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Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra

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Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra

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aut aut – numero 385 (marzo 2020) della rivista fondata da Enzo Paci. "Agostino Pirella. Il sapere di uno psichiatra".

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865768044

Materiali

La bibliografia di Agostino Pirella, lungo tutta la sua carriera, testimonia di un lavoro di scrittura prevalentemente collettivo. Si tratta di contributi, interventi, progetti editoriali, articoli, capitoli di libri, spesso scritti a più mani o dibattuti a convegni e seminari, che sono la cifra specifica dei metodi di elaborazione di un’esperienza passata alla storia come un’utopia possibile e realizzabile: quella della chiusura definitiva dei manicomi e dell’“invenzione” di una nuova salute mentale in Italia. La riflessione di Pirella, mai separata dalla storicizzazione del paradigma psichiatrico e del suo rovesciamento, ha declinato le sue esperienze di de-istituzionalizzazione compiute a Gorizia, Arezzo e Torino con la necessità di ridiscutere lo statuto epistemologico della psichiatria. In questo senso, aver scelto di pubblicare il lungo articolo dedicato a Basaglia nel 1980, dopo la sua prematura scomparsa, non è solo indice di un sodalizio affettivo e intellettuale, ma è anche la messa a fuoco di questioni teoriche cruciali che rimanevano tutte da affrontare nel rapporto critico con la scienza. Sei anni più tardi, Pirella interveniva alle giornate di studio organizzate in Campania da Psichiatria democratica e tracciava un bilancio di quanto era avvenuto in quegli anni difficili. Denunciava con forza le spinte conservatrici contro l’applicazione della legge 180 e i pericoli di deriva politico-sociale presenti nel paese, non nascondendo i rischi di erosione e di tenuta di un movimento costretto a esercitare una “inesauribile” resistenza. Ma non dimentica Pirella, con una sottile analisi critica, che la priorità rimaneva un’immensa riflessione e costruzione teorica. Come Adorno concepiva come possibile, dopo il nazismo, solo una filosofia che fosse in grado di “pensare in modo che Auschwitz non si ripeta”, così – continua Pirella – “noi dobbiamo estendere questo impegno che, notiamolo, non è nell’agire, ma nel pensare al manicomio”.
Vengono inoltre pubblicati qui, per la prima volta, alcuni taccuini manoscritti relativi al periodo goriziano. Dopo aver lasciato, nel 1965, la direzione del manicomio di Mantova per raggiungere Basaglia a Gorizia, Pirella diviene, nel 1967, primario del reparto C, uno degli ultimi reparti a essere aperto, frontiera reietta della malattia istituzionale prodotta dall’internamento manicomiale. Si tratta di annotazioni giornaliere, descrizioni e racconti relativi alla vita di reparto, ma anche riflessioni sulla fatica e sul rischio di fallimento sempre incombente. Sono pagine intense, con le quali l’“osservatore” Pirella fa toccare con mano i meccanismi incistati di dominio e autoritarismo presenti in un reparto di internamento per cosiddetti “cronici”. Leggendole, ci sentiamo improvvisamente calati dentro a quelle mura. La sofferenza e le tensioni sono tangibili, e con esse a emergere con forza è la necessità di ripensare i modi di costruire da zero le relazioni e i ruoli di infermieri, medici e degenti. L’esercizio della libertà e dell’autonomia dimenticate o mai agite mostra qui tutte le sue contraddizioni. Il contesto non tace rotture, conflitti, violenze che spesso ricadono sull’ultimo anello della catena umana del reparto, per il quale Pirella usa un termine che richiama un immaginario inumano. Gli ultimi fra gli ultimi del reparto C, quelli che più di tutti avevano subìto gli effetti violenti dell’istituzione totale manicomiale, finivano per avere come aguzzini gli stessi compagni di sventura, così come i “musulmani” – così li chiama Pirella – raggiungevano l’ultimo stadio nei campi di sterminio di leviana memoria.
La pratica quotidiana della discussione e della decisione comune, pur vivendo di arretramenti e passi in avanti, di incertezze e conflittualità, guadagna piano piano il suo spazio di libertà. Il 14 luglio 1967 diventa così la Bastiglia del reparto C, la piccola rivoluzione di un reparto finalmente aperto per ricominciare a diventare uomini e cittadini.
[M.S.]

Taccuini goriziani (1967)

AGOSTINO PIRELLA
7 marzo 1967
Il reparto è organizzato in un modo estremamente rigido, su base autoritario-coercitiva, non paternalistica.
Al mio ingresso mi sono trovato di fronte a una prima questione che ha dato uno “spaccato” della vita istituzionale di notevole interesse.
Un paziente, Manfredi, aveva percosso con una scodella, un altro paziente. Richiesta di chiarimenti: gli infermieri non dicono nulla (e poi se ne saprà il perché), Slavich dice: “Manfredi è un re”. Un ras, dico io. Il giorno dopo Manfredi colpisce ancora. Poco di più si viene a sapere: Manfredi si oppone a coloro che entrano in refettorio e “disturbano”, ad esempio afferrano (o hanno solo l’intenzione, secondo Manfredi, di afferrare?) il pane o altri cibi. Nuova indulgenza degli infermieri. Alla riunione di reparto Manfredi svolge una dura requisitoria contro a) i pazienti che si introducono nel refettorio approfittando delle porte aperte; b) contro l’infermiere Andrian, reo di aver “deciso” l’apertura delle porte del refettorio. L’infermiere Costa, presente alla riunione, non dice nulla. Di fronte a questi fatti, propongo (e naturalmente si decide) che si discuterà la cosa alla riunione degli infermieri. Costa però, dopo, alla fine della riunione di reparto, si lamenta perché la decisione di aprire le porte del refettorio era stata presa in sua assenza, e si dimostra implicitamente contrario. Giovedì si discute, ma non si ottiene nulla. Costa e Pinceti si oppongono a un’apertura totale (che anche io però non ho per ora motivo di caldeggiare) fattisi forti dell’opposizione “concreta” di Manfredi. Andrian tenta di argomentare, ma non riesce a convincere, soprattutto non riesce a presentare un’alternativa ai pugni di Manfredi. La situazione sembra cioè tale per cui un’iniziativa apparentemente innocente come questa non può essere realizzata perché c’è una volontà precisa di opposizione, e i fautori non sanno su cosa (o su chi) contare per risolvere il nuovo inconveniente. C’è in questa “impasse” un primo insegnamento fondamentale. In un reparto chiuso a clima fortemente autoritario e coercitivo chi paga di più sono i pazienti regrediti (specie gli schizo) e ogni tentativo unilaterale e non coordinato di invertire il segno della coercizione fa scattare meccanismi (di difesa-offesa) che mentre tendono a perpetuare lo stato rigido preesistente, scaricano di nuovo sui regrediti le tensioni e le aggressività. Più semplicemente: l’apertura delle porte del refettorio voleva offrire a tutti i pazienti un’opportunità di libertà di movimento. Questo fatto avrebbe limitato il privilegio di Manfredi (e in parte di altri) e forse messo in crisi alcuni infermieri “dominanti”. Il meccanismo di repressione ha nuovamente scaricato sui regrediti l’aggressività derivante da frustrazione. Sembra cioè che qualunque iniziativa venga presa nel reparto, tendente a sollevare il peso della oppressione torni a scaricarsi sui deboli. A questo punto il problema è di preparare il personale a modificare profondamente il proprio atteggiamento verso i pazienti.
A proposito di ciò, ho notato che il paziente Ivano trascinava l’arto inferiore destro, come fosse paretico. Ho detto ciò all’infermiere di turno, il quale mi ha detto che si trattava di una simulazione. A comprova di ciò ha invitato il paziente a saltare, iterativamente, sempre più forte, promettendogli una Coca Cola. Era incredibile vedere questo paziente ridotto a marionetta rotta nelle mani dell’uomo deputato dalla società a “custodirlo” e a “curarlo”.
Note. Guglielmo, vecchio schizo svalutato da Costa (“Dice che il reparto è suo!!!” Invece dice che è “come” casa sua, dopo vent’anni).1 Cerco di appoggiarlo, perché mi sembra l’unico antileader, verso Manfredi. In effetti Guglielmo valuta Andrian, e già nella prima riunione aveva sostenuto (però debolmente) che si potevano aprire le porte del refettorio, eventualmente accompagnando gentilmente alla porta coloro che si comportavano male. Ho compiuto anche un gesto paternalistico invitandolo a uscire, andare al bar ecc. Si è recato al bar, ma sembrava esitante. Poi ho garbatamente insistito perché si vestisse meglio. Stamattina aveva un elegante completo grigio, e si pavoneggiava, con riferimenti erotici scherzosi verso la Baiss. Ma, a questo punto, una crisi. Guglielmo tende a demistificare tutto ciò. Il reparto è ancora chiuso, le riunioni sono un giuoco, come un nostro divertimento, tutte queste cose sono un’intrusione in casa sua. È meglio se vado in cortile a giuocare a palla ecc. Poi delira, si ritira. Ritorna, è possibile nuovamente un contatto. Manfredi resta in silenzio, duro. Guglielmo insiste con la demistificazione: quando si vuole uscire si deve sempre chiedere agli infermieri...
Altra nota. Quando Bernardo andò sulla torre e voleva gettarsi giù, aveva avuto un alterco con Manfredi.
Altra nota. La Baiss mi racconta che questa mattina, tornata in reparto per una visita con ospiti ha visto che Manfredi e altri passavano nel refettorio mentre la massa stava con il naso schiacciato contro i vetri a vedere e aspettare!2 Franzot, infermiere gigantesco stava sulla porta a impedire l’ingresso. Bisognerà discutere la questione!
15 marzo 1967
Reiz, infermiere piuttosto ciarliero, nella riunione infermieri di giovedì scorso (“Hai ingoiato una puntina di grammofono?” gli hanno chiesto gli altri) ha raccontato del fatto dei coltelli. Cioè, messo in sospetto dall’insinuazione di un conoscente, ha cercato affannosamente, non appena giunto in reparto, un coltello che mancava dal numero solito di q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Premessa
  3. La voce di uno psichiatra. I taccuini di Agostino Pirella
  4. Materiali
  5. Pirella Lecture
  6. Interventi