L'oppio del popolo
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L'oppio del popolo

  1. 168 pagine
  2. Italian
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L'oppio del popolo

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Quanti sono gli italiani che vivono di «cultura»? Sono – anzi siamo – milioni, ben piazzati nelle scuole di ogni ordine e grado, nei giornali, nell'editoria, nello spettacolo, nella televisione, nelle radio, nei blog, nei musei, nei festival, negli assessorati alla cultura, nel turismo, nella pubblicità… Siamo la più grande «fabbrica» del paese, pur se privi di qualsivoglia identità collettiva. Un gran giro di soldi, un gran giro di chiacchiere. Ma al di là del peso economico, non sarà che il sistema di cui facciamo parte – di cui siamo complici – si serve di questo eccesso di cultura anche per distrarci dal concreto agire collettivo, intontendoci di parole, immagini, suoni? Non è certo di questa cultura spettacolarizzata e manipolata che abbiamo bisogno, ma di una cultura critica che sappia guardare al mondo con lucidità e, soprattutto, con l'aspirazione a farsi corpo, azione. Una cultura, o meglio una pluralità di culture, che sappia disintossicarsi dai ricatti e dalle lusinghe del Potere per capire e, di conseguenza, per fare.

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Informazioni

Editore
Eleuthera
Anno
2020
ISBN
9788833020846
Categoria
Sociologia
capitolo secondo
Situazione della cultura







Le industrie che tirano… Qualche tempo addietro, aprendo uno dei più importanti quotidiani nazionali, sono sobbalzato: le sue pagine centrali esaltavano la costruzione di droni come una grande possibilità per l’economia italiana di tirarsi su. Il giorno prima a Kunduz un drone aveva ammazzato ventidue tra bambini e medici in un ospedale, diciamo pure di guerra, di Medici senza frontiere. Sì, l’industria bellica è sempre stata un modo di tirarsi fuori dalle crisi economiche – vedi gli usa al tempo di Roosevelt. Sì, l’industria bellica è in Italia una delle industrie che non sono in crisi, al contrario. Partendo da questa constatazione mi è venuto di ragionare, con amici che ne sanno più di me, su quali sono i settori dell’economia italiana che non vedono crisi. L’industria delle armi, ed è una. L’industria che lavora per l’infanzia, anche quella non vede crisi, e fanno due. Il ramo della ristorazione, al tempo di Expo, con tutti i suoi addentellati, e su questo ci sarebbe molto da ragionare, in termini antropologici e non solo economici, e sono tre. Si tratta tuttavia di cose economicamente chiare, comprensibili, perfino misurabili. A questi tre rami, la mia ignoranza di economia ma una certa abbondanza di pratiche mi fa aggiungere quello dell’intervento sociale (il vasto campo del welfare non di Stato, con le contraddizioni che ne vengono ai «buoni» dal dover sostituire appunto lo Stato) e, ultimo ma non ultimo, quello della cultura. Se consideriamo la produzione e la diffusione di cultura – di conoscenze, di opere, di spettacoli – come un tutto piuttosto coerente, come di fatto è, e aggiungiamo al numero degli addetti all’editoria, al cinema, al teatro, ai musei, alle mostre, ai festival, agli «assessorati alla cultura», anche «la comunicazione», la stampa, le radio, le televisioni, la pubblicità, parte del turismo, e se consideriamo cultura – è non può essere altrimenti – anche la scuola di ogni ordine e grado, e quella pubblica e quella privata, si arriva a centinaia di migliaia di persone, si sale a qualche milione di persone. Molti di noi fanno parte di questa massa, ma abbiamo coscienza della nostra funzione all’interno di un’economia in crisi? Della nostra forza potenziale e delle nostre enormi responsabilità? Ci rendiamo conto dell’altra funzione che questo sistema sociale ci chiede, non solo quella squisitamente economica ma quella di «distrarre» masse di persone affinché accettino il mondo così com’è? Nella nostra società, forse più che al tempo di Marx, anche se non lo si dice, l’economia è al centro di tutto. Perché gli economisti non parlano anche di noi??
Addetti alla cultura… Uno dei pochi settori economicamente vitali, nel mondo di oggi, in grado attrarre milioni di giovani non solo come occasione di consumo ma come occupazione professionale, è quello della cultura – un mondo vario e impressionantemente vasto, sulla cui ricchezza e funzione si riflette troppo poco, e se è così c’è un motivo. In Italia sono 413mila, secondo i dati ufficiali, coloro che figurano come addetti a Cultura e Spettacolo. In senso stretto e strettissimo. Editoria e festival e cinema e teatro e musica. Questi dati non considerano le persone coinvolte come precari e occasionali, e le attività derivate, e i dipendenti degli assessorati alla cultura, e le società e associazioni che non rientrano specificamente nel ramo – per esempio la pubblicità, o anche, come ci appare ovvio, ogni ordine di scuola pubblica e privata. E non considerano i funzionari statali regionali provinciali. Né i giornalisti! e le radio e televisioni! e le grandi agenzie del digitale, i «motori di ricerca», internet… eccetera. A occhio, mi dice un amico statistico, la suddetta cifra va almeno triplicata, anche se non esistono studi attendibili che ci dicano quanti sono di fatto a vivere di cultura, di produzione e trasmissione di cultura in tutte le sue forme. (Beninteso, c’è chi ne vive benissimo, e non sono tanti, c’è chi ne vive bene o benino, e sono tantissimi, e chi ne vive male o malissimo, tantissimi anche questi). Vale per l’Italia: quale altra industria, anche la più produttiva, riguarda così tanti dipendenti e un giro d’affari paragonabile a questo? E allargando lo sguardo, quanti vivono dei tanti rami della «cultura» in Europa, negli usa, in Giappone, nelle nazioni del pianeta «avanzate» o «arretrate» che siano?
Di questo nei festival e sui giornali non si parla mai, per le implicazioni che ne scaturirebbero. La più vistosa è certamente d’ordine economico: l’industria della cultura e dello spettacolo, della trasmissione di notizie e conoscenze e fantasie, della pubblicità di merci e di idee per il tramite di parole scritte e dette, di immagini e di suoni, è tutt’altro che in crisi e regge il confronto con i rami più «seri» e solidi dell’economia mondiale, anche se ci si ostina a non considerarla primaria e a non considerarla in blocco, come un settore molto più unitario di quanto non sembri.
L’economia ha bisogno dell’industria della cultura e della comunicazione, e di questo viviamo tutti noi che insegniamo scriviamo filmiamo recitiamo suoniamo redazioniamo stampiamo distribuiamo e via dicendo. Ma ne ha bisogno anche la politica, perché per governare servono sì gli strumenti tradizionali, quelli in uso nelle democrazie e quelli in uso nelle dittature, con le tante varianti intermedie, ma serve anche una cultura che consoli e distragga, che riempia e illuda, oltre a dar da vivere a un’infinità di persone. I libri e i giornali, gli spettacoli e le tv, le scuole e i festival… Perché non si parla mai di queste loro funzioni primarie, quella economica e quella ideologica, ugualmente indispensabili al sistema in cui e di cui viviamo?
Qualche cifra «La sensazione è che tutto sia diventato cultura» ha scritto un collaboratore di «Gli asini», amico di tante avventure, esperto di statistiche. Mi sembra utile riproporre i suoi dati, anche se tengono conto solo degli «addetti ai lavori» secondo le stime ufficiali e non della proliferazione di iniziative dette culturali di ogni tipo e genere:
«Il mito della valorizzazione del patrimonio culturale, in Italia, e la sua ‘torsione’ in termini produttivi ed economici sembra abbia fatto breccia. In tempi di magra (domanda calante, deflazione, ridimensionamento delle imprese, ristrutturazione del settore industriale e manifatturiero), si è cercato di raschiare il fondo del barile, alla ricerca spasmodica di spazi da mettere a valore e così ottenere un ritorno economico da tutti i patrimoni inerti di cui disponiamo.
«La crisi ha, fra le altre cose, fatto scoppiare la ‘bolla’ del lavoro intellettuale, che in Italia non trova spazio in un sistema di impresa che non sa che farsene di laureati e a cui il sistema pubblico – nel passato primo datore di lavoro di questa categoria – ha sbarrato le porte essendo costretto, per mala gestione, a blocchi di turn over e a riduzioni della spesa.
«Tuttavia, anche in tempi di crisi, il ‘mercato culturale’ ha retto, tant’è che secondo quanto riportano la Fondazione Symbola e Unioncamere, il Sistema Produttivo Culturale e Creativo oggi in Italia produce un valore aggiunto di circa 90 miliardi di euro e occupa qualcosa come 1 milione e 500mila persone. In sostanza, ogni 100 euro prodotti 6 sono riconducibili ad attività culturali e creative, e allo stesso modo ogni 100 persone occupate 6 sarebbero impegnate nella cultura.
«Se si allarga la filiera e si vanno ad aggiungere le ricadute del Sistema su altre attività economiche contigue (per esempio alcune aree del turismo e ristorazione, o enogastronomia come si dice oggi), il valore prodotto raggiungerebbe la soglia dei 240 miliardi di euro, poco meno di un quinto del pil totale (circa il 17%).
«Il mercato culturale ha retto anche perché la domanda di cultura ha sì subìto un calo negli anni recenti più critici, ma ha anche mostrato una forte elasticità nei momenti migliori di questo ciclo economico, che di momenti felici non ne ha regalati molti.
«Fra il 2014 e il 2015 si è assistito così a un piccolo rimbalzo delle spese delle famiglie per consumi (+0,4%); fra le diverse categorie, la spesa alimentare aumenta dell’1,4%, la spesa per ‘ricreazione, spettacoli e cultura’ (secondo la definizione dell’istat) aumenta invece del 4,1% e quella per servizi ricettivi e ristorazione (la filiera lunga di cui sopra) addirittura dell’11%. In sostanza, una famiglia spende in media al mese 2.500 euro, di cui 455 destinati ai consumi alimentari, 122 ad alberghi e ristoranti, 126 a spettacoli e cultura.
«Se si prende l’ultimo dato e lo si moltiplica banalmente per il numero delle famiglie (poco meno di 26 milioni), si arriva a un valore della domanda mensile di 3,3 miliardi di euro che, sull’anno, diventano quasi 40 miliardi di euro.
«Questa è solo una parte della torta da spartire; se si considera, in maniera molto grezza e approssimata, la spesa pubblica per cultura si aggiungono altri 20 miliardi di euro.
«Tornando al lavoro e all’occupazione che il settore mette in moto, si potrebbero includere, in una nostra definizione di ‘cultura’ intesa come settore economico-sociale, anche tutte quelle persone che sono impiegate nell’area dell’istruzione, pubblica e privata. Si aggiungerebbe così un altro milione e 500mila occupati, portando la somma a circa 3 milioni. Cinema, stampa e tv dovrebbero all’incirca raggiungere la soglia dei 100mila addetti; altri 100mila sono riconducibili all’industria della stampa, mentre se consideriamo anche i servizi legati all’informatica, a internet, al digitale, ai servizi e alla consulenza per l’informazione, dovremmo più o meno prendere in esame altri 400mila occupati. Il totale sarebbe quindi intorno ai 3 milioni e 600mila, circa il 16% degli occupati. Un aspetto non secondario è però dato dal fatto che in quest’ambito il lavoro irregolare copre una quota vicina al 23%, contro una media di tutte le attività economiche che si ‘ferma’ al 15%.
«Ma forse non basta. Il ‘contagio’ delle attività culturali oltre i confini tradizionali è anche spinto da un fenomeno tutto dentro il lavoro. Sotto i colpi della crisi, l’espansione del lavoro informale e del lavoro irregolare, la confusione fra lavoro e non-lavoro, la conseguente modifica sostanziale – la destrutturazione – del concetto di retribuzione, oggi molto più sfumata e meno riconducibile a prestazioni formali e contrattualizzate, hanno prodotto un’area grigia in cui proliferano posizioni lavorative temporanee ed estemporanee, fluide e difficilmente rappresentate dalle rilevazioni sull’occupazione.
«Un segnale indiretto proviene dall’ambito del non profit, che oggi conta 301mila istituzioni in cui operano ben 4,7 milioni di volontari. Il non profit vale circa il 3% del pil e occupa come dipendenti circa 680mila addetti dipendenti e 270mila lavoratori esterni. Se questi ultimi rientrano nell’occupazione esplicita, forse non tutta l’area del volontariato può essere strettamente riconducibile ad attività non retribuita. Fra il 2001 e il 2011, all’incremento del 43,5% nel numero delle istituzioni non profit presenti in Italia è corrisposto un aumento degli addetti del 39,1% e un parallelo aumento nell’utilizzo di lavoro esterno pari al 169%.
«La progressiva organizzazione e strutturazione delle istituzioni dà conto di una trasformazione strutturale che ha esteso il perimetro delle attività e ha allargato il campo d’azione del non profit, soprattutto se si pensa alla crescente azione di sostituzione e di surroga dell’intervento pubblico che ha svolto nel sociale, nel welfare, nella salute, nella tutela dei diritti.
«Per quanto riguarda la filiera culturale, questa offre lavoro a quasi 50mila addetti dipendenti, conta su 134mila lavoratori esterni e raccoglie circa 2,8 milioni di volontari. Poco più di 1 milione di volontari sono riconducibili ad attività sportive, circa 800mila ad attività artistiche e il restante milione (o poco meno) ad attività ricreative e di socializzazione.
«Paradossalmente, alla mercatizzazione di tante attività che prima consideravamo al di fuori della sfera economica e che oggi invece conteggiamo nella produzione di ricchezza, si è accompagnata una forte trasformazione del lavoro che ha però portato a una sua progressiva svalutazione e perdita di potere contrattuale e identità. Altrettanto paradossalmente, la filiera culturale, che tende inesorabilmente a sconfinare e che da molti viene indicata come il vero fattore di crescita futura per l’Italia, sembra invece lentamente adagiarsi a settore marginale o rifugio di tanta occupazione esposta a una progressiva dequalificazione».
Sopravvalutazione del lavoro culturale… Qualche anno fa, decidemmo di aprire – io con Alessandro Leogrande e Anna Branchi, che facevano la rivista insieme a me – un numero di «Lo straniero» con un vecchio articolo di August Strindberg, il più grande degli scrittori dell’Europa del Nord dell’ultimo Ottocento e del primo Novecento, intitolato Sopravvalutazione del lavoro culturale. La sua attualità è relativa, ma il testo è nondimeno significativo per un vecchio dilemma su cui insiste il nostro presente: il lavoro umano non è mai stato aggredito e svilito come oggi, nell’epoca che ha visto il trionfo dell’economia finanziaria, e per «lavoro» si intende quello antico e che si pensava eterno, il lavoro manuale attraverso il quale l’uomo si è confrontato con la natura – minerale, vegetale, animale – per dominarla e plasmarla. Ma mentre al tempo di Strindberg, e prima e dopo, i proletari hanno saputo individuare facilmente la natura della loro oppressione, ribellandosi a coloro che li sfruttavano e alla macchina che pretendeva di sostituire le loro braccia, oggi essi non sanno più né capire né reagire, supini ai voleri dell’economia, del potere, dei «padroni». In particolare ciò accade là dove, tra di noi, il dominio di un ristretto gruppo di persone sulla massa degli uomini non viene più esercitato con la violenza fisica e la pesantezza delle leggi, che continuano pur sempre a non essere «uguali per tutti», ma attraverso il condizionamento delle idee e degli ideali. E cioè attraverso il mercato e «la pubblicità», i mezzi di comunicazione di massa – televisione e giornalismo – e non solo la scuola o, come spesso è stato e spesso continua a essere, le chiese che predicano la rassegnazione.
Ciò che è cambiato nelle società a cui apparteniamo è l’adesione di quasi tutti allo stato delle cose vigente, l’assenza di ribellione e, perlopiù, della coscienza stessa del dominio. E certamente il grande inganno messo in atto dal potere è stato quello della «cultura».
Da un lato si sono fatti quasi scomparire il lavoro manuale, l’artigianato, la piccola proprietà contadina e il piccolo commercio, trasformando gli esseri umani da cittadini in consumatori di prodotti venuti da altrove, dalle multinazionali e dalle loro macchine, e lasciando al «locale» le briciole di un folklore alienato e alienante. Dall’altro si sono illusi i giovani, condannati a crescere in questa società, di essere liberi, di essere persone, perché invece del lavoro si offre loro la lusingante alternativa della «cultura»: l’illusione sorta dalla scolarità per tutti, di qualità scadente o pessima, di una «creativit...

Indice dei contenuti

  1. Altri titoli
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. Capitolo primo
  5. Capitolo secondo
  6. Capitolo terzo
  7. Capitolo quarto
  8. Capitolo quinto
  9. Capitolo sesto
  10. Capitolo settimo