Per amore del mio popolo
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Don Peppino Diana, vittima della camorra

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Don Peppino Diana, vittima della camorra

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a cura di Goffredo Foficon i contributi di Nicola Alfiero, Donato Ceglie, Goffredo Fofi, Amato Lamberti, mons. Raffaele Nogaro, Isaia Sales e Conchita Sannino.Quando don Diana venne ucciso dalla camorra (la sua storia è tornata a essere famosa grazie al successo di Gomorra) alcuni amici vollero ricordarlo raccogliendo i suoi scritti e aggiungendovi testimonianze e saggi di giornalisti, politici, volontari, magistrati, sociologi sul suo operato e sulla zona in cui egli operava, Casal di Principe, regno delle "famiglie" criminali che ne avevano deciso la morte.Il libro uscì pochi mesi dopo il delitto, a spese di pochi amici, presso l'editore napoletano Pironti con i contributi di Nicola Alfiero, Donato Ceglie, Goffredo Fofi, Amato Lamberti, mons. Raffaele Nogaro, Isaia Sales e Conchita Sannino.Ci è parso opportuno riproporlo per il suo valore di testimonianza, di riflessione e di scandalo, e perché nel frattempo molti libri hanno raccontato la vita di don Diana, basandosi su questo, e raramente citandolo.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788863571066
Argomento
History

Don Peppino Diana, nella sua zona

Il ministero del sangue di Raffaele Nogaro1

Una espressione palpitante di santa Caterina da Siena sostiene che i sacerdoti sono “ministri del Sangue”. E don Peppino Diana era sacerdote genuino.
La semplicità della sua vita si stendeva su tutti gli amici come le lenzuola bianche che, nel giorno del suo funerale, scendevano dai balconi del paese natale a commemorare il suo martirio.
Rimase libero come l’onnipotenza dell’amore. Così ha sparso il suo sangue, giovane e impaziente come il Cristo, perché “non c’è redenzione senza spargimento di sangue”.
Ed è divenuto il simbolo della risurrezione delle nostre terre.
Non sapeva, forse, che questo era il suo destino. Si riconosceva, solo, un povero ma solerte lavoratore “nella vigna del Signore”. Metteva volentieri tutta la sua vita e tutta la sua cultura nella missione universale della sua Chiesa.
Una pastorale conciliare, convintamente praticata, rese la comunità, di cui don Peppino era parroco, un vigoroso popolo di Dio in cammino.
Egli sapeva che se la vita dei cristiani non è conforme alla verità di Cristo, la verità finisce per scomparire dalla storia. E la verità di Cristo è l’amore per l’uomo. Bisogna riportare alla pratica cristiana la rivelazione del Padre, che continuamente crea, illumina, perdona, consola e salva.
Per questo, il parroco di Casal di Principe s’era fatto “cultore della parola”.
Se l’uomo del nostro tempo attende ancora qualcosa, è proprio la parola. Quella vera. Quella che non riporta soltanto il linguaggio di una politica, di una istituzione e di una consuetudine. Ma la parola che trasfigura l’uomo, la parola che fa nuova la vita: “Tu solo hai la parola della vita eterna”.
Ai giovani, che si congiungevano naturalmente alla sua attività pastorale, don Peppino presentava la lectio divina e parlava del Cristo con la soddisfazione intima di poter fare loro il dono più grande.
La parola è annuncio, è fede, è esempio, è quella pienezza dell’esistere in cui si esprime la gloria della vita. Come assistente degli scout, in particolare, e dei giovani dell’Azione Cattolica don Peppino faceva pulsare la parola, che diveniva emanazione, risposta, appagamento ed edificazione. Insisteva appassionatamente, infatti, sulla necessità di ascoltare la parola, e di metterla in pratica (cfr. Lc. 8,21). Sapeva bene che non sono “gli uditori, ma i facitori della parola a essere giustificati davanti a Dio” (cfr. Rm. 2,13).
Lo avevano compreso molto bene i giovani, che, nel giorno del suo funerale portavano scritto sugli striscioni: “Ti hanno ucciso, don Peppino, ma non potranno mai uccidere le idee che tu ci hai donato”. E intendevano dire: “Soltanto tu, amico di Cristo Gesù, hai parole di vita eterna”.
È questa seduzione per la parola di Cristo a fare di don Peppino “un cultore dell’altro”.
Imparò per vocazione che non avrebbe potuto per amore della propria vita perdere le ragioni del vivere. Il bene dell’altro, la giustizia dell’altro, la salvezza dell’altro, la pace, cioè, con ogni uomo, costituiscono le ragioni del vivere umano. Questo è tutto il significato dell’incarnazione di Cristo, e tutta la ragione d’essere della Chiesa. L’egoista, che cura soltanto la sua persona, non crea, fa della sua vita una dissolvenza di morte.
In Terra di Lavoro, in particolare, la Chiesa aveva piuttosto imparato a difendersi con lo scudo crociato. Ma questo era un simbolo di potere che alla lunga tradiva la missione della Chiesa verso l’uomo. E don Peppino, in mezzo alle incomprensioni di tanti benpensanti, riprese la Croce di Cristo, libera e intera come nel venerdì santo, perché soltanto con quella croce si può perdere la propria vita per riconquistarla nell’apertura infinita della gloria.
E con il suo ardore fondava nei giovani il volontariato. Un volontariato multiforme, ma sempre sollecito e profondamente comprensivo. Si rivolgeva con attenzione di madre ai suoi “ragazzi neri”.
Nella provincia di Caserta sono numerosissimi e smarriti gli immigrati di colore. Quasi tutti irregolari e clandestini vagano nelle nostre campagne, paurosi di qualche incontro sgradevole. Le forze dell’ordine li tengono d’occhio. Eppure hanno bisogno d’amore come ognuno di noi. La Chiesa nel sacramento del “Buon Pastore” e del “Samaritano Buono” dovrebbe considerarli come “figli prediletti”, perché sono i piccoli del Regno che attendono la sua integrale comprensione. Il sacerdote della Chiesa di Cristo, don Peppino, li amava tanto. Li aiutava sempre anche con grandi sacrifici. E stava costruendo per loro una bella “casa d’accoglienza”. Ma gli uomini invidiosi della bontà l’hanno fatto ammazzare sulla soglia.
A Casal di Principe come in vaste zone della Campania tanti interessi brutali fanno contrasto con le opere della carità.
È la camorra. Non tanto un deperimento organico della società locale quanto una serpe che succhia il sangue della gente e mette il veleno nelle coscienze.
In questo territorio, per diverso tempo, si era preferito convivere con la delinquenza organizzata. Incuteva terrore e nel contempo poteva sempre offrire qualche vantaggio. Diventava, così, sempre più appetibile il gusto dell’illegalità nell’animo del nostro popolo.
L’intervento di don Peppino, con gli altri parroci di Casal di Principe, riuscì ardimentoso e decisamente profetico. La camorra sa bene come misurarsi con le forze dell’ordine e con le pattuglie armate, sa bene come incantare la magistratura e le ambizioni politiche dei rampanti locali. Rimane svigorita di fronte all’emergenza dello spirito e alla sollevazione delle coscienze. E non valgono tanto le denunce piazzaiole e le manifestazioni scenografiche. Sono anzi applaudite queste forme di vistosità dagli stessi interessati, che sviluppano su di esse i loro punti di onore e le loro leggende memorabili. Ciò che introduce smarrimento nelle cosche camorriste e dissocia i loro piani, è l’imprenditoria morale, è l’organizzazione dei valori e soprattutto il coraggio dei volontari. Soltanto i grandi ideali possono maturare una controproposta alla malavita. E quando i grandi ideali si traducono in progetti di cultura della vita, di giustizia sociale, di promozione civile delle masse, allora le arroganze mafiose si intimoriscono e diventano barbaramente aggressive. La scuola nella nostra zona dovrebbe essere la fucina della libertà e ricostituirsi quale cantiere delle espressioni più vere della convivenza umana.
Ma specificamente la Chiesa ha un ruolo insostituibile nella produzione delle comunità. Il suo magistero e il suo ministero impediscono il letargo delle coscienze e rendono attivo il senso di responsabilità di ognuno. Essa supera la cura di un personalismo individualistico per far crescere un personalismo “cellulare”. Una visione della persona-cellula, piuttosto che quella classica della persona-individuo, porterà la grande società a sentirsi organismo vivo e funzionale, in cui ognuno collabora al benessere dell’altro e degli altri. La Chiesa si impegna a costruire i bastioni della resistenza civile contro tutte le spinte di deformazione della collettività. La camorra infatti non si vince finché non si dà al popolo lo spirito nuovo della resistenza al male.
C’è riuscito don Peppino. Aveva portato la centrale della legalità e del vigore morale nella sua Chiesa. E tanti giovani e tanta gente ormai la frequentavano. Con i valorosi parroci di Casal di Principe aveva approntato quel grande documento: Per amore del mio popolo. Era la freschezza del Vangelo che faceva primavera di vita tra la sua gente:
come pastori siamo le sentinelle del gregge, e se non sempre in passato siamo stati abbastanza vigili, oggi non possiamo tacere contro i meccanismi della camorra e dell’usura che schiacciano la nostra gente.
Ho sempre pensato che questa forma di organizzazione parrocchiale e pastorale della legalità e della giustizia sociale costituisse una nuova pentecoste della nostra Chiesa.
È la Chiesa del popolo, la Chiesa dei poveri, la Chiesa di tutti che considera peccati contro lo Spirito gli attentati contro la giustizia: evasione fiscale, assenze ingiustificate dal lavoro, disimpegno professionale, cultura della corruzione (intimidazioni, tangenti, estorsioni), raccomandazioni, interessi di lucro negli operatori sociali-sanitari-assistenziali, dispotismo politico piuttosto che professionalità del bene comune.
E i frutti ci sono e abbondanti. Penso che i funerali di don Peppino rappresentino una svolta storica della Campania. Le lenzuola bianche commentavano il dolore per la perdita e l’ammirazione per l’eroismo del prete buono, in ogni famiglia di Casal di Principe. Oltre 20.000 persone presenziavano alle esequie e proclamavano che la gente sapeva ormai superare la paura e l’omertà e mostrava intatta la sua dignità morale.
Si può credere ormai che il costume sociale è sano e lotta contro la malvivenza. Come in Sicilia anche in Campania, “il sangue dei martiri e seme rigoglioso di cristiani”. E la professione della fede nella libertà dell’uomo si svolge come corollario naturale della fede in Cristo Salvatore.
È così che mafia e camorra scompariranno.
L’assassinio, come quello sul Golgota, ha reso pura e adamantina la testimonianza di don Peppino. Il quale è divenuto per tutti il cultore della risurrezione.
Il cristianesimo è rivelazione di Dio, vissuta dai credenti della Terra.
La tentazione di renderlo ideologia, marchio sociale, è fortissima.
La Chiesa che è la continuazione dell’incarnazione di Cristo nella storia, diventa facilmente, in corrispondenza con le richieste immediate dell’uomo, istituzione di una moralità universale, costruzione di un regime politico, organizzazione di una società con assistenze e garanzie temporali. È la corsa insensibile della Chiesa verso la secolarizzazione. Mentre, essa non è mai “di questo mondo”. È sempre profetica, spirituale, escatologica.
Il martirio di don Peppino è l’immolazione che purifica.
E la nostra Chiesa è, di nuovo, creatrice di vita e di avvenire.
Il suo “sangue sparso” per la vita delle moltitudini è diventato l’impulso originario delle aurore della salvezza, fermento incontenibile della nostra risurrezione.
Sabato mattina, 19 marzo, alla notizia della sua morte, scrissi queste righe:
GRAZIE, DON PEPPINO
Che grande morte, don Peppino! Grande come la vita gloriosa del Padre. Grande come tutta la redenzione dell’uomo.
Grazie, don Peppino! Hai ridato la trasparenza di Cristo alla nostra Chiesa. Hai riscattato il popolo di Dio, che attendeva il sangue del martire per confermare la sua fede.
Grazie, don Peppino, perché hai pagato da sacerdote del Signore.
La tua morte è quella del Crocifisso, che riceve la condanna della malvagità umana, tesa a impedire il rifornimento della speranza della storia.
La tua morte è un’esultanza di vita come quella di don Puglisi, come quella del tuo amato monsignor Romero. È quella vita nuova che porta il fervore della libertà a tutti gli oppressi.
Il tuo gesto e divino. Anche oggi gli uomini di Dio sanno morire perché tutte le genti “abbiano la vita e l’abbiano pienamente”.
Avevi appena stilato il manifesto della rinascita: Per amore del mio popolo, quando ti incontrai all’Istituto Mattei di Caserta, dove la tua voce, contro le organizzazioni del crimine, era ferma e paterna, come quella di un profeta. Della tua testimonianza avevo visto una Chiesa nuova, una Chiesa non più compromessa col potere, una Chiesa di Cristo. Una Chiesa della libertà e dell’amore.
E per la libertà del tuo popolo e per l’amore della tua gente ti hanno immolato: “Ecco l’agnello di Dio, che toglie il male del mondo”. Come Cristo rendi fulgente la risurrezione dell’uomo, perché la celebri con l’offerta integrale della tua vita, con lo spargimento del tuo sangue.
Grazie, don Peppino, per la grazia infinita della vita, che hai donato a me e ai miei fratelli.
Grazie, don Peppino, non ti dimenticheremo: sei il sacramento della nostra vittoria. Sei la primavera dell’amore, che si diffonde stupenda, sulla nostra Terra.

1† Raffaele Nogaro, già vescovo di Sessa Aurunca, è vescovo di Caserta.

Una persona normale di Nicola Alfiero2

Don Peppino Diana era una persona normale che ha vissuto la sua vita in modo del tutto normale. È stato in Seminario, si è fatto prete all’età in cui era in grado di farlo, non ha seguito nessun percorso eccezionale. Suo padre è agricoltore a Casal di Principe, della fascia medio-bassa, ha un po’ di terra sua. Anche da questo punto di vista non c’è niente di eccezionale, nel retroterra sociale di Peppino. Era una persona estremamente normale, come uno qualsiasi di noi. Aveva 36 anni, ed era sacerdote in una parrocchia del suo paese da circa dieci anni. L’unica cosa per cui si metteva pienamente in luce: era una particolare dote umana, una forma di esuberanza e di entusiasmo, ma anch’essa in limiti molto comuni. Peppino viveva la sua quotidianità di parroco come qualunque altro parroco, anche se teneva molto a un buon rapporto con i giovani, ai quali insegnava valori fondamenta...

Indice dei contenuti

  1. Nota del curatore
  2. Interventi di don Peppino Diana
  3. Don Peppino Diana, nella sua zona
  4. INTERVISTE E TESTIMONIANZE
  5. DOCUMENTI