Governare il territorio. L’urbanista e l’amministratore. Dialogo con Giuseppe Campos Venuti
Giuseppe Campos Venuti (Roma, 1926) è stato assessore all’urbanistica del Comune di Bologna dal 1960 al 1966, contribuendo in maniera determinante a molti progetti e realizzazioni che hanno segnato in profondità la città nei decenni successivi; in seguito, è stato presidente della Commissione urbanistica del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna (1970-1975). Dal 1968 al 2001 ha insegnato urbanistica al Politecnico di Milano; ha ricoperto le cariche di presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica (1992-93) e presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici (2000-2001). È consulente di numerosi piani urbanistici in Italia e all’estero. Le sue pubblicazioni sono numerosissime, da Amministrare l’urbanistica (Einaudi, 1967) al recente libro-intervista Città senza cultura: intervista sull’urbanistica (a cura di Federico Oliva, Laterza, 2010). Con lui abbiamo ripercorso l’esperienza di amministratore negli anni sessanta a Bologna e ragionato sulle trasformazioni che da quell’epoca sono intercorse.
Per cominciare, ci può raccontare come è arrivato a Bologna?
Sono nato nel 1926 e cresciuto a Roma, in una famiglia borghese. Ho fatto una resistenza “originale”: nel 1943 ero in contatto con un gruppo di ragazzi del Partito d’azione che si riuniva intorno a Raffaele Persichetti. Dopo l’8 settembre ho sparato con militari e civili a Porta San Paolo e Persichetti – prima medaglia d’oro della Resistenza a Roma – è caduto vicino a me. Privo di altri collegamenti con l’antifascismo, ho deciso di andare al Sud sperando di arruolarmi nell’esercito italiano, ma quell’esercito non c’era ancora e io sono finito nell’OSS, cioè nel servizio segreto militare degli Stati Uniti, dove erano confluiti alcuni azionisti.
Finita la guerra, mi sono iscritto ad Architettura e, dopo lo scioglimento del Partito d’azione, nel 1948 sono entrato nel Partito comunista. Stavo iniziando la mia carriera universitaria, come assistente di urbanistica; e per una stranissima combinazione ero assistente del professor Marconi, un accademico, certamente non di sinistra, che avendo vinto il concorso per il piano regolatore di Bologna nel 1938 era stato chiamato da Dozza – sindaco di Bologna – nel 1952 per fare il nuovo piano della città. Questo piano mi faceva inorridire, perché era il piano per un milione di abitanti, che sembrava costruito al servizio della rendita urbana. Quando Marconi faceva la lezione sul piano regolatore di Bologna, mi sarei nascosto sotto i banchi; una città da un milione di abitanti voleva dire altrettante stanze, cioè una enorme quantità di aree valorizzate dal Comune, in misura clamorosamente sproporzionata con le reali esigenze della città. Quindi io, giovane comunista, non capivo come proprio Bologna, simbolo del mio partito perché l’unica città importante rimasta col sindaco comunista, si dava un piano apertamente di destra, illudendosi che molte aree fabbricabili nel piano avrebbero ridotto i prezzi sul mercato. Questo non era vero, smentito dal regime dell’oligopolio delle aree fabbricabili, ma specialmente dalla pratica esperienza; e mi mandava in bestia.
Nel 1960, però, avvenne il fatto che ha cambiato la mia vita. Zangheri, assessore alla cultura e legato ad Alicata, che dirigeva la politica culturale del Pci, gli chiese di consigliare un urbanista che, come assessore, affrontasse i problemi urbanistici bolognesi. Io, che ero evidentemente il più spericolato tra i compagni interpellati da Alicata, accettai e venni a Bologna. E mi trovai in quella che oggettivamente considero la prima esperienza di amministrazione locale riformista che si sia fatta in Italia; anche se questo allora nessuno l’ha potuto dire, perché nel Pci il termine “riformista” era proibito. Nel 1963 la Giunta comunale di Bologna pubblicò un programma pluriennale per la città e il comprensorio, in cui non solo erano descritti i progetti di evoluzione della città, ma era addirittura esposta la teoria – un lungo capitolo che scrissi personalmente – sulla rendita urbana, questo in un documento ufficiale del comune. La Giunta pubblicava non solo il suo programma politico, ma addirittura la spiegazione teorico-pratica delle radicali trasformazioni proposte.
Questo è per noi un punto centrale: come avveniva allora la selezione della classe dirigente della città?
Questa domanda ha una risposta abbastanza chiara: dei sedici membri di quella Giunta praticamente gli unici funzionari erano Pippo Dozza, che fin da ragazzo era stato un “rivoluzionario di professione”, e un compagno socialista, che credo fosse un funzionario della sua federazione. Gli altri erano tutti uomini che oggi chiamereste della società civile: professionisti, operai, docenti universitari, che poi, come il sottoscritto, sono tornati a fare il loro mestiere. E che si erano prestati con grandissimo entusiasmo a questa momentanea esperienza.
Quel partito quindi chiedeva a intellettuali e tecnici, importanti e giovani, di pianificare la città…
Giovanissimi: su sedici ve n’erano soltanto sei con più di quarant’anni. E il più vecchio era Dozza che stava per fare sessant’anni.
Sarebbe possibile oggi coinvolgere in questo modo intellettuali nell’amministrazione della città? E come?
No… mi sembra una domanda sbagliata. Vi dovete calare in quel momento. Allora c’era un grosso Partito comunista, con tutti i suoi difetti, il primo dei quali almeno per me, che avevo fatto la Resistenza come azionista, era il suo legame subalterno all’Unione Sovietica. Ma quel partito ha avuto la capacità di gestire la lotta per il “socialismo all’italiana”. Tanto è vero che la mia vicenda non riguarda solo Bologna, ma nasce dalla conferenza regionale comunista del 1959 organizzata, non casualmente, da Giorgio Amendola, responsabile dell’organizzazione nazionale del Pci. L’intenzione era di superare nei Comuni il periodo duro della ricostruzione, degli scontri scelbiani, ricercando un’alternativa politica di governo locale al governo centrale di maggioranza democristiana. Così in Emilia Romagna nel giro di pochi anni, tranne Dozza, rimasto emblematicamente come segno della continuità con la Resistenza, cambiarono tutti i sindaci. E la nuova urbanistica non riguardava solo Bologna, ma nasceva da un cambiamento di linea politica generale, all’interno della quale il ruolo della gestione urbana e territoriale assumeva giustamente un valore emblematico, direi uno dei fondamentali.
Questo era il prodotto del partito. La linea di quel Pci – come nel famoso discorso di Togliatti a Reggio Emilia, “ceti medi ed Emilia rossa” – si concretizzava in questa ricerca di alleanze non rivolta astrattamente verso ceti sociali intermedi, ma verso l’uso delle migliori energie che potevano essere utilizzate per una politica radicalmente nuova, una politica riformista. Nei fatti Bologna è stato il primo Comune italiano che ha scoperto che si potevano fare investimenti di tipo keynesiano; dal 1960 al 1964 gli investimenti comunali quadruplicarono. Per carità, nessuno nominò mai Keynes, però la cosa era molto semplice: i Comuni avevano una parziale autonomia fiscale e i proventi del prelievo fiscale moltiplicarono i mutui – il “deficit spending” – e furono investiti in servizi pubblici e case popolari a beneficio di tutti i cittadini, che in grande maggioranza erano dei lavoratori ed elettori del Pci. A noi sembrava tra l’altro che questo impiego del reddito cittadino rispettasse perfettamente la più ortodossa linea del Partito comunista. Solo “casualmente” era la linea di un tal Franklin Delano Roosevelt, enunciata in termini teorici da tal John Maynard Keynes.
In quegli anni all’opposizione c’erano personalità come Dossetti, Ardigò, che più o meno portavano avanti politiche simili a quelle che lei ha raccontato. Pensiamo al Libro Bianco, al gruppo dei “professori” della Dc, che erano fautori di una politica keynesiana all’interno del loro partito. L’impressione è che ci fu una combinazione di fattori che favorì quelle politiche.
Hai detto una cosa che avrei voluto dire io, però hai dimenticato un nome: Osvaldo Piacentini. Tutta la parte urbanistica del Libro Bianco di Giuseppe Dossetti l’ha scritta Osvaldo, che era vicepresidente del Consiglio diocesano di Reggio Emilia, era il vice di Dossetti, ed era l’urbanista della Cooperativa architetti e ingegneri di Reggio Emilia, che io avevo ammirato fin da giovane; per me la Cooperativa di Reggio era un po’ un mito e con Osvaldo quando ci siamo conosciuti abbiamo trovato un grande accordo spontaneo e abbiamo fatto venticinque anni di lavoro comune. Era stato partigiano, per me queste cose contano. I comunisti delle sezioni della bassa pensavano fosse un compagno, non un cattolico in buoni rapporti con la Dc. E quando Osvaldo e io firmammo insieme il piano di Modena, Gorrieri, segretario della federazione democristiana, si accordò con lui e chiese a me di fare la relazione nella sede del suo partito, pur essendo io notoriamente comunista e in quel momento assessore all’urbanistica di Bologna. Gorrieri mi disse: “La farai tu, perché così dimostreremo che, se anche i nostri partiti a Roma si scontrano duramente, certe volte per il bene di Modena comunisti e democristiani sono capaci di superare anche la cortina di ferro”. E non era un inciucio, come si direbbe oggi, perché quel piano faceva scelte coraggiose e poco tradizionali. Osvaldo è stato uno dei più cari amici della mia vita. Il solo torto suo e di Dossetti era che i primi a non credere al Libro Bianco erano proprio i democristiani; il Libro Bianco era stato usato in maniera strumentale per tentare di vincere la battaglia contro Dozza. Il mondo di allora era quello: nel Pci c’era Secchia e c’era Amendola; nella Dc c’era Gorrieri e c’era Scelba. Con Gorrieri, prima che morisse, siamo poi finiti nello stesso partito, nelle tante trasformazioni che ha subito. Chi lo avrebbe detto tanti anni prima. Ma in comune avevamo la Resistenza, l’Antifascismo, la Costituzione e... il piano di Modena.
Lei ebbe carta bianca quando fu chiamato a Bologna?
Ho dovuto affrontare battaglie furibonde, ma un’investitura da parte del Pci allora era un’investitura forte. Dovetti convincere Pippo Dozza che sul piano del milione di abitanti aveva fatto uno sbaglio grave. Come ho spesso raccontato, una volta gli dissi: “Pippo, la provincia di Bologna conta solo 840mila. Per arrivare al milione, quelli che mancano dove li andiamo a prendere? Facciamo torto a Ferrara o a Modena?” Lui si fece una gran risata e capì che era stato spinto a una scelta politicamente sbagliata. E dopo, ripeto, scrivemmo un documento politico-programmatico in cui c’era un capitolo dedicato alla lotta contro la rendita. Altrimenti come facevo a spiegare che tante aree edificabili nel piano favorivano gli interessi della proprietà immobiliare e non quelli dei lavoratori che noi rappresentavamo? Ho fatto queste battaglie, talvolta condotte in modo originale. Un esempio divertente riguarda la scelta della salvaguardia del centro storico di Bologna. Dovevo convincere una città che dal primo all’ultimo cittadino era convinta che il centro storico andasse raso a zero e non certo salvato e risanato. E allora, mi chiesi, chi sono quelli che contano di più nel Pci? Gli operai, e allora dovrò convincere gli operai. C’erano due o tre operai in Giunta, con uno dei quali, operaio della Sabiem, la fabbrica di ascensori, ero particolarmente amico. Mettemmo insieme un gruppetto di militanti comunisti delle maggiori fabbriche bolognesi e con quelli cominciammo a fare serate peripatetiche nelle strade del centro storico. Loro non avevano un buon ricordo di quelle case del centro, nelle quali in molti erano cresciuti tra topi e “pongasse”, come mi raccontavano. “Quelle case van distrutte”, dicevano; e finivamo sempre in osteria, per una buona bevuta. Alla fine venne fuori l’orgoglio di classe e i compagni operai si convinsero: “Raccoglieremo la bandiera culturale che la borghesia lascia cadere, perché fa degradare il centro storico, ma noi, classe operaia dirigente del futuro, sapremo restaurarlo e conservarlo per i nostri figli e nipoti”. A questo punto andai da Fanti, segretario della Federazione comunista, e chiesi di organizzare un Comitato federale sulla questione del centro storico; era una sfida così grande che volevo un mandato politico del partito, non mi bastava essere l’assessore, autorizzato dalla Giunta. Fanti pensava che per me fosse un suicidio politico, ma alla fine convocò il Comitato federale; io feci la relazione, chiedendo la salvaguardia e il risanamento del centro storico e illustrando perché li volevo. Primo intervento un operaio, secondo intervento un operaio, terzo intervento un operaio: tutti d’accordo. A questo punto anche gli intellettuali si schierarono: la classe operaia aveva capito e gli intellettuali non avevano fatto una bella figura. Fanti capì che non ero andato allo sbaraglio; ma non potevo certo chiedere un Comitato federale senza essermi preparato!
È possibile dire che quello fosse un esperimento di “urbanistica partecipata”?
Più partecipata di così! Partecipata e decisa. Del resto, ci siamo scordati che i Consigli di quartiere sono nati qui, che li ha inventati proprio quella Giunta? Con abilità, attribuendone equamente il merito ai comunisti, ai socialisti e ai democristiani. Li abbiamo fatti a Bologna, dopodichè sono diventati un pezzo del sistema istituzionale nazionale. La partecipazione è questa. Il primo strumento di partecipazione nasce quando un comune medio-grande decide che non basta il Consiglio comunale, che ci vuole un organismo di passaggio fra il vertice centrale comunale e i singoli quartieri.
Come vede l’urbanistica partecipata e gli strumenti che vengono utilizzati oggi per creare consenso e partecipazione rispetto ai piani urbanistici?
La domanda va posta in altro modo: io non andavo dagli operai a creare un consenso. Io cercavo di trovare gli alleati più preziosi per vincere una battaglia di cui ero convinto. Da solo non avrei fatto niente, avrei forse realizzato dei provvedimenti calati dall’alto.
Sulla partecipazione non c’è una sol...