Incontri
Toni Morrison. I nostri avi sapevano volare
Incontro Toni Morrison a casa sua, a Grandville, un piccolo centro abitato del nord New Jersey. Non lontano c’è una verdissima foresta lungo il fiume Hudson, che in questo punto si fa lago. Toni, a metà dei suoi cinquant’anni e nera, è assai bella e lo sa: corpo forte generoso e maturo, faccia e sguardo intensi, sempre in movimento a sottolineare e animare le cose che dice. C’è un unico punto dell’accogliente casa in cui vive con i figli, maschi e nei loro vent’anni, che non è disposta a farmi vedere.
C’è un luogo nella casa che non può essere visto o fotografato da nessuno ed è dove io scrivo: è un posto segreto, magico, popolato da presenze incantate. Posso parlarne, ma non posso rischiare di spezzarne l’incanto ammettendoci altri sguardi.
L’acqua che ci circonda da tutte le parti mi sta procurando una specie di spaesamento, come se non sapessi bene dove mi trovo. Tu ti ci sei abituata, ormai...
L’acqua è pericolosa. L’acqua è magica. Posso passare ore a guardarla, ma è anche ipnotica e catturante. Se scrivo non devo averla davanti, perché la sua fascinazione è così forte da impedirmi il lavoro: è come se mi imponesse i suoi ritmi e i suoi movimenti e la scrittura, almeno l’atto materiale di scrittura, richiede concentrazione assoluta, non ammette interferenze o distrazioni dall’esterno. In altre fasi invece – mentre sviluppo un pensiero o un’immagine o fisso una fantasia – poter posare lo sguardo sulla superficie mobile dell’acqua mi aiuta ad andare dietro ai miei fantasmi e alle loro suggestioni.
Tu hai avuto un background poverissimo in Ohio e l’anomalia di essere, pur se nera e donna, in grado di studiare, laurearti e mantenerti con il tuo lavoro di insegnante.
Quando si è così poveri i pensieri hanno tempi cortissimi, si possono fare progetti di sei mesi in sei mesi al massimo, più spesso si funziona sul giorno per giorno. È naturale che per una donna il matrimonio diventi l’unico obiettivo. E lo è stato anche per me, anche se mia madre era felicissima che non mi sposassi subito e prendessi tempo. Il matrimonio è venuto, ha portato due figli ed è finito senza speranza quando il più piccolo aveva solo tre mesi. Invece di rientrare in famiglia ho deciso allora di giocare la carta dell’autonomia. Sono sempre stata coraggiosa e mi piace rischiare. Sapevo che tornare a casa significava chiudere, rinunciare a scoprire le mie forze, chi ero e cosa sapevo fare. Era importante non chiedere aiuto e non l’ho fatto, ma è stata dura e non so se scegliere la strada più facile e più ovvia non sarebbe stato meglio. Probabilmente sì. È la sola possibilità che una donna nera ha di diventare adulta.
Perché nella famiglia nera essere adulti significa assumersi la responsabilità e i bisogni degli altri e nella nostra storia sono le donne che da sempre lo fanno. Il processo di individuazione come persona pienamente responsabile io l’ho mancato. La libertà individuale non è necessariamente una caratteristica da adulti, libertà è scegliere le proprie responsabilità, non rifiutarle. Potevo almeno provare.
È vero che con i soldi che ho guadagnato oggi posso pagare una donna che tiene compagnia a mia madre, ma questo è quello che fanno gli uomini, che nella nostra cultura non sono mai stati considerati gli adulti. E dai miei figli io non mi sono mai voluta staccare, perché mi occorrevano... più di quanto io non occorressi a loro. Senza di loro sarei stata una conchiglia senza carne.
Puoi spiegarmi le ragioni del probabilmente sì?
Non ne sono sicura, la mia decisione è stata di certo benefica per me, per i miei figli non so. Mi chiedo se la mia avventurosità non sia stata una penalizzazione per loro. Per me è stato faticoso, ma loro hanno pagato: crescere soli con una madre che lavora sottrae delle cose. La famiglia allargata e la sicurezza di tante figure adulte che si preoccupano per te sono un vuoto che non si compensa. È chiaro però che, se fossi rimasta in famiglia o anche sposata, non avrei mai scritto.
La scrittura si genera allora da una rottura, da un vuoto, da una trasgressione. Diventa lo strumento della resistenza, contro l’isolamento e contro la solitudine.
Risposarsi o mettersi con un altro uomo, per restaurare un equilibrio perso? Fare un nuovo patto di sopravvivenza? No, quando la scrittura è diventata un approdo, uno spazio di piacere e di autoriconoscimento, non ci sono equilibri precedenti che si possano ristabilire.
Sono così venuti gli anni di The Bluest Eyes e di Sula, quando ancora non usavi per te la parola scrittrice, gli anni dell’impegno politico e professionale alla Random House, gli anni di New York e del riconoscerti poco adatta alle organizzazioni politiche e ai loro cerimoniali...
La mia utilità politica era strettamente collegata al mio lavoro: nella casa editrice, dove riuscivo a far pubblicare e a difendere dal sabotaggio e dalla trivializzazione testi come quelli di Angela Davis o di Huey Newton; nella scuola, con l’insegnamento; nella scrittura, che è il risultato diretto delle condizioni in cui viveva e vive la mia gente e attraverso cui continuo a pagare un debito nei confronti di chi è in pericolo o muore e non necessariamente lo sa.
Poi è venuto il 1977 con Il canto di Salomone e l’enorme successo di critica e di pubblico. La scrittura non è stata più solo un piacere e un interesse quasi privato o una strategia di sopravvivenza. Ci credi? (ride) Ho dovuto aspettare fino al terzo libro per convincermi che ero una scrittrice. Prima pensavo che i miei scritti fossero un fatto occasionale, che non si sarebbe ripetuto e che io non avrei in ogni caso saputo riprodurre volontariamente.
E la decisione di lasciare la casa editrice dopo diciotto anni?
È stata una decisione che ha segnato profondamente la mia vita; non ho più niente che mi ripari o mi allontani dalla scrittura.
Come consideri il tuo impegno politico come scrittrice?
Scrivere per me è raccontare e raccontare è il modo più sicuro di far circolare informazioni, di catturare e sedurre chi legge, di far opera di sabotaggio.
Non deve essere stato facile per te, per come scrivi e per le cose e i personaggi che racconti, sopravvivere alle reazioni “politiche” della comunità nera.
Lo sai di cosa mi hanno accusata? (mi domanda ridendo) Di aver creato personaggi non utili alla causa, figure in cui i neri non possono identificarsi in modo positivo, di aver svelato contraddizioni e contrasti. Nessuno può dirmi come e cosa devo scrivere! E poi, cosa credono, che il pubblico nero sia stupido e non sappia distinguere tra un mondo reale e possibile e un mondo inesistente?
A un musicista nero di certo non oserebbero dirlo: la musica è incontrollabile e proprio questo le dà tutto il potere che ha. Nella musica c’è molta rabbia. Non importa che sia gradevole da ascoltare: la sua qualità e la sua caratteristica sono di essere aperta e imprevedibile. Ridere anche se si è in catene, ecco che cosa c’è dentro. Cosa bisognerebbe dire del blues allora e di Bessie Smith?
No, no la vera funzione politica di chi scrive è assumersi la responsabilità non di dire, ma di mostrare/rivelare, dare voce e metafore alle proprie percezioni.
Romanticizzare la vita dei neri ed enfatizzare la loro purezza e innocenza è vergognoso e politicamente improduttivo. La chiarezza politica viene dallo svelamento della verità e dal rispetto della contraddizione e la scrittura deve tener dietro a questo svelamento. La lingua della rivoluzione farebbe addormentare chiunque. Rivelare in forma teatrale e drammatica significa invece far diventare organico, uscire dagli slogan. E questo è sabotaggio.
Nella comunità nera, anche nei suoi ambienti artistici, esistono tuttora prescrittività e schematismo. Toni tira fuori l’edizione italiana del Canto di Salomone e mi mostra la copertina, orribile perfetto stile romanzo d’appendice esotico, e dice che lei avrebbe scelto le figure aeree e volanti, le bambole di carta di Matisse. Alle donne capita spesso, da dentro e da fuori, le dico, di essere appiattite – compresse – dentro la monodimensionalità del corpo e della materia e Toni oltretutto è nera.
E pensare che i nostri antenati, prima di lasciare l’Africa da schiavi, sapevano volare. Poi qui hanno perso questo potere. Gli uomini hanno sempre volato più delle donne...
Ma chi sono le figure femminili che popolano le tue scritture? Chi è Pilate o Eva? Da dove viene la loro forza, la loro sapienza, la loro tranquilla familiarità con i ritmi biologici del corpo, la loro padronanza sulla vita e sulla morte? Da quale immaginario, privato o collettivo, sono uscite? Sono fantasmi e proiezioni personali o appartengono alla storia e al passato di un popolo?
Forse sono un desiderio: come a tre anni un bimbo vede la nonna. Sono la ricerca della sapienza, della tranquillità, del proprio passato, dell’innocenza e dell’ignoranza insieme. Non sono loro che vengono fuori da me, sono io che vengo fuori da loro.
E perché la prevalenza quasi assoluta del registro tragico su quello comico? Perché nei tuoi libri anche il riso nasce dalla tragedia e dalla disperazione?
Perché il mio registro è tragico e...