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Capire la Romania e i romeni in Italia

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Capire la Romania e i romeni in Italia

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Cosa è diventata la Romania vent'anni dopo la fine del regime di Ceausescu? È compiuta la lunga "transizione" alla democrazia e all'economia di mercato? E chi sono i romeni in Italia, spesso al centro di strumentali polemiche a causa di episodi di criminalità? Questo testo analizza le trasformazioni sociali e culturali della Romania di questi anni, seguendo le storie di quanti quotidianamente si spostano da e verso questo paese: muratori e badanti, imprenditori e tecnici, adolescenti rom e prostitute. Testimonianze, interviste, interventi di scrittori, ricercatori, intellettuali, italiani e romeni, su un paese crocevia delle contraddizioni della nuova Europa.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788863573176
Categoria
Sociology

Mihai Mircea Butcovan | Trittico bizantino del terzo millennio

1. I confini del nostro pensare

Fa più rumore un albero che cade
di una foresta che cresce
Lao Tse
Ci sono stati due momenti particolarmente intensi – caratterizzati da suggestività, apprensione e vari turbamenti – che hanno fatto parlare di Romania e di romeni negli ultimi decenni in Italia. Il primo avvenimento risale al dicembre 1989. Cadeva il regime di Nicolae Ceauşescu e il modus operandi della politica romena, purtroppo senza soluzione di continuità.
Gli sguardi dall’Italia e dalla Romania hanno colto la rivoluzione in tivù e quella in piazza – la curiosità prima, l’angoscia dopo, la solidarietà in seguito –, gli investimenti successivi, l’imprenditoria d’assalto verso la Romania, l’emigrazione dalla Romania verso l’Europa, l’immigrazione in Italia. Gli stessi sguardi hanno rilevato il crescendo quantitativo e qualitativo della presenza romena in Italia sul finire degli anni novanta e nei primi anni del terzo millennio.
E quando, il 1 gennaio del 2007, la Romania è “entrata in Europa”, a Milano sentivo dire: “hanno spostato i confini dell’Europa un po’ più in là”. Lo stesso giorno, al telefono, un’amica croata – ma avrebbe potuto essere albanese oppure ucraina o turca – mi disse: “hanno spostato i confini dell’Europa un po’ più in qua”. Ho sorriso, un sorriso amaro: erano opinioni dissonanti, punti di vista diversi sulla stessa frontiera.
Il secondo evento che ha segnato i rapporti tra la Romania e il Belpaese è un episodio increscioso, sul finire dell’ottobre 2007, un fatto che è entrato nella storia come “il caso Mailat-Reggiani”. Una donna italiana è morta dopo l’aggressione da parte di un cittadino romeno alla periferia di Roma. A questo esecrabile comportamento di una persona nei confronti di un’altra persona è seguita una campagna mediatica ostile alla Romania e ai suoi cittadini.
È abbastanza emblematico quanto è accaduto in quei giorni. Mi contattavano giornalisti di piccole e grandi testate italiane per carpire “dichiarazioni di un rappresentante della comunità romena in Italia”. Avevo detto la mia – in tempi non sospetti, molti mesi prima – rispetto al crescendo di insofferenza e intolleranza nei confronti degli immigrati in generale e, nello specifico, dei romeni. Avevo segnalato – in maniera che è risultata impopolare tra molti dei miei stessi connazionali romeni – che l’atteggiamento di chiusura, autoreferenzialità e autoghettizzazione di alcune comunità romene d’Italia, come di molte altre comunità di migranti, non avrebbe favorito un’auspicabile convivenza pacifica. Ma non l’avevo fatto certo come rappresentante della Romania e dei romeni. Ho sempre espresso apertamente i miei dubbi su chi e che cosa potesse rappresentare o essere rappresentativo di chi e di che cosa, soprattutto per quanto riguarda le questioni legate all’immigrazione.
Da Osservatore Romeno osservatore romeno avevo scritto su riviste e giornali di come alcune testate italiane veicolavano cose del tipo “il problema dei romeni esiste perché è un’etnia ad alto tasso di criminalità” e “i cittadini della Romania, che da anni terrorizzano il nostro paese, sono una razza violenta, pericolosa, prepotente, capace di uccidere per una manciata di spiccioli”. E denunciavo lo spirito discriminatorio che serpeggiava pacificamente anche in luoghi insospettabili e un vizio molto particolare che caratterizzava – e contraddistingue tuttora in molti casi – il dibattito italiano sull’immigrazione: si parla di immigrati senza gli immigrati e gli immigrati si trovano spesso a parlare di italiani senza gli italiani.
Ho ricordato in più di un’occasione che in Italia, mentre “fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, c’era e c’è una foresta di romeni – ma anche di italiani, migranti e altri viaggiatori, comunque persone – che quotidianamente, in silenzio, con umiltà, danno ossigeno a questo paese. Molto più di quanto gliene possano togliere… respirando.
Stanco di inseguire gli articoli che contenevano l’equazione “romeno/straniero = delinquente” – dove la variabile straniero non era incognita, ma semplicemente soluzione di tutti i mali del Belpaese – per poi chiedere rettifiche che non arrivavano mai, protestavo a titolo di prevenzione primaria.
Avevo scritto che l’efferatezza di certi delitti e di certe violenze non si discute ma che dovremmo indignarci a prescindere dalla nazionalità dell’autore del reato.
Ai cronisti che stavano per scrivere un pezzo di cronaca nera, affrettandosi a bollare come “criminali” intere popolazioni di immigrati, chiedevo di fermarsi un secondo prima di proseguire nella scrittura. Suggerivo loro di prendere in considerazione che eravamo venuti qui in molti per ricostruire le nostre vite, e intanto contribuivamo a costruire l’Italia. Non eravamo qui per costruire – come la penna di qualche cronista continuava a fare – muri nelle teste delle persone, quei muri che diventavano esclusivi ed espulsivi.
“C’è una pericolosità di una certa etnia”. Faceva rabbia leggere queste cose nell’Italia del terzo millennio. Negli articoli e negli interventi pubblici sottolineavo una mia convinzione: l’essere un buon cittadino è un merito da conquistarsi prima individualmente e poi collettivamente. Come dire che l’appartenenza a un partito, a un club o a una nazione non faccia di noi necessariamente delle brave persone. Ma l’appartenenza a un partito, a un club o a una nazione nemmeno ci dovrebbe condannare in toto, aprioristicamente.
Chiedevo al cronista razzista di contribuire anche lui a costruire relazioni, non muri, comunità e non brutalità, umanità e non genocidio. Perché lui, con la penna e talvolta il microfono in mano, aveva una grande responsabilità ma anche un grande dovere: evitare di scrivere articoli razzisti. Per non barattare l’informazione onesta e affidabile con le strategie demagogiche di costruzione del consenso di certi politici.
Ma avevo scritto anche delle occasioni mancate, delle fiere del libro senza uno stand dedicato alla Romania perché la Romania e il governo romeno non se ne curavano.
Avevo scritto che in fase di avvicinamento della Romania all’Unione europea era stato fatto poco o niente, o poco e male, per una conoscenza reciproca. Avevo denunciato l’assenza di un progetto di incontro e conoscenza reciproca persino nel biennio 2005-2007 – dalla firma del trattato di adesione all’Ue fino all’ingresso ufficiale – in piena crescita esponenziale della presenza di romeni sul territorio italiano.
Avevo detto ai miei connazionali che era importante la promozione e non soltanto la “conservazione e difesa” delle radici culturali. Avevo tratto un segnale d’allarme anche riguardo allo strano atteggiamento degli stessi romeni nei confronti dei rom. Molti romeni chiedevano a gran voce ai giornali italiani di specificare che certi cittadini romeni autori di reato erano “rom”. Li avevo avvertiti: sarebbero stati poi vittime dello stesso metodo operativo suggerito ai mass media italiani. Che cosa sarebbe successo il giorno in cui alcuni delinquenti d’Italia sarebbero stati “romeni doc”? Non abbiamo dovuto aspettare molto per scoprirlo.
E poi, attirandomi le ire di alcuni connazionali romeni e l’appellativo – con intento dispregiativo – di “amico dei rom”, avevo segnalato un atteggiamento alquanto strano. Fino a qualche anno fa i romeni erano fieri di chiamarsi “romeni”: spiegavano con orgoglio agli italiani che “romeno” e “Romania” provengono da “Roma”, quindi abbiamo la stessa radice latina, e allora siamo tutti fratelli, sem tücc fradei, semo fratelli. Poi hanno incominciato a usare e pretendere l’uso del termine “rumeno” per distinguersi dai “rom” e affermando che i rom con passaporto romeno “non sono rumeni”. Trovai la cosa piuttosto strana. Ho fatto notare che era come se qui in Italia si smettesse di chiamare l’attrezzo con cui si tagliano le cipolle per i pranzi di Natale “mezzaluna” semplicemente perché Mario Borghezio o Matteo Salvini sono contro l’Islam.
Ma tutto questo non l’avevo fatto certo come rappresentante dei romeni e della Romania. E nemmeno dei rom.
“Lei è un ottimo ambasciatore del suo popolo e del suo paese” mi diceva poco tempo fa, alla fine di una tavola rotonda sull’immigrazione, Laura Boldrini, portavoce dell’UNHCR Unhcr.
Ma nel novembre del 2007 – a undici mesi dall’ingresso della Romania nell’Ue – molti degli operatori dell’informazione in Italia non sapevano “dove sbattere la testa” per parlare della comunità di migranti più numerosa nella penisola in cui si sapeva molto del Brasile o di Cuba, ma anche dell’Africa, e molto meno della Romania. Un paese così vicino geograficamente e culturalmente, così affine dal punto di vista linguistico e, in ultima istanza, anche politico, eppure così lontano e di cui si sapeva soltanto quel poco che basta per lasciare spazio a ridicoli equivoci, drammatici fraintendimenti e tristi malintesi.
Mentre questa comunità cresceva per numero e per qualità della presenza, soprattutto nel silenzio delle case e nel rumore dei cantieri, ma anche – complice lo spostamento e la migrazione di grandi numeri – per comportamenti negativi e poco onorevoli, si è dato risalto soltanto a questi ultimi eventi.
A undici mesi dall’ingresso della Romania e della Bulgaria nell’Ue, si poteva sentire in televisione un onorevole che parlava di una “Unione europea a 25”. Mi chiedevo e mi chiedo che cosa succederà prossimamente in Italia e nella “comunità” europea. Si sceglierà come prossimo bersaglio la comunità cinese? O forse si aspetterà il prossimo allargamento dell’Unione europea per rispolverare, qui in Italia, magari con ancor più foga e senso di legittimazione per qualcuno, la vecchia esclamazione “Mamma, li turchi”?

2. Culture piccole ma non minori

Mi ripetevo che una cultura piccola come la nostra
– piccola ma non necessariamente minore –
era in diritto di abbeverarsi a più fonti
Mircea Eliade
Ero in Italia da qualche anno quando trovai la pagina cultu...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. Prefazione Norman Manea | Stranieri tra noi
  3. Introduzione Andrea Bajani e Mimmo Perrotta - Giugno 2010
  4. Andrea Bajani | Ad abiurare si perde solo il passato. La Romania di oggi, l’Italia degli anni cinquanta
  5. Mihai Mircea Butcovan | Trittico bizantino del terzo millennio
  6. Catalin Dorian Florescu | La prima pietra
  7. Cristian Mungiu | Il nuovo cinema romeno Colloquio con Emiliano Morreale
  8. Mimmo Perrotta | Sfruttati, sleali, invisibili, sfiduciati: muratori romeni in Italia
  9. Francesca Alice Vianello | Una migrante ideale: l’assistente familiare romena
  10. Pietro Cingolani | Un viaggio durato vent’anni. Gli autisti romeni si raccontano
  11. Oana Marcu e Andrea Rampini | Romeo e Giulietta. Adolescenti rom in migrazione
  12. Casandra Cristea | La più bella del reame. Storia di vita
  13. Devi Sacchetto | L’irrequieto: il tecnico trasfertista
  14. Gli autori