale di Max Weber, nel quale identità e legami sociali venivano lasciati all’ingresso insieme a cappelli, ombrelli e impermeabili, di modo che solo l’ordine e lo statuto potessero pilotare, incontestati, le azioni dei membri fino a quando vi avessero preso parte; il Panopticon, con le sue torrette di guardia e i membri condannati a una vigilanza perenne da parte di guardiani costantemente all’erta; il Grande Fratello, che non dorme mai, sempre pronto e puntuale nel premiare il fedele e punire l’infedele; e – infine – il Konzlager, il luogo in cui i limiti della malleabilità umana venivano testati con esami di laboratorio, dove chiunque fosse considerato non abbastanza malleabile era condannato a morire di fatica oppure finiva in una camera a gas o in un forno crematorio (BAUMAN 2007, pp. 15-16).
Fabbrica fordista, burocrazia, Panopticon, Grande Fratello e campi di concentramento: queste sono le icone individuate da Bauman per descrivere le caratteristiche-chiave della modernità solida. Stiamo parlando, è evidente, del Novecento più pieno, del “secolo breve” per dirla con Hobsbawn, quello compreso tra la prima guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino. Degli anni, cioè, in cui la modernità raggiunge il suo apice filosofico, epistemologico e politico, con il risvolto oscuro, sempre dietro l’angolo, delle degenerazioni e delle paure totalitarie.
Era una modernità solida perché fondata su “certezze”, tra molte virgolette vista la loro vita breve. Le metanarrazioni funzionavano come simboli identitari e scorciatoie cognitive, la fede nel progresso era fuori discussione, le comunità erano legittimate e fondate su un pensiero “forte”, la politica viaggiava prevalentemente su binari ideologici, blocchi sociali di riferimento e comportamento di voto stabile perché basato su credenze solide e non su opinioni volatili.
Tuttavia, «il senso della storia, il volontarismo rispetto all’evento, il rifiuto della contingenza e quell’eredità dell’Illuminismo che è l’ineludibile legame tra progresso scientifico, progresso materiale e progresso morale» (AUGÉ 2009a, p. 10) hanno iniziato lentamente a modificarsi a partire all’incirca dagli anni ’60 del Novecento e a produrre un graduale lavorio (e logorio) che ci condurrà allo scenario contemporaneo. Le visioni del mondo della modernità solida – i «miti escatologici universalistici» di cui parla Augé – sono progressivamente venute meno, lasciando spazio a un’ideologia del presente caratteristica della società dei consumi.
Cosa è cambiato in questi decenni e perché?
Pluralismo e individualizzazione
«Oggigiorno modelli e configurazioni non sono più “dati”, e tantomeno “assiomatici”; […] ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione. […] Il nostro è un tipo di modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’onere di tesserne l...