Cap 1. Apprendere e comunicare: l’indagato indagante di Giacomo Panizza
Trattiamo d’inchiesta sociale
Nel bel mezzo di mille cose che si accavallavano, un giorno di questa primavera Goffredo mi prospettò di mettere in piedi il corso formativo sull’inchiesta sociale che oggi stiamo avviando. Lì per lì colsi una certa bontà della proposta, ma rimasi distante dal recepirla e inquadrarla con la serietà che meritava. Tuttavia in nemmeno tre mesi, a pochi giorni dall’estate, abbiamo messo su questa settimana di studio al mare in Calabria, pensato ai tempi dei compiti da svolgere a casa per voi giovani iscritti, programmato lo stage conclusivo per l’autunno prossimo.
Ho accettato volentieri di sostenere l’idea. La Comunità Progetto Sud2 con le riviste “Alogon” e “Lo Straniero”, e la casa editrice “L’Ancora del Mediterraneo”, si attendono molto da quest’iniziativa formativa. Altrettanto vi aspettate voi, giunti dalle regioni vicine del sud e del lontano nord Italia, così pure coloro che hanno accettato di contribuire da esperti ad accompagnare questo corso didattico/formativo che tratta d’inchiesta sociale, di indagini su temi sociali da esprimere poi attraverso articoli di stampa, programmi radiofonici o televisivi, film o documentari, romanzi o teatro, fotoreportage e altro ancora.
Io dirigo il trimestrale “Alogon”. Faccio parte di un gruppo di gruppi, di una comunità di persone che di solito vengono inchiestate, e sulle quali operatori dei vari mass media, e anche esperti di tematiche sociali o educative, non ultimo professori e studenti universitari, indagano per stendere i loro articoli o tesi di laurea, per mettere a punto teorie accademiche o eventualmente verificare certe loro attività in corso.
In generale, solo i politici e gli amministratori se ne fregano di conoscere meglio le situazioni di vita di persone con handicap, tossicodipendenti, malate di aids, donne in difficoltà, minori in condizioni di abbandono o gente fuori di testa, lo stato dell’arte dei servizi o delle professioni sociali o del volontariato organizzato. Si fanno sentire solo quando qualche inchiesta svela le loro disattenzioni o omissioni di controllo o di atti di ufficio, o qualcos’altro di peggio.
C’è inchiesta e inchiesta
All’interno del mio “giro” ordinariamente ci sono persone provenienti dal carcere o da situazioni di disagio, in passato messe sott’inchiesta, nel senso di indagate dalle questure; oppure che risultano tuttora sotto l’occhio vigile delle varie forze dell’ordine. È una forma d’inchiesta, quest’altra, che attraversa molti dei vissuti degli “esclusi”, di quei mondi che come Comunità Progetto Sud partecipiamo dal di dentro, nei quali siamo volontariamente immersi e contagiati e un po’ complici. Il termine “inchiesta” pertanto non ci è indifferente, non lo sentiamo neutrale, a priori non vediamo sempre a chi porterà vantaggio e a chi svantaggio. Ci tocca, ci predispone o indispone, ogni qualvolta non solo gli sbirri, ma anche giornalisti o operatori radio o TV come voi, ci avvicinano per rivolgerci domande alle quali abbiamo ben chiaro in partenza di non dover/voler garantire sempre e comunque risposte veritiere. Talvolta sospettiamo interrogatori impropri, scattano in noi meccanismi di difesa per non rischiare di svelare cose che potrebbero rendere più vulnerabili persone già deboli e minate da sistemi di controllo sui “diversi” e che possano consegnarli a ignoti guardoni e guardiani.
Sarebbe come pretendere che qualcuno, messo in condizioni ricattabili, come ad esempio un extracomunitario rinchiuso e interrogato in un Cpt, risponda con verità a tutte le domande che gli si rivolgono, comprese quelle che lo farebbero rispedire nel paese da cui è scappato. Infatti, chi tra noi è stato in carcere si porta dietro il terrore di ritornare in cella; chi è stato nei moderni manicomi è incappato in forze dell’ordine che hanno eseguito su di lui almeno un ricovero coatto; chi ha consumato droghe ha frequentato luoghi proibiti dalla legge; persino chi presenta disabilità che gli procurano handicap innocui – come la sindrome Down, la distrofia muscolare o altro – ha trascorso un periodo, non del tutto concluso in Italia, da utente delle prefetture, inquadrato come pericolo pubblico dall’ordine costituito. È comprensibile che per un verso ci preoccupiamo di evitare di infamare qualcuno.
Con tutto ciò, d’altra parte, siamo persuasi che occorre promuovere inchieste sociali, che non bisogna solo riportare in salse diverse le cose che tutti sanno, ma fare indagini e svelare cose nuove. L’inchiesta sociale è una strada da battere per portare alla luce miniere di umanità e di socialità, belle o brutte che siano, e renderle con maggior obiettività. Infatti sta qui il perché un gruppo minoritario, di sgangherati che editano la rivista “Alogon”, insieme a “Lo Straniero” e “L’Ancora del Mediterraneo”, promuovono inchiesta sociale.
In una prospettiva etica
Perché entriamo in questi giochi? Perché un raggruppamento di persone con disabilità, tossicodipendenti, malate di aids, ragazzette già madri e senza marito, gente fuori di testa, e altri che fanno volontariato, operatori, educatori, leader di imprese sociali, fanno inchiesta sociale?
Perché curiosare nei luoghi pericolosi dello spaccio di droga; perché addentrarsi in relazioni con etnie e religioni e visioni politiche differenti; perché intervenire in dibattiti scandalosi quali i fattacci noti dell’istituto-ghetto che si trova poco distante da qui nel comune di Serra d’Aiello? Perché mettere il becco nei clan mafiosi di Lamezia Terme e oltre; e perché indagare come alcuni giovani personalmente disturbati dalla sofferenza mentale che li fa ammattire passano la giornata sul posto di lavoro?
La risposta è: perché fare inchieste sociali ci è servito, di fatto, per conoscere e poter cambiare, per denunciare, organizzarsi e battagliare. Perché siamo accomunati da ideali valoriali di giustizia e di uguaglianza, dal gusto di lottare contro l’emarginazione dei deboli.
Perché apparteniamo a mondi vitali privi e privati di parola ma nondimeno anche noi vogliamo conoscere di più e meglio, per sapere, ma non solo per sapere: piuttosto anche per cambiare le situazioni di disagio di tanti di noi e di tanti altri, per vedere come uscire da dipendenze disumane e disumanizzanti. Per provare a stare meglio nel nostro vestito di disoccupati, di “strani”, di incasinati. Per non sentirci diversi e inferiori in ossequio ad una mentalità corrente bacchettona, che lascia fragili le persone e le categorie sociali fragili e tutela i già tutelati; viceversa vogliamo sì sentirci ed essere differenti, ma alla pari nella dignità umana con t...