L'infinito gioco della scienza
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Come il pensiero scientifico può cambiare il mondo

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Come il pensiero scientifico può cambiare il mondo

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Nell'era della superficialità dell'informazione, in cui imperversano le fake news e al ragionamento critico si antepongono presunzione e ignoranza, la scienza sembra essere sotto attacco. Ma non è che un paradosso, perché mai come oggi la ricerca scientifica è stata così forte e affidabile.Edoardo Boncinelli e Antonio Ereditato, due scienziati italiani in prima linea nei rispettivi campi di indagine – la genetica e la fisica delle particelle –, ci raccontano che la scienza è bellezza, creatività,gioia della ricerca e della scoperta. È indagare e comprendere i misteri della natura, è lo sforzo di evocare nelle nostre menti l'universo intero. In fondo, la scienza è un gioco. Un gioco intellettuale e materiale, faticoso eppure attraente, in cui si procede per tentativi ma secondo regole ferree, in cui ogni conclusione è sempre provvisoria e il rincorrersi virtuosotra teorie e osservazioni porta a risultati sorprendenti.E non sono soltanto le applicazioni della ricerca scientifica a cambiare il mondo in cui viviamo e il nostro modo di pensarlo; è l'atto stesso del ricercare che lo modifica, introducendo novità e trasformazioni di ogni tipo. L'infinito gioco della scienza ci svela che il potere della scienza è proprio questo: la capacità di plasmare la realtà e di partecipare alla sua costante ricreazione. Una partita che Boncinelli ed Ereditato ritengono troppo emozionante per essere abbandonata: si resta in campo, quindi, a giocare il fantastico e infinito gioco della scienza.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865768075
1. Osservare e non solo
Siamo abituati a pensare che la realtà esista da qualche parte in sé e per sé e che noi la possiamo percepire e studiare in una maniera che oggi ci appare semplice e naturale, ancorché impegnativa. Questo è certamente un punto di vista corretto per la vita di tutti i giorni e anche condiviso dalla maggior parte delle persone, inclusi molti di coloro che la realtà la indagano per mestiere, come gli scienziati. Se però ci riflettiamo un attimo sorge spontanea la domanda: «Ma quale realtà? E cosa è la realtà? E come facciamo a sapere che la realtà sia proprio quella che percepiamo?». Come avevano osservato i filosofi greci, tutto ciò che possiamo sapere sulla realtà proviene dai nostri sensi. Non solo da quelli, in verità, perché oggigiorno i sensi biologici sono complementati da meccanismi visivi, auditivi, elettronici e via discorrendo, che elaborano e ampliano il concetto grezzo di percezione sensoriale. Se consideriamo anche solo la vista per esempio, ci siamo avvalsi degli occhiali, del telescopio, fino a Hubble, il telescopio spaziale che orbita nel cosmo, una specie di occhio «distaccato» che espande «la realtà» fino alle profondità del cosmo. E nella direzione opposta, prima il microscopio, poi quello elettronico e quindi gli esperimenti di fisica con gli acceleratori di particelle, che ci permettono di «vedere» nelle infinitesime immensità del microcosmo, grazie al fatto che maggiore è l’energia delle collisioni tra particelle, minori sono le dimensioni sondate.
Molte religioni hanno esteso nei secoli il dominio della realtà, diciamo «oggettiva», introducendovi altri elementi, per definizione non percepibili allo stesso modo della realtà manifesta o manifestabile. Dio, l’anima, il paradiso e l’inferno. Le divinità onniscienti allora ci suggeriscono una realtà più profonda, prendendo spunto dai nostri sensi ma certamente non limitandosi a quelli, anzi per certi versi esulando da essi. Quando un filosofo vuole discutere del mondo «come è» parla talvolta del sensorio di Dio. Se Dio esistesse avrebbe il suo modo di vedere e percepire il mondo, ed esso sarebbe indubbiamente il modo più potente per farlo. Il sensorio di Dio è un’utilissima metafora quando vogliamo rappresentare, o crediamo di rappresentare, il mondo come è veramente, ossia la sua eventuale essenza oltre la nostra mera percezione. Alternativamente, ci possiamo rimettere a ciò che hanno scoperto le neuroscienze negli ultimi anni; molto più concretamente, sappiamo che i nostri sensi lavorano su una sorta di canovaccio costituito da tutte le conoscenze che abbiamo acquisito durante la vita, ma che è anche basato su qualcosa di assunto per vero che probabilmente esiste insito in noi fin dalla nascita. Sarebbe questa la memoria degli eventi dell’evoluzione biologica, chiaramente non dettagliatissima e non specifica, ma sufficiente per permetterci di vivere e procreare, lo scopo ultimo della nostra vita biologica nonché di quella di tutti gli altri esseri viventi. E per vivere è noto che bisogna usare correttamente tutti i sensi, in aggiunta al cervello che li coordina, e anche essere pronti a vedere ciò che si vede e a pensare quello che si pensa, come se ci fosse stata impressa una traccia che ripercorriamo, rafforziamo o allentiamo con la vera esperienza dei sensi.
Questa è un po’ la visione originaria di Platone ed è anche fortemente influenzata dalla dottrina kantiana: i nostri sensi individuano quello che devono riconoscere e sistemano – per così dire – un certo numero di note su uno spartito preesistente. Ma come stanno effettivamente le cose? Difficile dirlo. Ciò di cui invece siamo ragionevolmente certi è che come esseri viventi riconosciamo e poi elaboriamo un gran numero di stimoli fisici esterni. Ma non tutti gli animali e le piante lo fanno allo stesso modo. Noi umani, per esempio, siamo sensibili ai raggi luminosi ma non vediamo né l’infrarosso, né l’ultravioletto o tantomeno le altre onde elettromagnetiche di frequenza ancora maggiore o minore. Altrimenti saremmo continuamente sommersi da una enorme quantità di informazioni che si sovrapporrebbero in maniera forse confusa, senza procuraci un chiaro vantaggio biologico, anzi. In altre parole, l’evoluzione ci ha fornito di occhi sensibili alla luce – detta per questo visibile – quale giusto equilibrio tra l’ottimizzazione delle nostre performance sensoriali, finalizzate alla trasmissione dei nostri geni, e il dispendio energetico che una sovra-sensibilità avrebbe richiesto. Allo stesso modo non abbiamo sviluppato un terzo braccio perché il rapporto costo/beneficio sarebbe stato sfavorevole.
Quindi siamo continuamente sottoposti a un certo numero di stimoli fisici, definiti come tali dai nostri organi sensoriali. Tornando all’esempio di prima, un segnale di radiazione ultravioletta non è riconosciuto come una sollecitazione sensoriale nell’uomo. Eppure, esso fa parte della ipotizzata «realtà oggettiva». Semplicisticamente, allora, potremmo dire che in sostanza le percezioni sono definite a priori. Il mondo, quindi, sarebbe ben diverso da quello che osserviamo con i nostri occhi, se gli stessi fossero sensibili alla radiazione infrarossa. Quando nell’aprile 2019 è stata mostrata la prima «foto» di un buco nero, ottenuta analizzando emissioni radio provenienti da una galassia lontana, qualcuno ha storto il naso affermando che non si trattava di una «vera» foto, in quanto l’immagine non sarebbe stata ottenuta con la luce visibile. Estremizzando questo discorso, anche una radiografia a raggi-X che evidenzi un osso fratturato non sarebbe una fotografia reale, cioè non corrisponderebbe all’atto del «vedere» al di sotto dei tessuti e dei muscoli. E sarebbe un errore, lasciando intendere di fatto che le nostre limitazioni biologiche definiscono il dominio della realtà osservata e osservabile.
Un’altra questione rilevante è: «Che cosa produce questi stimoli, come e perché?». In effetti, quando definiamo la realtà generiamo un’ipotesi, ragionevole quanto si vuole, ma pur sempre un’ipotesi. Il muro fra la nostra percezione sensoriale e la versione della realtà che essa ci fa conoscere appare invalicabile. Italo Calvino disse: «L’occhio non vede cose, ma figure di cose che significano altre cose». Il libro del chimico-fisico inglese Peter Atkins, intitolato Conjuring the Universe, che può essere tradotto come «evocare l’universo», ma anche «come far comparire l’universo con una bacchetta magica», lascia intendere che la realtà sia fortemente determinata dalla specifica combinazione delle percezioni. Ciò è quanto fanno gli uomini quotidianamente e, in particolare, gli uomini di scienza in maniera professionale. Ammesso che l’oggettività e l’esistenza dell’universo sia acquisita – anche se possiamo parallelamente affermare che l’uomo ha di fatto creato l’universo attraverso la rappresentazione cosciente che ne ha realizzato – la sua effettiva natura e manifestazione deve essere ricondotta a noi, alla portata dei nostri sensi. L’universo va compreso e trattato «familiarmente» come elemento di fondo dell’esistenza. Da tempo immemorabile gli esseri umani lo sanno fare – e anche molti animali – quasi sempre senza chiedersi il perché. Per gli uomini, il linguaggio permette anche di dichiarare e raccontare le nostre interpretazioni. La vita si vive in «presa diretta» e il mondo si conosce e percepisce «in tempo reale». Un pur breve attimo di riflessione, tuttavia, non può che mettere in risalto la complessità e la problematicità della situazione.
Nei secoli passati si assumeva un approccio «naturalistico» verso le cose oggetto della scienza, quest’ultima intesa come nient’altro che osservazione e racconto della manifestazione della natura. Per esempio, fino a 200 anni fa circolava la battuta che la biologia non fosse altro che una sorta di collezione di francobolli. Ora le cose sono profondamente cambiate e lo erano già da molto prima per quanto riguarda la fisica, l’astronomia e tutte le altre scienze dette «dure». Quello che è accaduto negli ultimi secoli è che gli scienziati non si sono più accontentati di osservare, raccontare e catalogare, ma hanno anche cercato di capire e fornire interpretazioni, qualunque cosa questo voglia dire. E l’autore di quest’azione si definisce come lo scienziato «ideale», caratterizzato dalla sua curiosità, nonché capace, ricettivo, con una buona intelligenza e, soprattutto, intellettualmente onesto nella sua opera di scoperta e comprensione della natura, nonché nella comunicazione dei suoi risultati. Al metodo puramente naturalistico si è andata quindi progressivamente accostando l’attitudine alla ricerca delle spiegazioni. Questo non implica, tuttavia, ricerca della verità. Perché la verità intesa nell’accezione comune è difficile se non impossibile da definire. Per assurdo, lo scienziato sa bene cosa sia l’errore o la menzogna, ma non cosa sia la verità. Ciononostante, un’ipotesi ragionevole consiste nell’affermare che l’uomo di scienza cerchi proprio la verità o, meglio, tenda a essa.
Lo scienziato ambisce a comprendere e spiegare, ma le spiegazioni possibili sono quasi sempre molteplici, rendendo molto complesso il suo lavoro: egli realizza differenti meccanismi per ricondurre nuove percezioni a fenomeni già conosciuti e acquisiti, con la possibilità concreta di modificare il mondo – poco o tanto che sia – sulla base di queste nuove spiegazioni. Non si tratta quindi di una pura operazione contemplativa ma senza dubbio finalizzata. Per questa ragione, quando parliamo di scienza preferiamo usare l’aggettivo «affidabile» piuttosto che «vero». Laddove affidabile significa che, partendo da una constatazione e dalle sue possibili spiegazioni, siamo in grado di costruire strumenti e apparati, semplici o complicati, materiali o mentali, che funzionino efficacemente per creare «un’accettabile» rappresentazione della realtà.
Nella nostra società, tuttavia, si guarda talvolta con sufficienza agli aspetti applicativi dell’attività conoscitiva, previlegiandone quelli teorici o contemplativi. Un palese errore, anzi, una grave superficialità. A cosa serve sapere in astratto senza poter fare un qualsivoglia uso di tali conoscenze? In altri casi, al contrario, si opera inconsciamente (o meno…) il cortocircuito di ritenere che la scienza coincida con la tecnologia o semplicemente con la tecnica. Sappiamo però che la tecnica è nata molto prima della scienza e ha vissuto di vita autonoma, anche se all’inizio stentata e poco fertile. Anche oggi, non tutta la tecnologia è un derivato dalla scienza, benché nella sua accezione migliore lo sia. Idealmente, se la tecnica scaturisse sempre dalla scienza si verificherebbe ciò di cui abbiamo appena parlato, ovvero conoscere, capire, spiegare e poi utilizzare. In alcune cose della modernità è questo che avviene: per esempio l’invenzione del motore a scoppio è stata basata su una serie di conoscenze scientifiche già assodate, anche se l’elemento d’ispirazione – e diciamo pure di fortuna o caso – gioca sempre il suo ruolo. Già parlando della scoperta della penicillina abbiamo trovato fortuitamente prima l’applicazione (tecnica) che non la spiegazione (scientifica). Si osservò che certe muffe inibivano la crescita di taluni batteri ma non si aveva la più pallida idea di perché ciò avvenisse. Solo successivamente, studiando la biologia moderna e in particolare la biologia molecolare, si riuscì a capire perché gli antibiotici esercitano la loro funzione. Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito in questo continuo incrociarsi di teorie e applicazioni o, se si preferisce, di scienza e di tecnica, che oramai – in modo quasi trasparente per noi – tengono in piedi il mondo e ne garantiscono lo sviluppo.
Anche il rapporto tra uomo e scienza di base e quello tra uomo e tecnologia possono essere ben differenti tra loro nella società. Oggi abbiamo complottisti e terrapiattisti, categorie di persone che hanno fortemente da ridire – in maniera del tutto immotivata – su risultati scientifici fondamentali, acquisiti e condivisi dalla comunità scientifica e, in alcuni casi, perfino dalla quasi totalità dell’umanità. Tuttavia, le stesse persone non rinuncerebbero di certo a un esame pet se il medico glielo raccomandasse o a usare il telefonino e il gps al suo interno; sorvolerebbero così sul dettaglio che per il suo funzionamento il dispositivo deve tener conto di correzioni di relatività generale einsteiniana, la quale, a sua volta, implica placidamente che la Terra sia una sfera o giù di lì, circondata com’è da satelliti geostazionari. In questi casi è come se assistessimo alla rottura del rapporto di fiducia – stabilitosi nel corso dei secoli – tra uomo e conoscenza. Persiste soltanto una sorta di fiducia acritica verso la tecnologia, usata e percepita come una scatola nera, della quale non è interessante e necessario comprendere i meccanismi profondi, secondo un discutibile concetto di scienza à la carte: decido io cosa accettare della scienza, a seconda dei miei convincimenti a priori. Salvo poi sparare ad alzo zero contro di essa alla prima occasione, il più delle volte in maniera ingiustificata, attribuendo a scienza e tecnologia le colpe di tutto quanto va storto nella società.
A questo proposito, emblematico è stato il caso dello studio riportato nel 1998 da Andrew Wakefield e collaboratori, nel quale si evidenziava una correlazione tra vaccini e autismo. Questo lavoro ha avuto conseguenze nefaste per la società, in quanto, a seguito dell’articolo pubblicato da Wakefield su una prestigiosa rivista scientifica, nacquero i primi gruppi no-vax, giustificando «scientificamente» la loro avversione alla vaccinazione secondo un principio di precauzione. Peccato che l’articolo fu poi ritrattato e l’autore radiato dall’ordine dei medici del Regno Unito, colpevole di comportamento fraudolento e di conflitto di interessi. Nessun altro gruppo di ricercatori fu in grado di riprodurre i suoi dati (falsi) e l’affare, almeno dal punto di vista genuinamente scientifico, si chiuse con infamia per l’autore. Ma poco importa. La fake news si era ormai propagata e molti caddero nella trappola continuando a citare i risultati di Wakefield a supporto delle loro tesi antivaccini, sia inconsapevolmente e sia, purtroppo in altri casi, ben consapevoli della bufala alla base della storia. Va osservato, tuttavia, che nella scienza le bugie hanno le gambe corte, e questo è uno dei motivi dell’affidabilità del metodo scientifico. La richiesta che un qualsiasi risultato debba poter essere riottenuto, ripetendo l’esperimento in un altro luogo o in un altro momento, è un potente antidoto contro ipotetici tentativi di frodi o inganni. È questa la ragione principale per cui in tutto il mondo avanzato, negli ultimi decenni, pur ricchissimi di progetti scientifici, i casi come quello di Wakefield sono rari.
In ogni caso, al giorno d’oggi, l’abuso o l’errato utilizzo di internet contribuisce a generare gli esempi di sopra, per i quali la società può, in buona o cattiva fede, appropriarsi in maniera errata dei risultati scientifici, utilizzando il menzionato approccio di scienza à la carte. Si generano in questo modo dei meccanismi perversi, che si autoalimentano di ignoranza, superficialità, ingenuità e presunzione. Ricordiamo un altro esempio relativo a un evento accaduto una decina di anni fa. Un forte dibattito si accese allora nel mondo tra politici, ambientalisti e persone sensibili ai problemi dell’inquinamento e della salute, sulla questione del monossido di di-idrogeno. Una sostanza chimica la quale presenta delle caratteristiche a dir poco terrificanti: letale per inalazione, capace di produrre ustioni cutanee al contatto con la sua fase solida, componente delle piogge acide, largamente presente nei tumori maligni, allo stato gassoso in grado di produrre terribili ustioni, responsabile primaria dell’erosione del suolo, capace di corrodere metalli, causa di cortocircuito nei dispositivi elettrici, corresponsabile della formazione di cicloni devastanti, nonché prodotto usato nella produzione dell’energia nucleare. Una lista di effetti così terribile da indurre eminenti rappresentanti della società civile e della politica a proporre il bando totale dell’uso della sostanza e a stigmatizzare la totale assenza di opportune azioni da parte dei governi internazionali, lasciando anche intendere l’esistenza di poteri occulti o di lobby dietro l’uso del temibile monossido di di-idrogeno. Peccato che si trattò di una magnifica burla all’indirizzo di creduloni e ignoranti. Nessuno si prese la briga di consultare un’enciclopedia (o almeno Wikipedia…) e scoprire che la mortifera sostanza altro non è che l’acqua.
Questo esempio è illuminante perché presenta le caratteristiche principali delle fake news o delle bufale di internet. Queste, talvolta, non sono palesi baggianate, ma piuttosto piccole verità separate, combinate ad arte in maniera capziosa per creare uno schema, in fondo verosimile, tale comunque da colpire l’immaginario collettivo. Il solo modo per non cadere nella trappola è esercitare un atteggiamento critico che permetta di comprendere la falsità della notizia. A questo proposito, una collega ci racconta di un esercizio di fisica elementare eseguito da studenti del primo anno del corso di laurea in biologia di una grande università italiana. Una delle domande richiedeva di calcolare la massa di un metro cubo di elio, conoscendo la sua densità, giusto una semplice divisione. Assieme ad alcune risposte in bianco da parte dei discenti (!), uno studente giunse al risultato di 56 000 chilogrammi. Qual è il problema? Il giovane non aveva vagliato la sua conclusione, chiaramente assurda, attraverso un filtro di plausibilità, di comune buon senso prima che di analisi scientifica o matematica. Il risultato era arrivato partendo da dati e informazioni processate meccanicamente (ed erroneamente) senza innescare una minima attività di pensiero e di logica. E conseguentemente non si era preoccupato della ragionevolezza della sua conclusione. Ecco, la mancanza di attitudine al pensiero, associata alla cassa di risonanza di internet la quale amplifica e supporta con moltissime opinioni coincidenti qualsiasi affermazione – anche le più assurde, come quella che la Terra sia piatta – rende verosimili e talvolta perfino dominanti conclusioni folli e inaccettabili. Parleremo più avanti della situazione della conoscenza – o meglio dell’ignoranza – scientifica e non, presso il grande pubblico dei nostri giorni. La cosa su cui vale la pena di riflettere è che, oltre a quanto detto sopra, assistiamo tristemente alla perdita progressiva e diffusa della logica – perfino dei suoi più semplici elementi – la quale potrebbe almeno aiutare pur in presenza di una forte carenza culturale.
Cionondimeno, mai come oggi la conoscenza scientifica è stata tanto sviluppata e fruibile. Non c’è mai stata tanta trasparenza e possibilità di informarsi sulle questioni scientifiche, per molti, pure se probabilmente non per tutti. Anche il mondo che circonda la scienza e la tecnica è più aperto che mai, così che tutti o quasi possono informarsi di ogni cosa, indipendentemente dal luogo e dal tempo degli accadimenti. Tuttavia, la popolarità della scienza è piuttosto bassa e la maggior parte dei cittadini possiede conoscenze scientifiche relativamente scarse e discretamente confuse, quando non clamorosamente false. Ma perché? Per dare una risposta si possono individuare un certo numero di motivi. Prima di tutto, occorre considerare che occuparsi di argomenti scientifici non è particolarmente facile e alla portata di tutti. Se è vero che anche nel dominio delle conoscenze astratte non c’è niente di facile, non c’è dubbio che le considerazioni scientifiche, spesso di natura quantitativa e sperimentale, sono un po’ più impegnative di quelle alternative, non foss’altro perché la scienza sperimentale è arrivata relativamente di recente e certamente dopo altri modi di rapportarsi con il mondo. Va notato anche che nel campo scientifico è più facile dimostrare che una cosa è sbagliata. È q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Sommario
  3. Prefazione
  4. 1. Osservare e non solo
  5. 2. L’uomo si appropria del mondo
  6. 3. Osservare o modificare?
  7. 4. Noi e la scienza che cambia e che ci cambia
  8. 5. Il futuro e l’ignoto dentro e fuori dell’uomo
  9. Ringraziamenti