Economia della memoria
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Prefazione di Davide Rampello. Postfazione di Luca TomassiniLa memoria è la base della nostra conoscenza e della nostra identità. Ma è anche una delle facoltà messe più a dura prova nella nostra epoca, che trabocca di informazioni, sempre più difficili da selezionare e da trattenere. E così ci affidiamo a memorie delegate: da quelle dei computer a quelle degli smartphone, dai dispositivi di archiviazione fisici al cloud, dai database condivisi agli sconfinati depositi di storie che sono i social network. L'era digitale è un'era di riproduzione della memoria, che viene duplicata, supportata, sostituita; lo stesso sviluppo dell'intelligenza artificiale si basa sulla delega ai sistemi di procedure proprie della memoria umana. Il concetto di memoria è oggi in profondo mutamento: possedere nozioni e ricordi diventa meno importante che saperli richiamare; la capacità di memorizzare perde valore, anche economico, per le persone, e ne acquista per le macchine. L'economia della Rete appare allora come un'economia della memoria, in cui vengono duplicate e monetizzate le facoltà fondamentali dell'intelligenza umana. È possibile che le memorie artificiali sostituiscano del tutto quella naturale, fino a disincentivarne l'utilizzo? Quale impatto avrà questa trasformazione sulla nostra conoscenza? Come cambierà la nostra identità, che riposa sui ricordi che costruiscono il Sé? Per affrontare i tanti interrogativi aperti, questo libro propone una ricognizione nell'era digitale, tra le varie forme in cui la memoria viene tradotta in valore e si fa terreno del confronto tra uomo e macchina.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788849863079
Argomento
Business

1
Attenzione

Vedi, noi non amiamo come i fiori, traendo
Da un unico anno: amando alle braccia ci sale
Un succo immemorabile.
(R.M. Rilke, Terza Elegia)

1.1 Un’utopia post-monetaria

Quando si è cominciato a parlare di «economia dell’attenzione», eravamo agli albori dell’Internet di massa, e la digitalizzazione della comunicazione, mediale e non, era ancora un traguardo lontano. Da quel momento in avanti, per almeno vent’anni, il concetto avrebbe catalizzato le riflessioni di accademici, economisti, consulenti, imprenditori, esperti di comunicazione e di strategia del business, partendo dal terreno di coltura della psicologia teorica e cognitiva, che ha fornito il primo spunto – la quantità di informazione via via prodotta e resa disponibile eccede, ed eccederà sempre più, l’attenzione disponibile.
L’attenzione è una risorsa scarsa: e in quanto tale, potenzialmente centrale in un modello economico. Ma quale? Il primo a tenerlo a battesimo pensava a un’economia post-monetaria, se non post-capitalistica. Nel paper di Michael Goldhaber1, tra i suoi padrini, l’avvento della nuova forma di economia rappresenta una grande opportunità per gli individui, conducendoli a superare le barriere delle organizzazioni. Le aziende si dissolvono, le società scompaiono, mentre sono i singoli a essere oggetti e soggetti dell’attenzione: in un’economia «a piena attenzione», tipicamente abilitata dal web, le persone potranno finalmente fare a meno di qualsiasi intermediazione corporate (per esempio, quella degli editori) per diventare senz’altro i terminali delle transazioni di attenzione. Di più: il fatto che l’attenzione diventi la nuova moneta corrente per l’autore dovrebbe condurre inevitabilmente all’obsolescenza, e poi al declino, della moneta tradizionale, soppiantata da forme di circolazione, di accumulazione e di profitto non monetarie. In altri termini, si delinea l’utopia dell’estinzione della «vecchia» economia industriale, del capitalismo consumistico nella forma in cui l’abbiamo conosciuto, soppiantato dall’economia di Internet, non capitalistica, non monetaria.
Goldhaber descriveva l’avvento di una nuova era, ma allo stesso tempo parlava dell’inevitabilità di una fase di transizione, cosciente del fatto che non fosse ancora compiuta; riteneva inarrestabile la spinta verso la nuova economia, ma sottolineava che il rapporto tra attenzione e denaro restava degno di considerazione più approfondita. Casi come quelli dello star system gli suggerivano che denaro e attenzione, la vecchia e la nuova forma di moneta, invece di dissociarsi e prendere strade diverse convivono, e restano anzi direttamente proporzionali; oggi sappiamo che l’evoluzione estrema di questo modello, con buona pace dell’utopia internettiana, non è lo scambio di attenzione peer-to-peer, bensì la performance2 illimitata degli odierni influencers. Allo stesso modo, l’evoluzione degli intermediari, in primis editoriali, ha preso direzioni diverse. Goldhaber ha correttamente previsto la crisi dell’editoria tradizionale, colpevole a suo dire di aver frainteso Internet, pretendendo di disciplinare la proprietà intellettuale in Rete e scommettendo sull’affermazione dei siti a pagamento. La sua intuizione non si è tuttavia spinta fino all’ascesa di una nuova generazione di mediatori, persino più poderosi e invasivi, ancorché digitali.

1.2 Monetizzare il bene scarso

L’economia dell’attenzione può sembrare longeva, ma è camaleontica: nel corso degli anni in cui se n’è parlato, il suo significato è decisamente cambiato. Poco tempo dopo Goldhaber, la stessa espressione avrebbe incarnato un concetto sensibilmente diverso: nel volume di Davenport e Beck3, lo scopo diventa quello di supportare le organizzazioni a raggiungere il successo nella nuova configurazione economica. Obiettivo tutt’altro che accessibile, dato il livello critico di scarsità dell’attenzione; per di più, un’attenzione che sembra destinata a essere catalizzata sempre dagli stessi destinatari – rockstar, politici, sportivi –, in base a una legge non scritta che vede convergere di nuovo, sugli stessi obiettivi, la ricchezza di tutti i tipi. L’economia dell’attenzione qui non è dunque destinata a operare una redistribuzione di risorse, né a mandare in soffitta la moneta, ma s’inquadra totalmente all’interno della «vecchia» economia, mirando – a beneficio delle aziende – alla monetizzazione del bene scarso, che a questo punto diventa indispensabile riuscire a misurare.
I vari metodi prospettati dagli autori, più o meno invasivi, dalla rilevazione del tempo ai test psicologici, dal monitoraggio delle onde cerebrali al tracciamento dei movimenti oculari, non sembrano tuttavia venire a capo dell’enigma dell’attenzione: forse perché, come gli stessi autori avvertono e com’è riconosciuto in psicologia, esistono molteplici forme di attenzione, e la combinazione dei diversi metodi non mette capo a una misurazione complessiva. Alla fine, per dimensionare il valore effettivo del mercato dell’attenzione si è fatto ricorso alla quantificazione delle informazioni, dei dati, dei contenuti – digitali e non – che all’attenzione vengono proposti. Un tentativo di stima è stato fatto da David Evans4, che ha proposto di utilizzare come indicatore il numero di ore trascorse dagli utenti nella fruizione di contenuti la cui erogazione è supportata in qualche forma dalla pubblicità. Moltiplicando i 514 miliardi di ore spesi in questo modo dagli americani nel 2019 per il costo-opportunità orario, fissato a poco più di 13 dollari all’ora secondo una ricerca del ministero dei Trasporti statunitense, si ottiene un valore di circa 7 trilioni di dollari.
Non male come bottino per i «mercanti di attenzione»5: i nuovi mediatori digitali, comparsi dopo il tramonto dei vecchi, che attraverso il tracciamento e la profilazione riescono a raccogliere in Rete lo scarso bene e poi a rivenderlo al miglior offerente, realizzando profitti tutt’altro che demonetizzati. Si tratta di soggetti come i cosiddetti over-the-top (Google, Facebook, Amazon, Spotify, tra gli altri), eredi delle media companies e degli editori. Dalle prime inserzioni pubblicitarie agli spot televisivi fino al web advertising, secondo Tim Wu, si è svolta una secolare rincorsa a influenzare i consumatori, attirandoli tramite l’esca dei contenuti per dirottarli poi sui suggerimenti di acquisto: come vedremo, il digital marketing rappresenta l’ambito elettivo, anche se non esclusivo, di sfruttamento dei dati personali degli utenti. Contrariamente alle aspettative originarie, dunque, non solo l’economia dell’attenzione non segnerebbe alcuna discontinuità rispetto a quella tradizionale: ma il suo sviluppo ha condotto esattamente dove non avremmo voluto essere, vale a dire all’affermazione di veri e propri monopoli. Aziende tutt’altro che temporanee o evanescenti, che hanno fatto tesoro della lezione della gratuità, fungono da nuovi intermediari, accanto o in sostituzione di quelli spiazzati dall’evoluzione digitale; a differenza di questi ultimi, hanno consolidato la saldatura tra attenzione e denaro rivendendo la prima in cambio del secondo. Il tutto, naturalmente, senza oneri apparenti per i volenterosi fornitori del prezioso bene, tranne la loro garanzia di prestarsi al gioco.

1.3 Alla ricerca della misurazione impossibile

Si tratta però di un gioco sempre più difficile da giocare. Lo proclamano i manager – a una dei quali dobbiamo la definizione di «costante attenzione parziale»6 –, lo scrivono psicologi e psichiatri7, lo denunciano gli analisti del settore dell’intrattenimento digitale8, che parlano di una saturazione ormai imminente e di un settore vicino a farne le spese. È la fine dell’economia dell’attenzione? Ancora una volta, i dati portati a supporto chiamano in causa la disponibilità di tempo, sempre più scarsa9: ma il problema, piuttosto che estensionale, sembra intensionale, legato alla qualità e alla tipologia di attenzione allocata. Per stare attenti non basta avere tempo: bisogna anche concentrarsi, durante il tempo disponibile, in maniera efficace su un oggetto. In gergo, si parla di engagement per indicare l’interesse suscitato. In realtà, neppure questo indicatore – che dovrebbe porsi in alternativa alle metriche tradizionali, come il conteggio delle «teste» – ha trovato una sua traduzione appropriata, visto che la sua misurazione è stata di nuovo riportata alla quantità di tempo in cui l’attenzione resta (presumibilmente) impegnata. Si finisce insomma per ricadere nella solita vecchia scommessa (sebbene individuale, e quindi più mirata) della TV broadcast, che assume l’equivalenza tra la presenza di fronte allo schermo, o più in generale l’esposizione a un messaggio, e la sua ricezione efficace. Come vedremo più avanti10, i criteri di scelta e definizione delle metriche resta un significativo intoppo negli ingranaggi dell’economia digitale.
Com’è possibile allora parlare di economia dell’attenzione? Se con questa espressione intendiamo in ultima istanza lo scambio tra contenuti e tempo, il problema è a monte: forse l’economia dell’attenzione non è neppure mai iniziata. I contenuti o il tempo non possono aiutarci a misurare l’attenzione, perché non ci dicono nulla della sua molteplice natura, della sua intensità e del suo reale valore. Una volta caduta l’aspirazione iniziale a soppiantare l’economia monetaria, non è l’attenzione a essere stata dimensionata o valorizzata, ma solo i materiali che le abbiamo proposto e l’estensione del loro consumo. Gli elementi utilizzati finora come criteri di misurazione potrebbero altrettanto validamente individuare grandezze alternative: il volume delle informazioni, per esempio, è ugualmente adatto a misurare l’attenzione che a definire il valore della memoria utilizzata per conservarle. D’altro canto, quanto più aumenta la mole di contenuti, materiali e più in generale dati, in costante crescita (esponenziale, come si dice), tanto più diventa importante garantirne la conservazione a lungo termine: in questo caso, la quantità di tempo può esprimere il valore della persistenza dell’informazione.

1.4 Dall’attenzione alla memoria

Buona parte della difficoltà di cui abbiamo appena parlato è riconducibile alla natura articolata e multiforme dell’attenzione. Accanto all’attenzione «collativa», funzionale al nostro orientamento nello spazio e al recepimento di segnali direzionali, esistono un’attenzione «sostenuta», che garantisce la nostra capacità di mantenere nel tempo la concentrazione su un elemento, e una «selettiva», che interviene in situazioni di conflitto, bloccando l’elaborazione dell’informazione che in quel momento risulta meno rilevante e consentendoci di concentrarci su un compito principale11. In presenza di una sufficiente focalizzazione, le informazioni rilevate dall’attenzione vengono momentaneamente affidate alla cosiddetta memoria di lavoro: la condizione indispensabile per la memorizzazione è che tanto l’attenzione sostenuta quanto quella selettiva siano operative.
Così come l’attenzione, anche la memoria ha una struttura composita, all’interno della quale si possono distinguere varie tipologie di attività. In sintesi, la prima a svilupparsi è la memoria implicita, responsabile della formazione di modelli mentali, e funzionale agli automatismi del nostro comportamento, che non coinvolge la coscienza né l’autocoscienza, e non richiede attenzione focalizzata. A seguire, con lo sviluppo del linguaggio, si fa strada la memoria esplicita, a sua volta classificabile in semantica – attiva nel riconoscimento e richiamo del significato di nomi e parole – ed episodica – atta a richiamare momenti e ricordi che coinvolgono la nostra vita, detta anche autobiografica. Questa seconda fattispecie richiede lo sviluppo di una consapevolezza conscia e di una concentrazione specifica. L’attenzione è indispensabile in tutti gli step del processo mnemonico. All’interno della memoria esplicita, in presenza di specifiche condizioni di focalizzazione attentiva, gli oggetti della percezione vengono presi in carico dalla memoria di lavoro: ma solo se associati a una forte motivazione o spinta emotiva sono selezionati come particolarmente significativi, ed è più probabile che il loro ricordo venga conservato e candidato al consolidament...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Sinossi
  3. Profilo biografico dell'autore
  4. Colophon
  5. Premessa
  6. Introduzione
  7. 1 Attenzione
  8. 2 Conservazione
  9. 3 Cancellazione
  10. 4 Proprietà
  11. 5 Apprendimento
  12. 6 Accesso
  13. 7 Delega
  14. Postfazione
  15. Ringraziamenti
  16. Bibliografia
  17. Note
  18. Nella stessa collana