Il Carmelo ... la mia casa
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Il Carmelo ... la mia casa

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Il Carmelo ... la mia casa

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Informazioni sul libro

Non si tratta qui di riconoscere la rilevanza di Anastasio Ballestrero per i "ruoli" ricoperti nel corso dei decenni, ma di non dimenticare il valore imprescindibile della sua testimonianza, in particolare in casa carmelitana. Gli esercizi spirituali e gli incontri tenuti ai Carmelitani in varie parti d'Italia sono un banco di prova che il Carmelo fu la sua casa e che conosceva molto bene la porta d'ingresso di questa casa: la Regola. L'equilibrio tra contemplazione e apostolato che vi trovò espresso e che egli incarnò costantemente, è ciò che chiedeva al Carmelitano del suo tempo, e questo libro oggi insieme a lui ai suoi discepoli.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788872298459

LA REGOLA DEL CARMELO (1992)1

1. «Vivere in ossequio di Gesù Cristo»

Il nostro legislatore apre il discorso della Regola rifacendosi a una visione della vita cristiana nella sua più essenziale esigenza: «vivere in ossequio di Gesù Cristo».
È la prima espressione spirituale della Regola e il legislatore la fa, non tanto rifacendosi al testo biblico che la suggerisce, quanto rifacendosi alla tradizione della Chiesa che indica al cristiano un ideale pieno di vita: questo vivere in ossequio di Gesù Cristo. «E siccome tutti i cristiani devono vivere in ossequio di Gesù Cristo, voi che mi avete chiesto una legge di vita, dovete essere i primi ad essere fedeli a questa esigenza…».

«Vivere in ossequio di Gesù Cristo»: che cosa vuol dire?

Ed è proprio di qui che io vorrei cominciare le nostre osservazioni: «vivere in ossequio di Gesù Cristo», che cosa vuol dire?
Leggendo anche i commentatori antichi della Regola questo «vivere in ossequio di Gesù Cristo» vuol dire mettere Cristo al centro, al vertice di tutta l’esperienza della vita, di tutti i suoi ideali, di tutte le sue aspirazioni e, anche, attendere da Cristo tutte quelle soccorrevoli benedizioni della grazia di cui ha bisogno l’uomo per essere un salvato, per essere – in una parola – un cristiano.
Ecco: direi che vivere in ossequio di Gesù Cristo vuol dire, prima di tutto, essere dei cristiani. È un po’ poco per una vita religiosa. Sembra poco. In realtà è la presentazione più autentica della stessa, come la vita religiosa è nata dalla Chiesa. L’esigenza di fare sul serio nel seguire Cristo, l’esigenza di essere coerenti fino in fondo nel credere in Cristo, nell’ascoltarne la voce, nell’accettarne l’amicizia e nel seguirne gli esempi. Ed è proprio tutto questo insieme di atteggiamenti che la Regola chiama «ossequio di Gesù Cristo».
La dimensione religiosa dell’ossequio è evidente. Ma non soltanto la dimensione religiosa, ma anche la dimensione morale e spirituale che trovano nel mistero di Gesù la loro giustificazione e la loro realizzazione piena.

Credere

Vivere in ossequio di Gesù Cristo vuol dunque dire, prima di tutto, credere in Gesù; credere in Gesù, Figlio di Dio. «Io vivo nella fede del Figlio di Dio», diceva l’apostolo Paolo e questo «vivere in fide Filii Dei» è davvero un originale essenziale della vita cristiana che non si esaurisce mai; perché proprio a livello della fede, la conoscenza di Cristo è inesauribile e, proprio a livello della fede, il rispetto e l’ossequio e la venerazione di Cristo diventano (diremmo così) l’esigenza di fedeltà, diventano motivo di amore e norma suprema di vita. Credere in Gesù Cristo. E credere in Gesù Cristo Figlio di Dio.
Noi sappiamo che Gesù, all’apostolo Pietro che gli aveva detto «Tu sei il Cristo, Figlio del Dio vivo», aveva risposto: «Beato te, perché questo non te l’ha rivelato nessuno, ma soltanto il Padre mio»… L’origine della fede in Gesù Figlio di Dio è nella gratuità del dono del Padre, ed è proprio per questo che la fede nasce di lì e solo di lì può essere continuamente nutrita, continuamente ampliata nella sua profondità d’intuizione e di conoscenza.
Io vedo in questa fede nel Figlio di Dio anche il principio radicale di quella contemplazione di cui nella vocazione carmelitana si parla tanto. In fondo la gratuità della fede, unita insieme alla trascendenza della fede, unita insieme all’intuizione misteriosa della fede ci fanno, a poco a poco, possedere quello che è ineffabile, quello che è inesprimibile e ci fanno penetrare nel mistero di Dio sempre progressivamente, nutrendo in maniera inesauribile la vita.

Accettare la presenza di Cristo

Ma non è soltanto vivere nella fede del Figlio di Dio l’ossequio a Cristo. È anche accettarne la presenza nella nostra vita secondo le intuizioni che la fede ci rivela.
Gesù è il Figlio di Dio mandato dal Padre a rivelare agli uomini il mistero dell’eterna e infinita carità. E Gesù è venuto con questa missione fedelmente compiuta, instancabilmente portata avanti non soltanto nel momento della sua esperienza terrena, ma nella storia della salvezza che è sempre rivelazione dell’amore gratuito di Dio e realizzazione di quella riconciliazione redentiva per la quale siamo salvi e per la quale siamo anche figli.
Anche questo comporta il «vivere in ossequio di Gesù»: accettare, da parte nostra, che nella nostra vita Cristo sia presente secondo il progetto di Dio. È il Figlio di Dio Incarnato, ma lo è per essere nella nostra vita un sacramento inesauribile di amore e di amore gratuito e misericordioso. Non a caso Gesù, dopo aver scelto i primi discepoli (dice il Vangelo), li volle «amici»: «voi siete miei amici». Li convocò all’esperienza di un’amicizia di vita che si sarebbe realizzata in Lui, nella consuetudine quotidiana dell’esistenza, nell’intimità fraterna delle effusioni spirituali, nelle rivelazioni della fede e nella convocazione progressiva alla stessa missione redentiva. Così Gesù ha manifestato l’amicizia. Perché siete miei amici vi rivelo i segreti del Padre. Perché siete miei amici vi metto a parte dei progetti che il Signore, Padre mio, ha. E mentre si rivela Figlio, e mentre si proclama inesauribilmente Figlio, con una fedeltà instancabile, con una tenacia coraggiosa…; mentre vuole che gli uomini credano che Lui è il Figlio mandato dal Padre, allo stesso modo vuole che gli uomini gli appartengano per il vincolo della carità, perché con questo vincolo li salva, con questo vincolo li fa vivere una vita nuova e li rende partecipi della sua stessa vita personale… «Figli nel Figlio»: ecco!

Amici e discepoli

Dopo aver creduto nel Figlio di Dio, l’ossequio a Cristo domanda di essere docili a questa sua assunzione nostra nella sua divina figliolanza… Diventare figli, diventare figli nella coerenza dell’amore, diventare figli nella fecondità della carità, diventare figli nella contemplazione, sempre più profonda e più possessiva, dei misteri del Signore.
Credere in Cristo, essere amici di Cristo ed essere discepoli di Cristo. Possiamo notare nel Vangelo, con alcuni esegeti, che Gesù, prima di proclamare i suoi apostoli e discepoli, li proclamò amici. Li chiamò, li scelse, li fece amici, fece loro sperimentare l’amicizia successiva e, dopo averli legati a sé con i vincoli dell’amicizia divina, li costituì apostoli; allora solo!
Diventare discepoli del Signore attraverso la fecondità dell’amicizia, anche questo è vivere in ossequio di Gesù Cristo, anche questo è riconoscere dove Cristo è, riconoscere ciò che Cristo è venuto a fare, mandato dal Padre, è riconoscere l’efficacia e la fecondità della sua missione fedelmente compiuta in obbedienza al Padre e per amore degli uomini.
«Vivere in ossequio di Gesù Cristo»: la fede, l’amicizia, il discepolato, tre atteggiamenti che ci fanno cristiani.

Un cammino di vita

Ma c’è, nell’essere cristiani, una progressione, un incremento, vorremmo dire una possibilità indefinita di crescita; perché non si diventa “di colpo” pienamente figli, pienamente fratelli, pienamente discepoli, ma c’è tutto un cammino di vita da percorrere, nel quale il mistero di Cristo ha bisogno di essere assimilato dalla fedeltà personale, dalla perseveranza e dalla pazienza quotidiana e, soprattutto, dall’obbedienza della fede e dalla docilità alla grazia.
Tutto questo il cristiano lo deve fare e il religioso è chiamato a farlo in pienezza.
È un cristiano pienamente realizzato il religioso, secondo questa apertura della nostra Regola…
E a me pare che queste idee abbiano ancora tutta una loro validità e una loro efficacia e che abbiano bisogno di essere ancora vissute con una fedeltà umile, con un’obbedienza docile, con una generosità coraggiosa. Dobbiamo, in altre parole, vivere «in ossequio di Gesù Cristo».
Questa assimilazione della vita all’ossequio a Cristo è tutta una visione trascendente della vita, ma di una trascendenza che è rivelata, donata per diventare poi, nella storia concreta dell’uomo, una realizzazione che documenta come le meraviglie di Dio, Egli le riveli non soltanto per lasciarle vedere, ma le riveli per donarle, per renderle nel cuore dell’uomo e nella vita dell’uomo, fermento di vita nuova. In fondo vivere in ossequio di Gesù Cristo vuol dire a poco a poco raggiungere quella identificazione con Lui che permette a Paolo di dire: «Vivo, ma non sono io che vivo; è Cristo che vive in me».

Spiritualità cristocentrica

Questa esigenza di identificazione con Cristo ci pone un altro problema. Oggi è un po’ di moda caratterizzare le spiritualità, sottolineando quali siano le preferenze nei confronti dei misteri di Dio. Si parla di una spiritualità trinitaria, si parla di una spiritualità cristocentrica, si parla di una spiritualità ecclesiocentrica, si parla di una spiritualità antropocentrica… e chi più ne ha, più ne metta!
Io penso che queste “mode” sono abbastanza effimere (tutto sommato) perché la verità è che quando una spiritualità è autentica è, nell’insieme, un accoglimento dei santi misteri nella loro pienezza e nella loro progressiva contemplazione identificante… Comunque se noi vogliamo, per un momento, cedere a questa convenzione oggi di moda, dobbiamo dire che la spiritualità della nostra Regola, proprio per la sua apertura così radicale al mistero di Cristo recepito e vissuto, andrebbe definita una spiritualità cristocentrica.
In fondo, se noi vogliamo ricordarci per un momento le esperienze spirituali di Teresa di Gesù e di Giovanni della Croce, ci troviamo per questa strada. Due creature innamorate di Cristo in una maniera sorprendente, originalissima (l’una come l’altra), ma ambedue però tutte quante – vorrei dire – “rapite” nel mistero personale di Gesù.
Secondo me però ciò che oggi per noi Carmelitani, per fedeltà a questa apertura cristocentrica della Regola, diventa più importate è, a me sembra, quello di recepire con una fedeltà molto più coerente l’importanza della Persona di Gesù, Verbo Incarnato.
Il realismo di questa Persona, il realismo storico della stessa, il realismo “metastorico” (come dicono oggi) della stessa, il realismo spirituale della stessa… Cristo è con noi. Cristo è davvero la sorgente della vita. Cristo è davvero la rivelazione dei segreti di Dio. Cristo è davvero il donatore nella vita dell’uomo della misteriosa ricchezza di Dio Trinità.
È vero. E allora l’appassionata fedeltà alla Persona viva e vera di Gesù Cristo dovrebbe diventare una di quelle esperienze interiori che caratterizzano la nostra vita spirituale, facendo uscire la Persona di Gesù da una specie di “glorificazione” che la rende lontana, da una specie di “assolutizzazione” che la rende quasi irraggiungibile dalla nostra realtà personale, dalla nostra personale storia, dalle nostre personali vicende… Dobbiamo essere più legati alla Persona di Gesù.
La Persona di Cristo! Non a caso nella storia della fede i dogmi cristologici hanno trovato tanto tempo lungo i secoli motivo di riflessione, motivo di approfondimento, motivo (anche) di sbandamenti dottrinali e di oscuramento della fede. Oggi però non è detto che intorno alla Persona di Gesù, Verbo Incarnato, non serpeggino delle idee, degli stati d’animo degli orientamenti “sospensivi” di pensiero, “riduttivi” di visione… Ogni tanto si sente parlare di rievocazioni di Arianesimo, di Nestorianesimo, di Eutichianesimo, …e avanti di seguito.
Io credo che la verità sia che abbiamo bisogno di difendere da riduzioni eccessivamente culturali e puramente teoriche la nostra fede, ardente, viva, palpitante, concreta, in una Persona che si chiama Gesù e che è vero Dio, Figlio del Padre da sempre e Figlio dell’uomo da quando nell’Incarnazione è diventato nostro fratello e nostro Redentore.

La nostra fraternità

Ma c’è anche un’altra riflessione da fare. A me sembra che questa prorompente presenza del Signore Gesù, che è il tessuto della nostra Regola e – quindi – della nostra ispirazione di vita, sia anche il fondamento di un altro fatto a cui dobbiamo dedicare un po’ di attenzione; e che è il fatto della nostra fraternità.
Oggigiorno, anche nella letteratura un po’ più moderna intorno alla spiritualità dell’Ordine, l’idea della fraternità è un’idea che è affiorata in maniera prepotente e ha fatto anche tanto cammino… A mio modo di vedere però non è tanto da preoccuparsi del fatto che il senso della fraternità sia cresciuto almeno dottrinalmente nella visione del Carmelo. La preoccupazione deve essere un’altra. E la preoccupazione è di sapere se questa fraternità accresciuta sia di tipo antropologico o sia di tipo cristologico.
La fraternità derivante dalla sociologia, dall’antropologia non è la fraternità che caratterizza l’Ordine. La fraternità dell’Ordine profondamente sentita deve derivare dal fatto che siamo tutti figli di Dio in Cristo e che in Cristo Signore siamo, perciò, fratelli… È il mistero di Gesù, ancora una volta, a dominare questa dimensione spirituale della nostra Regola: quella della fraternità. Ne riparleremo. Ma mi premeva dirlo subito per non dissociare il discorso dell’ossequio di Gesù Cristo dal discorso della fraternità. Siamo insieme a rendere ossequio a Gesù Cristo. Siamo insieme a vivere di questo ossequio. Siamo insieme a godere di questo ossequio. Siamo insieme a penetrare progressivamente questo mistero della paternità di Dio, della figliolanza in Cristo e della nostra fraternità in Lui.
Ecco, questa prima riflessione mettiamola a fondamento. Può essere anche un richiamo a ritrovare il senso trascendente della divina figliolanza. Può essere anche utile a ritrovare il senso, altrettanto trascendente, della fraternità cristiana, per dare alla nostra vita uno slancio nuovo, un fervore nuovo e una nuova grazia che da Cristo viene e che di Lui ci fa vivi.

2. «Venga tra voi eletto un Priore»

La Santa Regola, dopo aver ricordato che secondo la tradizione dei Padri della Chiesa qualunque forma di vita religiosa impone di vivere in ossequio di Gesù Cristo, passa alla prima prescrizione vera e propria.
Ed è una cosa curiosa; perché la prima prescrizione della Regola dice che, prima di tutto, «vi radunerete per eleggere fra voi un Priore, con unanimità di voti o, perlomeno, con la maggioranza più sana degli stessi. E a questo Priore prometterete obbedienza, castità e abdicazione della proprietà».

Ecclesialità

La norma della Regola impone quindi due impegni: l’impegno di costituirsi in comunità organizzata e diretta attraverso la nomina di un Superiore – e qui a me sembra che sia molto importante renderci conto che con questa norma fondamentale la vita religiosa del Carmelo diventa, per il fatto stesso di essere organizzata così, una realtà eminentemente ecclesiale.
La presenza dell’autorità evidentemente è una presenza che i fratelli scelgono non perché sono forzati, ma perché lo vogliono e lo desiderano. E vorrei dire che nello sviluppo della teologia della vita religiosa come è arrivata ora alle illuminazioni del Concilio, questa ecclesialità fondamentale va messa in rilievo e va anche particolarmente esaltata, perché la scelta del Superiore non è imposta dalla Regola per delle ragioni di organizzazione sociale o delle ragioni di esigenze psicologiche o antropologiche, ma è imposta per un altro motivo che la Regola dichiara così: «a questo Priore prometterete obbedienza con castità e abdicazione di proprietà». Guarda caso: sono i Consigli evangelici.

Punto di riferimento

I Consigli evangelici entrano nella realtà dell’esperienza carmelitana attraverso la promessa fatta dai religiosi a uno di loro, scelto a dirigere la comunità e a essere un punto di riferimento che rende presente Cristo. È tanto vero che, nel penultimo articolo della Regola dove si parla un’altra volta del Superiore e si ricorda a lui che dev’essere sollecito servo di tutti, si dice che i religiosi devono vedere in lui Cristo Signore.
Ecco: la presenza di quel Cristo nel cui ossequio bisogna vivere, garantita dalla presenza del Superiore che si fa depositario e garante della promessa fondamentale: l’obbedienza, la povertà, la castità.

Letture diverse

Ci sono stati tentativi, in una lettura diversa di questo articolo della Regola e anche in alcuni studi molto recenti, di togliere il carattere sacrale di questa norma della Regola e anche di separare la funzione dell’autorità dalla funzione della professione dei Consigli evangelici. A me sembra che questi tentativi siano evidentemente fuorvianti e sono, comunque, contrari alla tradizione perenne dell’Ordine che nella Professione rende p...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. FRONTESPIZIO
  3. COLOPHON
  4. PREFAZIONE
  5. L’EREMITISMO DELLA REGOLA CARMELITANA (1948)
  6. LA NOSTRA VOCAZIONE CARMELITANA (1968)
  7. LA REGOLA DEL CARMELO (1992)
  8. COSÌ VICINI COSÌ DIVERSI (1991)
  9. POSTFAZIONE