1. Globo
Come la vita si adatta alla Terra
Trascorriamo la maggior parte della nostra vita sulla superficie della Terra, a contatto con il suolo e respirando nell’atmosfera: camminiamo, corriamo, ci sediamo e dormiamo sul terreno; inspiriamo ed espiriamo una miscela di gas dal primo fino all’ultimo respiro. Tutti i nostri compagni di avventura, dalla più imponente delle balene al più microscopico dei virus, esistono nella pelle della biosfera terrestre, spessa 20 chilometri. Più su, nell’alta atmosfera, persino l’organismo più resiliente si disseccherebbe e verrebbe carbonizzato dal Sole, mentre al di sotto della biosfera, nelle profondità della crosta, la vita è annientata dal calore che si irradia dal mantello sottostante.
A sostenere l’attività biologica su questo pianeta concorrono molteplici peculiarità fisiche. La Terra descrive un’orbita fortunata, a una distanza dal Sole tale da consentire la presenza di acqua allo stato liquido: non tanto vicina da farla bollire e non tanto lontana da farla congelare. Il Sole è una stella di medie dimensioni e di mezza età, classificata dai cosmologi come nana gialla. Le nane gialle sono reattori nucleari che fondono gli atomi di idrogeno in atomi di elio, liberando immani quantità di energia. La nostra stella ha 4,6 miliardi di anni e continuerà a bruciare per altri 5 miliardi di anni prima di esaurire il combustibile di idrogeno ed espandersi in una stella di tipo più debole, detta gigante rossa. Ben prima di allora, fra circa un miliardo di anni, il Sole in corso di invecchiamento diventerà più luminoso e la sua terribile incandescenza sterilizzerà la biosfera per sempre.
Che gran fortuna abbiamo avuto, quindi, a nascere proprio ora che il Sole risplende al punto giusto. Inoltre, essendo vecchia quasi quanto l’Universo, la nostra galassia, la Via Lattea, contiene le sostanze chimiche necessarie per la vita. Gli atomi di carbonio che compongono gli scheletri delle nostre proteine, così come quelli delle altre molecole organiche, non avrebbero potuto formarsi se le prime stelle create dopo il Big Bang a un certo punto non fossero detonate, generando supernovae. Dopo 3 miliardi di anni di storia universale, questi spettacoli pirotecnici cominciarono a riciclare le polveri stellari, dando origine alla successiva generazione di stelle contenenti elementi più pesanti. La ragione per cui oggi sono disponibili grandi quantità di carbonio e di altri «metalli» è che la galassia ha attraversato molteplici cicli di collasso ed esplosione stellare che l’hanno inondata di questi elementi.
Se il Sole non si comportasse come si comporta, e se la galassia non fosse così antica, e non avesse quindi avuto il tempo di formare gli ingredienti chimici necessari a costruire gli esseri viventi, noi non saremmo qui. Alcuni scienziati, approfondendo le dinamiche di natura fisico-chimica, ritengono che l’Universo sia perfettamente calibrato per sostenere la vita. La forza di gravità è un esempio delle fortunate caratteristiche universali favorevoli ai viventi. Se la gravità fosse leggermente inferiore, la materia non si sarebbe mai potuta comprimere per formare le stelle; al contrario, se la forza gravitazionale fosse più intensa, l’Universo non si sarebbe mai potuto espandere e la festa si sarebbe presto conclusa in un Big Crunch subito dopo il Big Bang.
Queste riflessioni sulle sorti del mondo fisico appaiono meno incisive nel momento in cui ci rendiamo conto che dipendono da un ragionamento circolare. Piuttosto che pensare all’Universo come organizzato a nostro vantaggio, ha molto più senso considerare in che modo la biologia si sia adeguata alle circostanze disponibili. Ogni caratteristica di qualunque animale, pianta o microbo è magnificamente adatta a consentirne la vita su questo pianeta e, a riprova di questa interpretazione, da oltre 150 anni, cioè da quando Charles Darwin chiarì il meccanismo della selezione naturale, sappiamo esattamente come ciò sia avvenuto. L’evoluzione, per avere un senso, non richiede nessun ragionamento circolare.
Il meccanismo dell’evoluzione è talmente pervasivo che potrebbe far saltar fuori qualche forma di vita in qualunque pianeta favorevole. Il principio antropico, correlato all’argomento di un mondo perfettamente calibrato per accoglierci, suggerisce che l’Universo debba essere compatibile con qualche forma di coscienza e che non possa esistere senza qualcuno in grado di osservarlo. Si tratta di un altro ragionamento circolare, impossibile tanto da confutare, quanto da prendere seriamente. Tra gli animali come noi, la coscienza è un prodotto dell’evoluzione. Potremmo considerarla una fortuna, ma non serve una grande immaginazione per vederla, piuttosto, come una sciagura diffusa. D’altronde, sapendo che qualcosa di spiacevole sta per accadere nella segreta, un prigioniero non preferirebbe essere graziato con l’ignoranza? Per non guardare in bocca alla vita e ad altri cavalli donati, è utile ricordare che nessuno ha mai chiesto di nascere. Qualche filosofo moderno, in effetti, sostiene che la peggior cosa che una persona possa fare è diventare un genitore biologico. Il problema qui, ed è un grosso problema, riguarda il modo in cui la nascita di sempre più creature capaci di soffrire contribuisca ad accrescere l’orrore collettivo nell’Universo. Tale preoccupazione psichica si sovrappone alla questione più pratica del danno ambientale causato da miliardi di vite umane.
Tralasciando le discutibili virtù della genitorialità, il concetto di un Universo fatto apposta per noi rivela la strabiliante arroganza della nostra specie. Con o senza gli esseri umani, la Terra continuerà a ruotare intorno al proprio asse alla velocità di 1600 km/h e a girare intorno al Sole a 108 000 km/h, mentre l’intero Sistema solare proseguirà nella propria orbita intorno al centro della Via Lattea. Tutti questi moti orbitali ebbero origine all’interno di nubi di polveri e gas interstellari in cui avevano iniziato a presentarsi, qua e là, delle concentrazioni di massa. Man mano che nuovo materiale vorticava verso quegli aggregati sotto la spinta della gravità, le isole di densità crescevano, generando nuove stelle. Ogni stella si accompagna a pianeti circolanti e ciascun pianeta ruota intorno al proprio asse. I pianeti sono i resti del disco di gas denso dal quale nacque il loro Sole; continuano a orbitare, ciascuno intorno alla propria stella, e intere galassie roteano ad alta velocità, non essendovi nulla nello spazio a opporsi al loro moto.
E così eccoci qui, a camminare, correre, sederci e dormire sul terzo pianeta in ordine di distanza dalla nostra stella, collocata nel Braccio di Orione della Via Lattea, nel mezzo dell’Universo osservabile. Non vi è nulla di speciale nella nostra apparente posizione. Il fatto è che possiamo spingere lo sguardo in ogni direzione solo fino a un certo punto, a occhio nudo come pure con un radiotelescopio, e qualunque terrestre avrà sempre la sensazione di trovarsi nel centro preciso di una sfera. Immaginate di essere su un kayak in mezzo al mare, troppo lontano da terra per scorgere la linea di costa. Potreste pagaiare a lungo là fuori, continuando però ad avere la sensazione di stare in mezzo a un grosso cerchio. Il cerchio del mare e la sfera dell’Universo si muovono insieme all’osservatore, ma è pur sempre possibile che la Via Lattea si trovi vicino a un’estremità di un Universo a forma di uovo. Non abbiamo modo di saperlo.
Se contemplassimo più spesso la nostra collocazione cosmica, mi chiedo, potremmo essere colti da agorafobia? Oppure, forse, la claustrofobia potrebbe essere una causa più naturale per un attacco di panico su larga scala, esteso a tutta la nostra specie? Quando Stephen Hawking raccomandò che mettessimo a punto con una certa urgenza un piano di fuga interstellare, sembrava in preda alla claustrofobia. Purtroppo, egli non suggerì come avremmo potuto spingerci lungo distanze spaziali di migliaia di miliardi di chilometri senza essere polverizzati dalle radiazioni delle supernovae. Se davvero l’Universo ci avesse a cuore, dovrebbe avere meno raggi cosmici nelle vene, e anche qualche ristorante per astronauti interstellari non sarebbe una cattiva idea. Per come stanno le cose, sembra quasi che in fondo non siamo noi i beneficiari previsti di tutta quest’opera creativa da parte della gravità.
Finché la scienza non iniziò a destituire la cosmologia classica di Aristotele, credevamo che le stelle fossero dipinte su una sfera di cristallo, schiarite dai raggi solari durante il giorno e visibili come luci minori dopo il tramonto del Sole sotto l’orizzonte. Potevamo supporre che quella volta decorativa fosse abbastanza vicina a noi, appena oltre le nuvole. Amleto considerava il «firmamento sospeso, questo maestoso soffitto» come «un immondo e pestilenziale aggregato di vapori» (Atto ii, scena 2), mentre Milton gioiva della galassia «che appare nella notte, tonda fascia / di polvere stellare» (Paradiso perduto, Libro vii, vv. 580-581). Il lento transito di una lucente cometa, che con la sua coda di fuoco solcava il tetto sopra la Terra stazionaria, era motivo di perplessità. Vi erano certamente molte cose che accadevano lassù. Alcune stelle si mostravano nella stessa posizione relativa, laddove altre apparivano ogni notte in posti diversi: Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno – quelli che Milton chiamava i «cinque altri fuochi che in mistica danza / ve ne andate vagando» (Paradiso perduto, Libro v, vv. 177-178). Tutto sembrava predisposto per noi e forze che non potevamo sperare di comprendere animavano il meccanismo a orologeria di questo cielo; eravamo, allo stesso tempo, soggiogati dagli dèi e rafforzati dal loro interesse per tutto ciò che facevamo.
L’umanità iniziò ad attraversare «il vasto golfo del monacale e illuso passato» per approdare, nel xvii secolo, nell’era moderna dell’esplorazione obiettiva della natura. La cosmologia divenne materia di intensa ricerca scientifica, sulla scorta del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo, pubblicato nel 1632, e dei Principia di Isaac Newton del 1687. Galileo fu fervente sostenitore del fatto che fosse la Terra a girare intorno al Sole, e non il contrario, e Newton dedusse le leggi del moto e della gravità che mantenevano i pianeti in orbita. Oggi, a quattro secoli di distanza, abbiamo raggiunto una solida conoscenza della fisica dell’Universo in seguito al Big Bang. Il funzionamento della materia nell’istante che segnò l’inizio del tempo, detto tempo di Planck, sfida la nostra comprensione, ma sicuramente abbiamo già fatto molti progressi, abbastanza – io credo –, da permettere alla maggior parte di noi di dare un senso alla vita senza doverci preoccupare dei dettagli circa la nascita dell’Universo. L’Universo è qui ed è dove tutti noi viviamo.
Abbiamo stabilito che la Terra è un buon posto in cui vivere – o perlomeno lo sarebbe, senza tutti gli errori commessi dagli esseri umani. Al di sopra della crosta terrestre, le condizioni ambientali sono parecchio variabili. Il 71 per cento della superficie è sommerso da acqua salata e il resto dei beni immobili è per la maggior parte costituito da terre emerse inverdite da foreste e praterie, oppure imbrunite e ingiallite da deserti. Nei climi polari, così come alle temperature prossime ai 50 gradi Celsius dei deserti caldi, non possiamo prosperare. Grazie a una continua idratazione, le persone in buona forma fisica possono continuare a recarsi nella Death Valley, in California, per un’escursione giornaliera, ma un ambiente simile mette a dura prova i limiti della resilienza umana. Un altro pericolo è rappresentato dalle radiazioni ultraviolette del Sole, per proteggerci dalle quali possiamo contare solo su una fettina di ozono, spessa 3 millimetri, nella stratosfera. Senza questo gas benigno, il dna della nostra pelle verrebbe irreparabilmente danneggiato, a meno che non ci rifugiamo nelle caverne. La presenza dell’ozono potrebbe essere considerata un ulteriore esempio della perfetta progettazione di questo mondo, il migliore tra tutti i mondi possibili. Pie illusioni a parte, la verità scientifica è che lo strato di ozono c’era già e noi ci siamo evoluti sotto di esso, diventando tolleranti nei confronti delle radiazioni in entrata tanto quanto era necessario – almeno prima che indebolissimo questo scudo con le sostanze refrigeranti – e non un briciolo di più.
La vita biologica ha luogo nei biomi, categorie formate da determinate associazioni di flora e fauna selvatica. Gli ecologi riconoscono oltre una dozzina di biomi, tra cui le foreste tropicali di latifoglie, le praterie temperate e le paludi di mangrovie. Una frazione considerevole della vegetazione naturale terrestre è stata soppiantata dalla cerealicoltura, che tende a funzionare al meglio proprio nei luoghi che un tempo sostenevano un’abbondanza di vita selvatica. Nelle oasi naturali, inoltre, sono fiorite grandi città, sebbene siano molti gli esseri umani che vivono nei deserti caldi, riforniti di acqua dolce mediante i sistemi di irrigazione e desalinizzazione.
Il nostro benessere dipende dall’accesso ad acqua e aria pulite, o almeno quasi pulite, e a una varietà di frutta e verdura. Il consumo di carne animale è stato un aspetto costante della storia umana, ma, se questa non è disponibile, o anche per ragioni etiche, economiche e ambientali, possiamo adottare una dieta vegetariana. A prescindere dalla carne, senza la botanica, invece, non saremmo nulla. Le piante sono così straordinariamente importanti per la vita umana che il loro studio meriterebbe lo stesso riguardo che nelle moderne università viene dedicato all’economia e alla finanza. Il fondamento intellettuale di una laurea in economia è impalpabile. «Sapere è potere» è inciso sul portale in pietra che conduce alla Scuola di Economia della mia università. La frase è attribuita al filosofo politico Thomas Hobbes e apparve per la prima volta nell’edizione latina del Leviatano del 1668 come scientia potentia est. In quell’opera grandiosa, Hobbes suggeriva che l’importanza della scienza, o conoscenza oggettiva, risiede nelle sue applicazioni pratiche. Se potesse sapere che il suo aforisma è stato associato alle misere aspirazioni degli investitori bancari, riderebbe sotto i baffi.
A ogni modo, i cittadini colti del xxi secolo dovrebbero avere qualche nozione dei fondamenti botanici della nostra esistenza. Chiunque dovrebbe sapersi cimentare in qualche spiegazione sulla provenienza del cibo, e la risposta corretta dovrebbe andare oltre «il negozio di alimentari» o «il supermercato». Il processo inizia con l’entropia e si conclude con lo zucchero. Il termine entropia indica il processo fisico che genera disordine in tutte le cose. Si applica tanto a una libreria con i libri ben sistemati sugli scaffali che, dopo un terremoto, si trasforma in un cumulo di macerie, quanto al futuro spargimento delle mie ceneri nella bassa prateria del Colorado orientale. Su scala più vasta, la quantità di disordine, o entropia, ha continuato ad aumentare nell’Universo, dal Big Bang in poi. Se è vero che l’entropia aumenta con il passare del tempo, potrebbe chiedersi qualche seguace della creazione divina, come facciamo a spiegare l’esistenza di una cosa tanto complessa come uno scoiattolo? La risposta risiede nel più vasto livello di caos che si riscontra nell’Universo. Uno scoiattolo è un’isola d’ordine la cui vitalità è bilanciata dal disordine crescente nel Sole: il roditore e la stella sono collegati dalla fotosintesi.
I fotoni che fluiscono dal Sole sono i frutti del suo declino. Questi pacchetti di energia ci raggiungono in otto minuti e diciannove secondi, Giove in quarantatré minuti e quindici secondi e la successiva stella più vicina, Proxima Centauri, in poco meno di quattro anni e tre mesi. Circa un terzo...