IL SOVRANO DELLA SCENA RIMANE DIETRO LE QUINTE
A “fare” il teatro italiano bastano i direttori dei grandi teatri. Essi decidono della popolarità, della visibilità e del successo (anche di critica) degli artisti. Esercitano questo prerogativa decidendo quali spettacoli produrre, quali mettere in abbonamento e quali far circuitare e scambiare.
Dimmi chi ti produce e ti dirò che successo avrai. Per verificare la validità di questo assunto basta avere un po’ di memoria storica, e notare come per un artista, trovarsi sopra o sotto la soglia di visibilità, dipenda dalla maggiore o minore importanza del suo produttore. Facciamo un esempio chiarificatore.
Un regista col suo spettacolo fa centinaia di repliche, tutte a teatro pieno, arriva più volte in finale ai premi della critica: è insomma di “successo”. Un paio di stagioni dopo invece è scomparso dai radar; racimola a malapena una ventina di repliche (la metà vendute a percentuale), le sale sono mezze vuote e i critici sembrano essersi dimenticati di lui. I mentecatti probabilmente attribuirebbero questa débâcle ad una involuzione artistica, al fatto che non è più ispirato.
Niente di tutto questo. Probabilmente è stato così folle da credere che il suo successo dipendesse da lui e ha commesso l’errore di non cercare, a qualsiasi costo, di essere prodotto da un grosso teatro (o forse ha fatto lo “sbaglio” di smettere di dirigerne uno).
Fa solo venti repliche perché non ha un teatro dietro che scambi il suo spettacolo o che gli procure lunghe teniture; le sale sono mezze vuote perché non viene più messo in abbonamento; i critici non si sono dimenticati di lui, ma non hanno occasione di vederne gli spettacoli. La maggior parte di loro è “stanziale” e non vedono uno spettacolo che non “tocca” la città in cui vivono. E meno critici vedono uno spettacolo, meno questo ha possibilità di vincere un premio.
La bontà di questa analisi è comprovata dal fatto che, tutti i registi sani di mente, bramano di diventare direttori artistici di un grande teatro: sanno che è la via più breve per fare il “successo” dei loro spettacoli.
È un regista, quindi non capisce niente di teatro
Nessun assessore all’urbanistica spiega ad un ingegnere come costruire un ponte, né un direttore amministrativo di una clinica suggerisce ad un chirurgo come usare il bisturi. Evidentemente si riconosce a queste persone una competenza e una professionalità, anzi forse li si assume proprio in virtù della loro eccellenza nel mestiere che esercitano, lasciando loro la libertà di svolgerlo come meglio credono.
Nel mondo del teatro, invece, un direttore - che, in genere, non ha alcuna competenza specifica in materia, essendo di norma un esponente di Serie B di un Partito, a cui, nella lottizzazione delle prebende, è toccato la “parte” di minor pregio, la cultura - ha il preciso compito di spiegare ad un regista quale spettacolo fare e come farlo: gli “suggerisce” il testo, l’attore principale e anche il tono generale che dovrebbe avere. Il direttore non riconosce al regista alcuna competenza, perché sa che lui stesso è l’unico ad averla. È conscio che il valore artistico di un regista, nel teatro italiano, è ininfluente nelle dinamiche del consenso.
Di solito succede così: un regista va a proporre al direttore lo spettacolo che vorrebbe farsi produrre. Uno spettacolo a cui tiene, che, secondo lui, potrebbe dire qualcosa di importante, e che metterebbe lui e i suoi attori nella possibilità di una crescita umana e artistica. Arriva anche ad affermare che, tenendo molto a questa sua idea, è disposto ad un cachet piuttosto basso. Il direttore lo ascolta pazientemente, per poi spiegargli che la sua proposta non è interessante, perché senza appeal e impatto comunicativo (ovvero non in linea con gli scopi del Teatro Pubblico Commerciale). Passa quindi a contro-elencargli una serie di proposte di “sicuro successo” che farebbe bene ad accettare:
- 1. La prossima stagione cade l’anniversario dell’invenzione del fiammifero, perché non fare uno spettacolo su questo strumento, realizzando una versione attualizzata del Prometeo incatenato di Eschilo?
- 2. C’è anche l’anniversario di quando è diventato calvo Pirandello, perché non rimettere in scena Vestire gli ignudi?
- 3. C’è un attore giovane che ha partecipato ad una sitcom su una famiglia con un padre che ha il dubbio di essere omosessuale. La sitcom verrà trasmessa a settembre in tv, perché non debuttare ad ottobre con un testo di Fassbinder con protagonista il giovane attore?
- 4. Le questione socio/politiche sono di grande impatto comunicativo: perché non produrre il testo di un giovane drammaturgo su uno scottante tema contemporaneo? Bisogna avere solo l’accortezza di scegliere una questione che sia già “passata in giudicato”, in cui, ciò, i cattivi e le vittime innocenti con cui empatizzare siano già state universalmente individuate. Insomma perché non mettere in scena un sano vecchio melodramma politico ad uso sgravio coscienze di sinistra?
Il direttore dimostra così di avere “il polso del pubblico” e di sapere quale spettacolo “andrà” e quale no: è lui il vero e solo artista e “regista” del teatro italiano, che realizza i suoi spettacoli per interposta persona. Tutto ciò è logico, visto che il successo di uno spettacolo lo determina - in anticipo - letteralmente lui. E il regista postulante di turno sa che, se vuole lavorare, dovrà accettare la tutela artistica del direttore.
È normale che personaggi come Claudio Morganti (due Premi Ubu), Danio Manfredini (tre Premi Ubu), la Compagnia Deflorian-Tagliarini (due Premi Ubu), la Compagnia Scimone-Sframeli (cinque Premi Ubu), Saverio Laruina e Scena Verticale (cinque Premi Ubu) ecc. non vengano prodotti dai Teatri Nazionali o dai Tric. Come possono pretenderlo, se si ostinano a seguire le proprie idee, convinti che il loro lavoro abbia un valore di per sé? Basterebbe solo che avessero l’umiltà di accettare ciò che il produttore gli chiede di fare: veramente tengono più all’arte che al successo? Pagano tutto questo con gravi disagi economici ma, chi è causa del suo male, pianga se stesso. Forse credevano che il rispetto di cui godono preso i critici avrebbero permesso loro di entrare nel giro del teatro che conta (i soldi)?
Tutto quello che ti appassiona sarà usato contro di te
Il direttore di teatro sa che non deve temere nulla dai critici, e che può “tirarli” comunque dalla propria parte. Può far leva sulla loro insana passione per il teatro: non hanno quasi più spazio sui giornali, non gli vengono più rimborsati i viaggi e l’alloggio, molti non vengono nemmeno pagati per gli articoli che scrivono, se non è amore questo!
I grandi teatri mettono i critici, normalmente, davanti a due tipi di proposte: le produzioni mainstream con una spolverata di cultura e le produzioni in cui viene data la possibilità ad un regista proveniente dell’aria sperimentale di incontrare il grande pubblico.
Gli obblighi di un critico militante: parte prima
Nelle grosse produzioni “classiche”, stantie ma di richiamo, il critico vive questo angoscioso dilemma:
“Lo spettacolo non è granché, anzi è proprio bruttarello e scipito, però c’è molto pubblico e tutti sembrano gradire. I politici e gli assessori si lamentano sempre che i teatri sono vuoti, e, ora che c’è uno spettacolo che “tira”, proprio io mi metto a fare il guastafeste? Magari mi conviene smussare le mie perplessità. Magari uno spettacolo come questo, se ha un grande successo, permetterà che si crei uno “spazio di manovra” perché nella prossima stagione si produca uno spettacolo di un regista che “ri...