La catarsi dopo la tragedia
Le condizioni per il nuovo umanesimo
Franco Ferrarotti
Storicamente, le epidemie purtroppo non sono una novità. Nessuno ha dimenticato la peste nera, esplosa in Europa nel XIV secolo durante la Guerra dei Cento anni e, in anni più recenti, al termine della Prima guerra mondiale, l’epidemia detta “spagnola”, che nel 1920 ha causato la morte, fra le migliaia di altre vittime, al sociologo Max Weber, a soli cinquantasei anni.
È naturale e giusto piangere le vittime ma, nelle grandi sofferenze odierne, ci sono anche lezioni di cui approfittare. L’epidemia di oggi ha una peculiarità: dilaga e si diffonde in tutto il mondo. L’epidemia è diventata pandemia e la vera globalizzazione la sta facendo il coronavirus.
Siamo tutti agli arresti domiciliari. Il virus sta costringendo il viaggiatore seduto in auto, treno o aereo, al viaggio più difficile: quello dentro se stesso.
Il virus ci costringe a riscoprire: il senso del limite e a renderci conto che il progresso non è una fatalità cronologica; il valore e il privilegio della solitudine; la musica del silenzio; la logica della lettura contro la logica, oggi dominante, dell’audiovisivo.
È vero che la comunicazione digitale e che il tele-lavoro ci danno una sorta di normalità e sono resi possibili dalla tecnica. Ma, di per sé, la tecnica è un valore puramente strumentale. È una perfezione priva di scopo. Ci ha indotti “a fare per fare”; al correre per correre. Si comunica non più “con”, ma “a”, cioè a tutti e a nessuno.
Come il viaggiatore di Marco Aurelio, abbiamo dimenticato la meta lungo la via. Il virus, in particolare, ha creato un’emergenza che mette in luce i veri problemi. Ci dice che il profitto, prova sicura della razionalità di gestione dell’impresa, non va più concepito né perseguito in termini puramente contabili, ragionieristici. Va perseguito e massimizzato rispettando le condizioni indispensabili per l’equilibrio eco-sistemico delle comunità. Come non si stancava di dirmi il grande amico e ispiratore Adriano Olivetti, occorre costruire a misura d’uomo, imparare a industrializzare senza disumanizzare.
Dalla società irretita al nuovo umanesimo non si dà un passaggio indolore. Dall’umanoide all’ànthropos, all’homo sapiens socratico e all’homo probus, dicendi peritus di Cicerone, all’autentico Vir, che ha in sé e tesaurizza la forza, la vis, della sua virtus («virtù» che spesso in Machiavelli è sinonimo di «ferocia»), senza ricorrere a giustificazioni sovramondane, autonomo rispetto alla manomorta del passato, libero dalla plumbea autorità dell’eterno ieri, ossia, detta altrimenti, dalla creatura schiava delle circostanze all’individuo “autotelico” (su cui mi intratterrò a suo luogo). Non è un passaggio liscio, automatico. In esso non vi è nulla di scontato. Così come, per l’individuo, l’autonomia e l’autodirezione non sono valori conquistati una volta per tutte, acquisiti für ewig, porti sicuri e tranquilli.
La serenità olimpica dell’umanesimo classico è una leggenda. L’uomo non è un dato. Non ha natura, come la pianta o la pietra. L’uomo non è. L’uomo diviene. Fa storia. Ma la storia stessa non obbedisce a un disegno prestabilito, non segue e non ha un libretto come un melodramma. Solo evoluzionisti ingenui possono concepirla come un processo razionale dominato da un’idea di progresso inevitabile, quasi una fatalità cronologica, che ne scandisce l’ordinato svolgersi, in cui le fasi negative sono solo parentesi, crisi passeggere, smarrimenti occasionali, incapaci di incidere sul «corso storico», destinato a muoversi verso il meglio, a tendere sempre a nuove mète ideali. Ma quale storia?
Storia di vertice o storia dal basso? Grandi imprese o quotidianità? Macro- o micro-storia? Forse sono inseparabili. E già Eugenio Garin ci aveva dimostrato che dagli antichi padri gli umanisti avevano recuperato non solo i testi filosofici e letterari, ma anche quelli scientifici, dalla medicina all’astronomia, mentre nessuno sembra ricordare che Leonardo, senza rendersene conto, con la splendida naturalezza del genio, anche da vecchio, conservava le doti del bambino, con l’universalità che precede la specializzazione, la curiosità, il gioco, apparentemente gratuito, la domanda («che cos’è? perché?») e il gusto della ripetizione, che è approfondimento. E poi, ancora Leonardo, ormai vecchio, e la sua richiesta, infantilmente e vanamente ripetuta, al re di Francia, di riavere la Gioconda, e forse nello sguardo misterioso di Monna Lisa cogliere un, logicamente inesplicabile, riflesso di trascendenza, il senso profondo di un antico ammonimento: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno della verità».
Il neo-umanesimo di domani, esaurita la sbornia elettronica, troverà la sua base non nella bella frase, vale a dire nella concinnitas ciceroniana, bensì nell’impresa conoscitiva scientifica, in senso lato, come osservazione concettualmente orientata e interrogativo sul significato della presenza umana nel mondo.
Nel nuovo umanesimo non sarà più possibile parlare di scienze «forti» o della natura, impropriamente dette «esatte», contrapponendole, grossolanamente, alle scienze «deboli» o scienze sociali o umanistiche, specialmente alla sociologia, considerate scienze del vago o dell’incertezza o «inferme», senza rendersi conto che ogni vera scienza ha da considerarsi «inferma», problematica, per non rischiare di erigersi in dogma e quindi autonegarsi come scienza.
Non si potrà più parlare di «leggi» scientifiche, universalmente valide, intemporali, necessarie e necessitanti, bensì di uniformità tendenziali in senso probabilistico. Vi sarà una sola scienza, come attività conoscitiva concettualmente orientata, attenta alle domande della società, consapevole del carattere relativo dei suoi eventuali risultati.
La catarsi, all’improvviso, esplode. È un glorioso, euforico processo di auto-purificazione. Ma non c’è in esso nulla di automatico. Non è un regalo né del caso né degli dèi. Presuppone il sudore di sangue, il disperato senso di abbandono e di smarrimento, la solitudine angosciosa della notte del Getsemani.
Non si dà catarsi senza tragedia. E non c’è tragedia senza tradimento. Nella situazione attuale del mondo ci stiamo forse avvicinando al dénouement, al momento cruciale della crisi. Non è per domani e forse neppure per dopodomani. Potrebbe scoccare alla fine di questo secolo. Purtroppo, temo che non sarò più tra i viventi a godermi la conferma della mia previsione. Ma sta di fatto che già avvertiamo tutti il malessere del benessere: una società irretita e iperconnessa, legata e disunita, onnipresente e lacerata nello stesso tempo, ripiena di segnali e smarrita, traboccante di informazioni in tempo reale e perduta nel deserto di una solitudine invincibile, panlavorista e cronofagica, preoccupata dei dati personali, ma non ci sono più le persone, con un garante della privacy, ma la privacy è scomparsa. È un mondo in mutande, impudico e insignificante. Si sa tutto di tutti. Ma non importa niente di nessuno.
Passare dalla simia insipiens elettronica all’homo humanus, in senso pieno, come un essere in relativo equilibrio fra ragione e passione, non sarà una transizione facile. Solo storicisti assoluti, come il grande erudito di Pescasseroli e i suoi tardi discepoli inconsapevoli (neo-idealisti o idealmarxisti), hanno potuto credere in un progresso storico inevitabile, per quanto talvolta frenato da brevi parentesi irrazionali, tanto da ritenerlo una sorta di fatalità cronologica.
Nel 1929, l’anno della «grande crisi», quella che John Kenneth Galbraith aveva definito il «great crash», Julien Benda pubblicava il suo famoso pamphlet sul «tradimento degli intellettuali», (La trahison des clercs), avendo in mente le dittature del momento, da quella di Stalin a quella fascista e a quella, incombente, nazista. Gli intellettuali, secondo Benda, tacevano, erano accomodanti, anche se non giustificavano. I più arditi e coerenti andavano a dare una mano ai repubblicani spagnoli contro le truppe di Francisco Franco, benedette dal Papa e aiutate da Hitler e Mussolini. Ma molti tacevano. Basti pensare che un anno dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, nel 1925, Benedetto Croce non nega il suo voto al governo Mussolini. Nel novembre del 1933, fra i firmatari della Dichiarazione a favore di Adolf Hitler, alcuni nomi, destinati alla celebrità, come Martin Heidegger, Carl Schmitt ed Ernst Jünger, sono scontati, ma provoca una certa sorpresa trovare i nomi del filosofo-antropologo Arnold Gehlen e di Hans-Georg Gadamer, il futuro autore di Verità e metodo. In Italia solo una manciata di professori universitari rifiuterà il giuramento di fedeltà al fascismo. Ancora oggi, in un testo riportato da «Le Monde» (19 luglio 2019, p. 14), un noto sceneggiatore e scrittore televisivo (mi si perdoni l’ossimoro), Andrea Camilleri, non esita ad affermare che «en Italie, nous avons une certaine inclination à la servitude». Se non «servi sublimi», come riteneva Cesare Garboli, gli italiani sarebbero servi «naturali».
La stessa filosofia sembra rinunciare o perde il suo classico rigore. Si avvicina pericolosamente all’arte di arrangiarsi. Non è per caso che Benedetto Croce e Giovanni Gentile, gli indiscussi maestri dell’idealismo italiano per gran parte del secolo scorso, provvedono alla riforma della «dialettica degli opposti» di Hegel, diluendola, giudiziosamente, nella «dialettica dei distinti».
Al crociano di stretta osservanza Carlo Antoni, nel suo Commento a Croce, commovente documento di fedeltà estrema, questa riforma della dialettica hegeliana non solo non sembra, come invece è parso a studiosi seri, una «controriforma», ma viene addirittura salutata come un contributo fondamentale del genio italico, capace di temperare la hybris teutonica con il buon senso latino, senza avvedersi che in realtà si tratta di un gusto deplorevole per l’etica del «così è, se vi pare», che finisce per porsi come il salvacondotto di azzeccagarbugli, se non, peggio, di una sindrome mafiosa.
Ancora oggi, un noto agguerrito professore di filosofia veneziano, Emanuele Severino, alla domanda se non veda il rischio che il digitale, come esito ultimo della tecnica, renda superfluo o sia in conflitto con il pensiero filosofico, risponde, sicuro: «No. Se stiamo alla filosofia storicamente apparsa c’è stata una solidarietà essenziale tra una filosofia che […] dice che dio è morto, e la tecnica» (v. «L’Espresso», 28 luglio 2019, p. 77).
La situazione odierna è forse più complessa. Ma gli atteggiamenti servili di coloro che si suppongono custodi dello spirito critico non sembrano mutati. La tirannide, oggi, non è impersonata né dal «piccolo padre» Stalin, uscito a diciannove anni dal seminario di Tbilisi, né dal «duce» fascista né dall’artista fallito reincarnato nel Führer. La tirannide elettronica di oggi è capillare e acéfala. Le cinque multinazionali che dominano il mercato degli aggeggi elettronici e che hanno nelle loro mani il pianeta, a vergogna di giuristi, politici e intellettuali, sono semplici «domicili privati».
La tirannide classica trovava eventualmente il suo esito finale e la sua soluzione nel tirannicidio. La tirannide elettronica non lo consente. Non è più possibile. Le cinque multinazionali dei prodotti elettronici hanno bilanci superiori a quelli di molti Stati nazionali. È un potere di pressione, diretto e indiretto, enorme. Gli intellettuali ne subiscono il fascino. Nella loro insicurezza, quanto ai mezzi di sussistenza e in generale nella loro conseguente venalità, per gli intellettuali c’è un carisma che captano a volo. È il carisma del robusto conto in banca. Si è spesso parlato del loro amore per la torre d’avorio. Un’attrattiva anche più forte la esercita su di loro la torre di controllo. Di qui, il gusto per il potere. Quanto meno, per il potere indiretto del consigliere del principe, del segretario, colui che conosce e conserva i segreti, gli arcani del potere. Un gusto o una tentazione che vengono da lontano. Si pensi a Platone, due volte a Siracusa a fare da “advisor” a Dionigi il vecchio e poi al giovane. Rischia la vita. Viene venduto come schiavo. Un suo studente, di nome Archita, se ben ricordo, lo riconosce, lo compra e lo salva (a volte gli studenti sono util...