Gli Stati Uniti dopo Ground Zero
1. Tra guerra e diritto
Come abbiamo visto, dunque, sia pur con diverse sfumature e peculiarità proprie di ciascun ordinamento, quasi tutti gli Stati europei hanno introdotto, in seguito all’11 settembre 2001, modifiche normative in materia di contrasto al terrorismo, anche internazionale, caratterizzate da deroghe significative ai principi del diritto penale liberale e talora anche a taluni diritti e libertà fondamentali. Ma uno degli esempi maggiormente significativi della recente tendenza dei paesi occidentali a introdurre regimi d’eccezione – spesso transitori – in materia di terrorismo, è rappresentato dal Patriot Act statunitense (Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Incercept and Obstruct Terrorism Act del 2001), previsto inizialmente come temporaneo mediante sunset clauses (la cui efficacia è stata prorogata con il Patriot Act II: USA Patriot Improvement and Reauthorization Act del 2005) e recante modificazioni a circa quindici provvedimenti federali. Il testo-base su cui si è svolto l’esame del Congresso – peraltro con tempi contingentati e in assenza di alcun emendamento d’iniziativa parlamentare – riprendeva nei contenuti essenziali la proposta di legge d’iniziativa del Justice Department nota come Mobilization against Terrorism Act, nel quadro di un’azione governativa basata sul conferimento – mediante la risoluzione parlamentare congiunta Authorization for use of Military Force (Aumf) del 18 settembre 2001 – di poteri straordinari al Presidente americano quale Comandante in capo (Commander in chief) delle forze armate, comprensivi dell’uso di tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che il Presidente ritenga abbiano pianificato, organizzato, commesso o favorito gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, ovvero dato rifugio a tali organizzazioni o persone, allo scopo di prevenire futuri atti di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti (sezione 2a). È importante ricordare come la Joint Resolution nota come Aumf sia stata emanata ai sensi della sezione 5 (b) della War Powers Resolution, varata dal Congresso il 7 novembre 1973, sul finire della guerra contro il Vietnam, in funzione limitativa dei poteri presidenziali in caso di guerra. Tale risoluzione sancisce infatti, in capo al Presidente americano, l’obbligo di consultare il Congresso, prima di assumere qualsiasi iniziativa militare, informando altresì costantemente il Parlamento delle attività intraprese e dello stato delle operazioni. I poteri appositamente conferiti con la risoluzione al Presidente possono altresì essere revocati dal Congresso, con la contestuale cessazione delle ostilità, mediante una Joint Resolution di segno contrario, che non necessita peraltro della promulgazione presidenziale. Inoltre, ai sensi della su richiamata sezione 5 (b) della War Powers Resolution, il Presidente è tenuto a disporre il ritiro delle truppe e la cessazione delle ostilità qualora il Congresso non abbia effettuato la dichiarazione ufficiale di guerra, salvo che le due Camere, congiuntamente, approvino un provvedimento volto ad autorizzare espressamente il Governo all’uso della forza, non oltre 60 giorni dall’inizio delle operazioni. È quanto accaduto il 18 settembre 2001 con la Joint Resolution n. 23, con la quale il Congresso ha conferito alla Presidenza americana un potere di fatto amplissimo – proprio perché non sufficientemente determinato – nella prevenzione del terrorismo e nella repressione dei responsabili degli attacchi alle Torri Gemelle. Potere, questo, esercitato anche mediante l’emanazione di decreti recanti norme di attuazione e integrazione delle disposizioni previste dai Patriot Acts e che, forse anche più di questi ultimi, hanno contribuito alla creazione di un sotto-sistema giuridico del tutto peculiare per i delitti di terrorismo e il giudizio a carico dei soggetti (in particolare, gli stranieri) sospettati o accusati di tali reati.
A livello statale peraltro, l’attuazione dei Patriot Acts è stata assicurata mediante l’emanazione dei Fellow Patriot Acts, ovvero di provvedimenti ad applicazione limitata al territorio del singolo Stato, sostanzialmente conformi al contenuto della legislazione federale, al fine di implementare l’azione di contrasto alle attività terroristiche, definite “emergenza nazionale” e qualificate come atti di guerra prima ancora che reati dalla Dichiarazione n. 7463, 66 Reg. Fed. 48199 emanata dalla Presidenza americana il 14 settembre 2001, ai sensi del National Emergencies Act del 1994.
Al di là del merito di ciascuna disposizione, l’impianto generale della legislazione federale statunitense in materia di contrasto al terrorismo è segnata innanzitutto da alcuni elementi fondativi comuni, espressivi del contesto emergenziale in cui sono stati emanati i Patriot Acts: un regime differenziato di tutela delle libertà e dei diritti civili a seconda della cittadinanza della persona, definito double standard da David Cole; significative deroghe ai principi – anche di rango costituzionale, primi fra tutti l’habeas corpus e la due process clause – vigenti nella legislazione penale, sostanziale e processuale, ordinaria; una tendenza alla degiurisdizionalizzazione delle misure a vario titolo incidenti sulla libertà personale (dalle intercettazioni all’espulsione alla detenzione, qualificata in taluni casi come amministrativa e soggetta a convalida giurisdizionale solo in alcuni casi e secondo procedure particolari); un rafforzamento dei poteri degli organi di intelligence a detrimento della sfera di attribuzione della polizia giudiziaria; una sostanziale prevalenza dell’attività nomotetica di iniziativa governativa o presidenziale, espressa attraverso l’emanazione di norme primarie, di disposizioni di attuazione della legislazione federale o di ordinanze e di circolari anche riservate (soprattutto in materia di attività di intelligence), non bilanciata da un corrispettivo dovere di informazione del Congresso da parte del Governo.
Riguardo a quest’ultimo punto, è opportuno rilevare come il ricorso a poteri presidenziali per l’introduzione di norme derogatorie rispetto a principi costituzionali o comunque alla disciplina ordinaria, in particolare in seguito alla proclamazione dello stato di emergenza, non rappresenti una novità nell’ordinamento statunitense e vanti anzi diversi precedenti [su cui si vedano, nella giurisprudenza della Corte suprema, il leading case Youngstown Sheet e Tube contro Sawyer, 343 US 579 (1952)]. Ad esempio, con gli Alien and Sedition Acts emanati dal Congresso su iniziativa presidenziale nel 1798, nell’imminenza della guerra con la Francia, furono previste ipotesi di espulsione degli stranieri qualificati da provvedimenti amministrativi come pericolosi per l’ordine pubblico, e al fine di reprimere il dissenso interno contrastando gli oppositori politici, si attribuì rilevanza penale a condotte potenzialmente lesive della stabilità del Governo quali la diffusione di notizie false o ingannevoli sul Governo, sul Congresso o sul Presidente al fine di recare oltraggio a tali organi o di pregiudicarne la reputazione. Nell’ambito della guerra civile, la Presidenza americana, estendendo la propria sfera di attribuzioni, ricorse alla sospensione dell’habeas corpus, legittimando l’arresto e la detenzione di circa 13mila persone in assenza di convalida e di riesame giurisdizionale. In seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale del provvedimento presidenziale per il mancato rispetto della Suspension Clause [Casi Prize, 67 US 635 (1863)], il Congresso ratificò il decreto presidenziale con efficacia retroattiva, convalidando in tal modo l’operato del Governo. Ancora, al fine di reprimere il dissenso interno e di perseguire gli oppositori politici, furono emanati, rispettivamente nel 1917 e nel 1918, l’Espionage Act e il Sediton Act, entrambi d’iniziativa governativa, i quali, con norme di dubbia compatibilità con il Primo Emendamento, hanno limitato sensibilmente la libertà di parola, conferendo rilevanza penale a condotte consistenti nella mera critica dell’operato del Governo. In seguito all’attacco giapponese a Pearl Harbour, nel 1941, la Presidenza americana, con l’Executive Order n. 9066, e Reg. Fed. (1942), autorizzò – con norme passate indenni al vaglio della Corte suprema, nel caso Korematsu c. United States, 323 US 214 (1944) – l’internamento di 120mila cittadini giapponesi-americani. Fu poi la Corte suprema, nel caso Duncan c. Kahanamoku, 327 US 304 (1946), a dichiarare che i cittadini non potessero essere condannati da tribunali militari, neppure in periodi di emergenza. Durante la guerra fredda, sulla base di provvedimenti d’iniziativa governativa volti a reprimere le formazioni socialiste e comuniste, le norme incriminatrici dello Smith Act (1940) furono estese alle condotte di istigazione alla violenza nei confronti delle istituzioni governative e dei loro esponenti e con il cosiddetto McCarran-Walter Act (Migration and Nationality Act del 1952) si autorizzò l’espulsione di stranieri accusati di appartenenza o sostegno a gruppi comunisti o anarchici, anche in assenza della prova del fine illecito perseguito dall’associazione, ovvero dell’effettivo coinvolgimento dello straniero nelle attività del sodalizio. Dopo un iniziale avallo [nel caso Dennis c. United States, 341 US 494 (1951)] delle norme dello Smith Act, la Corte suprema dichiarò tuttavia l’illegittimità costituzionale delle fattispecie associative introdotte dalla legislazione in esame, in quanto contrarie al Primo Emendamento [Scales c. United States, 367 US 203 (1961)].
Se quindi la necessità di fronteggiare situazioni di emergenza ha legittimato più volte, nella storia americana, l’esercizio di poteri speciali, anche in materia legislativa, da parte della Presidenza statunitense, i Patriot Acts, i decreti presidenziali e le linee guida emanate dall’Attorney General in seguito all’11 settembre si conformano a questa prassi, anche in ragione del conferimento, mediante la risoluzione parlamentare congiunta Authorization for Use of Military Force del 2001, di poteri straordinari al Presidente americano quale Comandante in capo delle forze armate. In virtù di tale autorizzazione quindi, la Presidenza ha emanato ad esempio il 13 novembre 2001 un’ordinanza militare (Military Order, Detention, Treatment and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism, 66 Reg. Fed. 57, 833) con la quale si ammette che gli enemy aliens siano giudicati da commissioni militari appositamente istituite, ritenute funzionali alla celebrazione di processi rapidi e tali da garantire – attraverso regole peculiari in materia di assunzione degli elementi di prova – la riservatezza delle informazioni secretate per ragioni di sicurezza. L’Aumf è stata quindi intesa come funzionale all’esercizio del potere – attribuito dai primi due articoli della Costituzione al Presidente in qualità di comandante supremo delle forze armate – di far giudicare da corti militari i soggetti imputati di avere violato le leggi di guerra. Né a tale conclusione osterebbero, secondo l’amministrazione Bush, la mancanza di una dichiarazione di guerra formale contro il regime dei taliban o l’impossibilità di qualificare i soggetti sospettati di affiliazione ad Al Qaeda alla stregua di combattenti arruolati in eserciti di uno Stato in guerra. In favore di tale tesi si adduce l’affermazione, resa dalla Corte suprema nel caso Casi Prixe, 67 US (2 Black) 635, 667-7- (1862), secondo cui lo stato di guerra non presuppone necessariamente una formale dichiarazione di belligeranza.
Se quindi la legislazione federale antiterrorismo emanata negli Stati Uniti in seguito all’11 settembre si inserisce nel solco di una prassi tesa a conferire alla Pr...