Cap. IV: Lettera al Presidente dell’Ordine
Nel settembre 1972, Giulio Maccacaro partecipò a Perugia al convegno “Diritti e doveri dell’informazione al pubblico in tema di scienze mediche” con una relazione intitolata Informazione e partecipazione in medicina. In precedenza, aveva tenuto a Modena un seminario su L’uso di classe della medicina, relazione di apertura a un dibattito sullo stesso tema. In queste occasioni egli portava accuse contro i sistemi di potere della scienza riferendosi, in particolare, “alla servitù della medicina nella società del capitale” e alle deformazioni che ne derivavano nel rapporto medico-paziente e nella correttezza dell’informazione sanitaria. Nonostante quei discorsi fossero stati pronunciati fuori della sua giurisdizione, l’allora Presidente dell’Ordine dei medici della Lombardia, presente a Perugia, aveva annotato accuratamente le “eresie” dell’oratore, in modo tale da redarguirlo in seguito con reprimende e scomuniche. Passarono solo pochi giorni quando al direttore dell’Istituto di Biometria arrivò, in tre righe, la convocazione presso gli uffici della Presidenza dell’Ordine di Milano per non meglio precisate informazioni che lo riguardavano. Alle comunicazioni seguì, durante l’incontro, la minaccia di apertura di un procedimento disciplinare. Di fronte alle contestazioni, Maccacaro reagì “alzandosi e rifiutandole per l’allora e per il dopo”. L’Ordine non osò procedere ulteriormente, tuttavia, sul piano culturale, alla sfida repressiva seguì la diffusione dell’ampia Lettera al Presidente dell’Ordine, “un capolavoro di scrittura, di analisi, di documentazione, di prospettiva, di elegante e feroce ironia”. A testimonianza del sostegno raccolto da Maccacaro in tale occasione, tornano preziose le parole di Renato Boeri, allora medico presso l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano:
Un’altra cosa di cui può trovare traccia e che riguarda le scelte politiche, fu la presa di posizione che avevamo fatto, un po’ alla volta, nei confronti dell’Ordine dei medici. Lei sa che Maccacaro si era pronunciato contro l’Ordine. Poi abbiamo preso posizione ufficialmente anche noi come medici dell’Istituto, con una maggioranza del novanta per cento.
Il testo della lettera divenne poi la prefazione del libro di Jean-Claude Polack, La medicina del capitale, della collana “Medicina e Potere”. Sul corporativismo degli ordini professionali orientati alla sacralità della medicina, Ivan Illich notava:
A differenza dei miglioramenti ambientali e delle moderne misure sanitarie non-professionali, l’intervento specificamente medico non appare mai collegato in maniera significativa a un calo della morbosità globale o a un aumento della speranza di vita. Né la densità dei medici rispetto alla popolazione, né i mezzi clinici, né il numero dei letti disponibili figurano come causa nella vistosa mutazione delle strutture generali della morbosità. Le nuove tecniche utili per riconoscere e curare certi stati morbosi come l’anemia perniciosa e l’ipertensione, o per correggere con interventi chirurgici alcune malformazioni congenite, ridefiniscono ma non riducono la morbosità. Il fatto che la percentuale dei medici sia più alta dove certe malattie sono diventate rare non vuol dire che essi siano capaci di domarle o eliminarle: significa soltanto che i medici riescono più di altri professionisti a distribuirsi come preferiscono, e che tendono a concentrarsi dove il clima è sano, l’acqua pulita e la gente lavora e può pagare le loro prestazioni.
Lettera al Presidente dell’Ordine
Signor Presidente dell’Ordine dei Medici di Milano e Provincia
Il 25 settembre scorso io stendevo alcune righe di prefazione a questa “Medicina del capitale” quando ella dettò per me le righe che seguono:
A seguito di informazioni che La riguardano è invitato a presentarsi presso la Sede di questo Ordine Mercoledì 4 ottobre alle ore 11,30 per essere sentito dal Presidente o da un suo delegato.
Non mi restavano molti dubbi sulle intenzioni inquisitorie del suo invito, ma non commisi l’errore di interrogarmi intorno all’oggetto dell’inquisizione. Perché, se mi capisce, io non sono un Joseph K. e nemmeno un agrimensore: tra i fermacarte e i posacenere della sua scrivania non potrò mai cercare né la mia colpa né la mia salvezza. Tutt’al più – pensavo senza allegria – l’impronta un po’ sudata di una mano che mi si dice impaziente di tendersi col braccio in un saluto ormai, credevamo, desueto. Comunque, il 4 ottobre io comparvi puntualmente al suo un po’ badiale cospetto ed ascoltai le imputazioni a mio carico con quell’attenzione di cui ella mi darà atto e con quella crudeltà che ora io le confesso. Infatti, mentre ella veniva leggendomi – quasi fossero capi d’accusa – parole e passi di una mia relazione tenuta recentemente a Perugia sul tema “Informazione medica e partecipazione” per invito dell’Istituto italiano di medicina sociale, mi erano chiare – dall’addensarsi angusto delle rughe sulla sua fronte, da una lieve rifrangenza di sudore sul suo labbro, dall’inciampo delle parole e dalla casualità delle pause – mi erano chiare e toccanti la sua fatica e la inanità della stessa: le sue capacità di intendere e di volere, visibilmente impegnate scoprivano insieme il loro disuguale successo.
Io stesso faticavo a riconoscere e non sempre riconobbi – nell’eco di così annaspante dizione – la voce pur familiare delle mie opinioni che avevo offerte a un pubblico dibattito: sul potere e la servitù della medicina nella società del capitale, sulle deformazioni che ne derivano all’atto medico ed al rapporto medico-paziente, sulle inerenti responsabilità e complicità dell’informazione sanitaria.
Avrei potuto aiutarla a capire, signor presidente, ma non lo feci: sarebbe stato inquinare la chiarezza di una situazione esemplare. Le avrebbe dato qualche sollievo ma le avrebbe tolto un po’ della sicumera necessaria a dirmi – di lí a poco – che ella considera la possibilità di aprire un procedimento disciplinare nei miei confronti. Ora lei vede perché – alzandomi e rifiutandole per l’allora e per il dopo qualsiasi risposta a contestazioni non ritualmente formulate – io mi congedavo preoccupato di evitare a entrambi la tentante insidia dell’approssimazione.
La mia crudeltà non era, dunque efferata: forse soltanto un modo di velare una sollecitudine e una comprensione che non vorrei ella ritenesse obbliganti. Tutto ciò che io attendo è la formalizzazione della sua istruttoria.
Credo, tuttavia, che la sua iniziativa superi, già ora, l’irrilevanza – voglia crederlo – delle nostre persone. Ricerche di questi giorni e notizie raccolte da altri convergono nell’indicare lei come il pr...