Le martiri di Compiègne sono sedici monache carmelitane uccise durante la Rivoluzione Francese. Di questa Rivoluzione oggi si ricordano soprattutto quelle tre grandi parole su cui tutti sembrano ormai essere d’accordo: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Perfino Giovanni Paolo II disse al Bourget ai giovani francesi:
È risaputa la posizione che occupa nella vostra cultura e nella vostra storia l’idea di libertà, uguaglianza e fraternità. In fondo queste sono idee cristiane. Lo dico consapevole del fatto che coloro che hanno formulato per primi questi ideali non si riferivano alla Saggezza eterna. Ma essi volevano operare a favore dell’uomo.
Ancora si discute se l’origine del trinomio sia cristiana o massonica; si sa però che la Rivoluzione preferì all’inizio insistere più sul binomio Liberté-Egalité, che sul termine Fraternité, giudicato comunque troppo sentimentale e troppo “cristiano”. Di fatto, la lotta più dura venne scatenata in nome di quei due primi “valori” ed emerse così l’opposta maniera con cui illuministi e credenti concepiscono la “ragione”. Per la cosiddetta ragione illuminista, proclamare che «gli uomini sono liberi e uguali nei diritti» (Articolo I della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, del 1789) significava non ammettere nulla prima di questa formulazione, non darle nessun fondamento oltre la ragione stessa che la produce e la riconosce. Anche se allora venne mantenuto un generico ed estrinseco appello alla «presenza» e agli «auspici» dell’Essere Supremo (appello che scomparirà nelle Dichiarazioni dei secoli successivi). Invece, per la ragione illuminata dalla fede, gli uomini sono liberi e uguali nei diritti perché godono tutti di una prima e inalienabile dignità: quella di essere figli di Dio, da Lui amati, creati, salvati. L’abissale distanza tra le due impostazioni potrebbe esser colta anche con un’opportuna e profonda riflessione, ma risalta ancor meglio quando quei conclamati diritti di “libertà” e “uguaglianza” devono essere concretamente riconosciuti, difesi e applicati.
La storia delle nostre martiri offre un esempio luminoso – nel senso che vi risalta con ogni chiarezza la differente luce –
di cui la ragione si serve. La famosa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo fu promulgata il 26 agosto 1789; pochi mesi dopo giunse puntualmente la proibizione di emettere i voti religiosi (in nome della libertà individuale) e la soppressione degli Ordini religiosi, a cominciare da quelli contemplativi. Il teorema era semplice: non può essere libero chi si rinchiude in un convento e si vincola con dei voti; se qualcuno lo fa, è segno che è stato costretto. Compito della ragione (e della Nazione) è restituirgli la Libertà. Fu allora che le priore di tre monasteri carmelitani, a nome di tutti gli altri, inviarono all’Assemblea Nazionale un “indirizzo” in cui si legge:
Alla base dei nostri voti c’è la libertà più grande; nelle nostre case regna la più perfetta uguaglianza; noi qui non conosciamo né ricchi, né nobili. Nel mondo si ama dire che i monasteri rinchiudono vittime consumate lentamente dai rimorsi; ma noi confessiamo davanti a Dio che, se c’è sulla terra la felicità, noi siamo felici.
Quei rivoluzionari, a riguardo di voti e monasteri, avevano la ragione illuminata da ciò che avevan letto o sentito dire da letterati, teatranti, gazzettieri e filosofi: avevano cioè idee morbose e romantiche, simili a quelle che ancor oggi si trovano in certi romanzi d’appendice o in certe telenovelas. Perciò la persecuzione cominciò con la cavalleresca e ridicola sollecitudine con cui uno stuolo di ufficiali municipali andarono a battere alle porte dei monasteri per offrirsi come paladini e liberatori.
Siamo in grado di descrivere esattamente ciò che accadde nel monastero di Compiègne, dove allora si trovavano 16 religiose professe. C’era anche una giovane novizia che all’ultimo momento era stata impedita dal prendere i voti, proprio da quel decreto che «non riconosceva più né voti religiosi né alcun altro arruolamento che sia contrario ai diritti naturali». Giunsero dunque gli ufficiali municipali, violarono la clausura e si insediarono nella grande sala capitolare: alle due porte furono messe quattro guardie. Altre guardie furono schierate, una alla porta di ogni cella, per impedire che le suore potessero comunicare tra loro, e soprattutto che avessero contatti con la Priora; anche le altre porte dei chiostri furono presidiate.
L’idea che altrimenti le monache sarebbero state soggiogate e costrette a mentire dalla presenza della loro superiora (o da qualche consorella più dispotica) era data per assolutamente certa. Ogni monaca venne dunque convocata singolarmente: a ognuna il presidente annunciava di essere apportatore di libertà, e la invitava a parlare senza timore e a dichiarare se voleva uscire di clausura e tornarsene in famiglia. Un segretario intanto prendeva accuratamente nota delle risposte, la cui veridicità è perciò garantita dagli stessi “oppositori”. Questa sconfinata presunzione di sapere bene cos’è libertà, e di giungere come attesi liberatori ci dice di più – sulla questione cui accennavamo sopra – di tutti i dibattiti filosofici e teologici, soprattutto se la si confronta con la libertà in atto sperimentata proprio da coloro che si pretendeva liberare.
La priora, convocata per prima, dichiarò «di voler vivere e morire in quella santa casa». Un’anziana disse che era suora da cinquantasei anni e ne avrebbe desiderati ancora altrettanti per consacrarli tutti al Signore. Una suora disse di essersi fatta religiosa di suo pieno gradimento e di propria volontà e di essere fermamente risoluta a conservare il proprio abito, anche a prezzo del proprio sangue. Un’altra spiegò che non c’era felicità così grande come quella di vivere da Carmelitana e che il suo più ardente desiderio era di vivere e di morire tale. Un’altra ancora insistette che se avesse avuto mille vite tutte le avrebbe consacrate allo stato che aveva scelto, e che nulla poteva convincerla ad abbandonare la casa dove abitava e dove aveva trovato la sua felicità. Un’altra aggiunse che approfittava di quella occasione per rinnovare i suoi voti religiosi, e anzi ne approfittava anche per regalare ai magistrati una poesia che aveva appena finito di scrivere, sull’argomento della sua vocazione (ma quelli, andandosene, lasciarono il foglio sul tavolo, con disprezzo). E un’altra ancora precisò che se avesse potuto raddoppiare i vincoli che la legavano a Dio, lo avrebbe fatto con tutte le forze e con immensa gioia. La più giovane professa, infine
– che aveva emesso i voti proprio in quell’anno – osservò che una sposa ben nata resta col suo Sposo, e che perciò niente la poteva indurre ad abbandonare il suo Sposo divino, Nostro Signore Gesù Cristo. Insomma, la risposta di tutte era – a dirla nel modo più semplice – che volevano «vivere e morire nel loro monastero».
Certamente molte di loro neppure se ne ricordavano, o non lo avevano mai sentito raccontare, ma le loro risposte erano proprio simili a quella che, nei primi secoli cristian...