1. Fuori dal monismo individualistico/proprietario e per un recupero della complessità del paesaggio socio-giuridico
Questo libretto, scritto da un giurista ma destinato a lettori anche non-giuristi, non è un evento occasionale, perché nasce dietro sollecitazione di un assai vigilante editore ed è scritto con motivazioni e finalità ben precisate. Almeno in questo caso si può dire che editore e scrittore sono sorretti da sintonia culturale.
Noi, in Italia – ma, ormai, in molte parti del mondo – viviamo il protagonismo della proprietà privata individuale, contemplando – da parte mia, con una certa mestizia – il trionfo di un assetto capitalistico (se volete, neo-capitalistico) dell’ordine economico mondiale. E siamo portati a credere che questo assetto sia la migliore (forse, l’unica) sistemazione possibile della complessità dei fatti socio-economici. Ci adagiamo per pigrizia in questa generale assuefazione e assomigliamo sempre più ai vecchi cavalli da tiro (a me familiari durante i lontani anni giovanili) che, muniti di spessi paraocchi, non potevano avere tentazioni di sviamento o curiosità diverse da soddisfare.
Questo libretto vorrebbe perseguire un primo obbiettivo: toglierci gli intorpidenti paraocchi, rendèndoci curiosi della interezza del mondo che è intorno a noi e, finalmente, capaci di vitali tentazioni efficienti nel toglierci dal semplicismo di una esiziale geometria; rendèndoci capaci di guardare oltre, guardare più in là, con il fine specifico di recuperare tutta la complessità del paesaggio socio-giuridico di ieri e di oggi, di cui cogliamo solo alcuni aspetti emergenti.
Né io né l’editore vogliamo cadere nel tranello di concepire una storia uni-lineare; peggio ancora, di limitarci a una storia ufficiale segnata soprattutto dalle vicende del potere e del suo esercizio sopra sudditi obbedienti. Una storia troppo sradicata dai fatti e galleggiante alta e nuvolesca, sorretta solo da palafitte mitologiche abilmente coniate dai detentori del potere (o, il che è lo stesso, da pseudo-scienziati al loro servizio). Ohimè! Troppo abbacinati dalle lusinghe degli eventi “rumorosi” (l’immagine è di Fernand Braudel), abbiamo trascurato e trascuriamo gli strati profondi, secreti, della storia, assai meno rumorosi, assai meno appariscenti, ma ben espressivi di dimensioni non vincenti della società civile anche se radicate nella effettività di rilevanti gruppi sociali.
È un ingessamento culturale che si ripete, che sembra non finire mai, che ha avuto negli ultimi decennii una costrizione esasperata proprio sul tema/problema che ora ci interessa: il rapporto uomo-cosmo, soggetto-cose, che soprattutto nell’età moderna si è creduto di risolvere secondo un monistico schema proprietario. Era l’edificio di pietra forte costruito dall’individualismo possessivo moderno, il solo edificio che la civiltà borghese ha ritenuto di proiettare in un futuro senza fine. Quella civiltà è durata finché è durato il «mondo di ieri» (come lo chiamò Stephan Zweig), un mondo di certezze e, ovviamente, di chiusure e di sordità, placidamente disteso per tutto il placido scorrere dell’Ottocento. Potevamo ritenerlo un passato completamente trascorso e ci siamo dovuti accorgere che i suoi rigurgiti ridondano fino al nostro presente, quando vediamo allarmati troppe incrinature nei lineamenti di quello Stato sociale di diritto, che i nostri padri salutarono settanta anni fa quale indelebile conquista di civiltà.
2. Il rifiuto “moderno” di una dimensione collettiva
Una sordità non poteva mancare alla cultura socio-giuridica moderna, così come definita e consolidata sul continente europeo, a fine Settecento, con la grande serrata della rivoluzione francese, e concerneva proprio la chiusura nel bozzolo del monismo individualista, con un rifiuto completo per tutto ciò che si incarnava nel collettivo. Se v’era, infatti, una dimensione deprecata – e, pertanto, frontalmente respinta – dalla cultura individualistica della civiltà borghese, questa si condensava nel collettivo percepito come fattore soffocante, e comunque indebolente, per la libertà dell’individuo e per la sua essenziale dimensione proprietaria. Ed era eloquentissima la sorte riservata a quelle non molte realtà collettive che continuavano a persistere durante l’età moderna quali resti di primitivi assetti fondiarii dell’età medievale e pre-moderna.
Si trattava di una realtà non esigua, anche se collocata in zone marginali della circolazione economica, capillarmente presente in tutto il territorio della penisola, dalle Alpi fino alla Sicilia e alla Sardegna, che era emersa con molta evidenza in quel vasto e compiuto bilancio sullo stato delle campagne e delle montagne italiane voluto, con gesto meritorio, dal Parlamento nazionale subito dopo l’unificazione politica ed effettuato con grande impegno da un folto stuolo di tecnici. Fu, infatti, nelle risultanze della Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola varata nel 1877, che emerse un paesaggio assai più variegato di quanto ci si aspettava: accanto alla fiumana maestosa delle proprietà individuali costituita da una quantità enorme di microfondi e di latifondi, apparivano sussistere formazioni collettive, costantemente esercitate dalle popolazioni e accanitamente difese, variamente denominate e spesso espressioni di situazioni locali (geologiche, etnologiche, economiche, giuridiche), spesso grondanti della fangosità dei fatti locali. “Comunità”, “comunanze”, “consorzii”, “consorterie”, “società di antichi originarii”, “regole”, “comunalie”, “comunelle”, “compascui”, “università agrarie”, “partecipanze”, “dominii collettivi”, “servitù di pascolo”, “ademprivii”, “usi civici” (diversificati in erbatico, diritto di semina, macchiatico, legnatico, e via dicendo) costellavano di sé tutta la penisola.
La pubblicazione degli “Atti” della Inchiesta agraria fu sicuramente un evento di grosso rilievo anche sotto un profilo strettamente culturale e si poté toccare con mano la macroscopica bipolarità che li percorreva: da un lato, quei pochi osservatori-registratori che erano muniti di sensibilità sociale e di spessore culturale, segnalarono nelle espressioni collettive un modello alternativo di appartenenza; di contro, i molti, che appartenevano alla coinè della ufficialità borghese, non arrivarono a cancellare delle realtà esistenti e operanti, ma le condannarono a morte bollàndole con l’infamante qualificazione di gravami della libera proprietà; cioè quasi delle cellule tumorali che dissanguavano le limpide attuazioni della appartenenza individuale, dei mostriciattoli dal punto di vista economico, che un potere politico ispirato ai sani principii del liberismo avrebbe dovuto estirpare dal paesaggio sociale del nuovo Regno d’Italia.
E una parola d’ordine, che era circolata da tempo, risultò ancor più imperiosa: liquidazione, termine e programma che io mi son permesso di definire auschwitziani perché miravano alla eliminazione di realtà intensamente vissute; nella sostanza, si concretizzarono in un progetto legislativo che sarebbe stato costantemente perseguito dal potere politico italiano con un coronamento finale nella legge fascista del 1927. Questa legge, pur riguardando, secondo la sua intestazione, «il riordinamento degli usi civici nel Regno», dimostra il suo carattere aggressivo fin dall’articolo 1 del capo I dove si parla con inequivoca chiarezza de «la liquidazione generale degli usi civici e di qualsiasi altro diritto di promiscuo godimento delle terre».
Dal punto di vista dell’ortodossia borghese, la liquidazione si imponeva, perché quegli assetti collettivi venivano pericolosamente a ledere il modello unico di proprietà, lo schema monistico che per il potere borghese aveva una valenza intrinsecamente costituzionale, se con questo aggettivo si intende il fondamento basilare di tutto un edificio socio-politico. Liquidare a ogni costo quelli che potevano assurgere – pur nella loro appartatezza – a rischiosi modelli alternativi sembrò l’unica tutela efficace per la sopravvivenza dello Stato mono-classe. Può essere un utile chiarimento seguire lo stagliarsi di questo modello unico di proprietà nell’orizzonte dello statalismo legalistico italiano.