Europa sovrana. Ideale necessario
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Giuseppe Giacomini, avvocato esperto in diritto penale dell'economia e in diritto 'eurounitario', affronta in questo libro il delicato ed attualissimo tema del 'sovranismo' da un'ottica originale, confezionando un saggio organico che rappresenta un mix tra diritto e politica e che tenta di comunicare in modo semplice e comprensibile, anche ai non addetti ai lavori, quanto sia importante la scelta europea, anche se in modo critico, per la vita quotidiana dei cittadini.La seconda idea guida è quella di aiutare il lettore a capire che il tema della scelta europea non è un dialogo sui massimi sistemi, fatto per élite intellettuali, ma tocca gli aspetti più minuti della vita quotidiana dei comuni cittadini.Già nella introduzione l'autore delinea efficacemente i termini della questione, rivolgendosi al Lettore con un discrimine preliminare: "se pensi che le numerose ansie che, a partire dalla esplosione della bolla speculativa nel 2008 in poi, ti attanagliano in termini di preoccupazioni sul lavoro, sullo stato sociale, sull'economia ecc. siano risolvibili con un semplice stop integrale all'immigrazione, allora puoi evitare di leggere questo libro…"

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788855031479

III

Alcune questioni di “dettaglio”

Dovrebbe essere chiaro che le questioni di carattere più generale di cui ho parlato finora non sono disquisizioni intellettuali sui massimi sistemi ma rappresentano la condizione concreta e preliminare per affrontare in modi diversi le più minute questioni pratiche. Su alcune di queste, spesso rimosse o travisate, voglio attirare l’attenzione. Lascio a voi valutare alla fine se siano o meno importanti per la vostra vita quotidiana, attuale e futura.
I trasferimenti da e per gli Stati. Che uso ne facciamo?
Non stupisce, data la pessima natura del confronto nell’ultimo anno, che le fonti politiche italiane e quelle della Commissione Europea forniscano dati diversi sull’entità dei trasferimenti finanziari tra l’Italia e l’UE.
Quanto diamo all’Europa
Da parte italiana, prima delle ultime elezioni europee si è detto che ogni anno il nostro Paese versa all’UE 20 miliardi di euro ricevendone in cambio soltanto 12.
Dopo le elezioni, il tiro è stato parzialmente corretto, sostenendo che l’Italia ha un contributo netto nei confronti del bilancio europeo pari a 6 miliardi annui.
Per sua parte, il Presidente della Commissione Europea Junker ha dichiarato che l’UE ha trasferito 1 miliardo all’Italia per l’emergenza migranti e ha fornito al nostro paese un sostegno complessivo pari a 130 miliardi.
La realtà è che i trasferimenti netti all’Unione Europea tra il 2014 (anno d’inizio dell’attuale settennato di bilancio) e il 2018 sono stati in media di 4,5 miliardi l’anno, una cifra che potrebbe caratterizzare anche i prossimi anni se l’Italia riuscirà a spendere per tempo tutti i fondi strutturali messi a disposizione dal bilancio dell’UE. Valutando il contributo netto medio in rapporto al Pil, l’Italia si colloca all’ottavo posto (0,27 per cento) essendo superata, nell’ordine, da Olanda, Germania, Svezia, Regno Unito, Danimarca, Francia e Austria. Il versamento netto della Germania (0,51 per cento del Pil), tanto per capirci, è stato quasi il doppio di quello italiano.
Analisi indipendenti (Università Cattolica di Milano) effettuate sul 2017, l’ultimo anno per cui esistono dati definitivi, attestano che il trasferimento lordo dell’Italia è stato di 13,8 miliardi, pari allo 0,8% del Pil. Questa cifra trae origine dal fatto che ogni anno il bilancio UE prevede un importo di spesa a cui deve corrispondere un pari ammontare di entrate (il bilancio europeo non può essere in deficit).
Come già ho detto, ricordo che le principali fonti di entrata sono tre: il gettito IVA, i dazi doganali sui beni extra-UE e i contributi dei singoli paesi, che sono proporzionali al reddito nazionale lordo (RNL). Il contributo di ogni paese dipende quindi dal totale dei contributi necessari per far quadrare il bilancio UE e dalla quota di ogni paese sul RNL dell’Unione. Nel 2017, la quota di spese non coperta da IVA e dazi era pari allo 0,5 per cento del RNL dell’UE, per cui ogni Stato Membro ha versato un contributo pari allo 0,5% del proprio RNL (8,8 miliardi nel caso dell’Italia).
Aggiungendo a questi 8,8 miliardi la parte del gettito IVA trasferita all’UE (2,1 miliardi), i dazi doganali per le merci extra-UE entrate in Italia (1,8 miliardi) e altre voci minori (1,1 miliardi), si ottiene il contributo totale versato dall’Italia nel 2017 nella misura appunto di 13,8 miliardi. In termini assoluti l’Italia si colloca al terzo posto per entità contributiva dopo Germania (23,7 miliardi) e Francia (17,9 miliardi), ma, rapportando questa cifra alla dimensione del Pil, l’Italia scende al dodicesimo posto, con un esborso pari allo 0,8% del Pil.
Il contributo medio annuo tra il 2014 e il 2017 è stato invece di 15,6 miliardi, in linea con quanto versato in media durante il precedente Quadro Finanziario Pluriennale 2007-2013
Quanto riceviamo
Le risorse trasferite all’Italia nel 2017 sono state pari a 9,8 miliardi (0,57% del Pil). In questo caso, a precederci in termini assoluti oltre a Francia (13,5 miliardi) e Germania (10,9 miliardi) c’è anche la Polonia (11,9 miliardi). Guardando alla media del periodo 2014-2017, i trasferimenti risultano leggermente più alti, pari a 11,1 miliardi annui (figura 1). La cifra di 130 miliardi citata da Junker certamente non può riferirsi a questo settennato ma con ogni probabilità rappresenta la somma dei trasferimenti avvenuti nel corso di diversi periodi di bilancio.
Figura 1: Rapporti finanziari tra Italia e UE (2007-2017)
Figura 1: Rapporti finanziari tra Italia e UE (2007-2017)
Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati Commissione Europea
Al netto di 300 milioni di spese amministrative e 1,2 miliardi di contributi per catastrofi naturali, i restanti 8,3 miliardi ricevuti nel 2017 erano ripartiti in quattro capitoli di spesa:
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1. Agricoltura: 4,9 miliardi, di cui 4,1 miliardi per pagamenti diretti agli agricoltori (tramite il Fondo Europeo Agricolo di Garanzia) e 800 milioni di cofinanziamento di programmi nazionali o regionali di sviluppo rurale sostenibile (tramite il Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale).
2. Coesione territoriale: 1,6 miliardi, attraverso il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e il Fondo Sociale Europeo, per il cofinanziamento di investimenti a favore di crescita e occupazione: 960 milioni hanno riguardato progetti nelle regioni “meno sviluppate”, 60 milioni nelle regioni “in transizione” e 530 milioni nelle regioni “più sviluppate”.
3. Competitività: 1,5 miliardi, di cui 800 milioni per il programma europeo per la ricerca scientifica e l’innovazione Horizon 2020, 200 milioni per il programma Erasmus+, oltre 300 milioni per progetti infrastrutturali comunitari (Sistema europeo di navigazione satellitare - Galileo, Reattore termonucleare sperimentale internazionale, Programma europeo di osservazione terrestre - Copernicus) e 100 milioni per il programma Connecting Europe (trasporti).
4. Sicurezza e cittadinanza: 0,3 miliardi, di cui 90 milioni per il Fondo per Asilo, Migrazione e Integrazione, volto a promuovere una gestione efficiente dei flussi migratori, e 80 milioni per attività di lotta alla criminalità e al terrorismo comprese nel Fondo per la Sicurezza Interna. Le cifre in questione sono quindi di gran lunga inferiori rispetto al miliardo citato da Junker.
I restanti 130 milioni sono ripartiti tra spese per le agenzie decentrate (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare con sede a Parma e la Fondazione Europea per la Formazione Professionale con sede a Torino, 90 milioni) e voci minori.
Facendo la differenza tra quanto versato e quanto ricevuto, nel 2017 il versamento netto è stato pertanto vicino ai 4 miliardi (0,23 per cento del Pil). In termini assoluti siamo stati il quarto contributore netto dopo Germania (12,8 miliardi), Regno Unito (7,4 miliardi) e Francia (4,4 miliardi), mentre scendiamo al settimo posto se rapportiamo il versamento netto alla dimensione del Pil.
Il contributo netto medio annuo del periodo 2014-2017 è stato di 4,5 miliardi, leggermente più alto del valore del 2017, ma comunque assai più basso rispetto a quanto affermato da autorevoli politici di Governo italiani. In rapporto al Pil (0,27 per cento) siamo all’ottavo posto in Europa dopo Olanda (0,65 per cento), Germania (0,51 per cento), Svezia, Regno Unito, Danimarca, Francia e Austria.
Né Junker, né l’Italia forniscono dunque dati esatti.
Il punto centrale
Ma veniamo al punto centrale di questa complicata storia. I dati sopra commentati si riferiscono alle risorse effettivamente versate all’Italia, non a quelle stanziate. Queste ultime possono eccedere le prime se un Paese non riesce a utilizzare a pieno i fondi stanziati, in particolare i Fondi Strutturali e di Investimento Europei (Fondi SIE). Più precisamente, ci sono tre fasi nella spesa dei fondi strutturali: lo stanziamento, l’allocazione su specifici progetti, e l’effettivo trasferimento. La possibile perdita di accesso ai fondi stanziati è basata sulla cosiddetta “regola del disimpegno automatico”. La regola prevede che le risorse allocate in un certo anno debbano essere spese entro la fine del terzo anno successivo all’impegno; in caso contrario, le risorse non spese vengono tolte dalla disponibilità del paese. Nell’attuale Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2014-2020, l’Italia ha quindi tempo fino al 31 dicembre 2020 per allocare tutti i fondi non ancora impegnati, e fino al 31 dicembre 2023 per spenderli.
La domanda è dunque la seguente: siamo capaci o meno di spendere l’intero ammontare dei fondi stanziati, ricevendo quindi meno risorse di quanto sarebbe stato possibile? All’interno del QFP 2014-2020, l’Italia ha per ora utilizzato solo il 22% dei 73 miliardi stanziati. In altre parole, quando ci avviamo alla fine del periodo 2014-2020, più di tre quarti del totale devono ancora essere spesi. Rispetto agli altri paesi, siamo al 26esimo posto per quota di fondi spesi (solo Croazia e Spagna fanno peggio, figura 3).
Figura 3: Quota di fondi strutturali allocati e spesi per Stato Membro
Figura 3: Quota di fondi strutturali allocati e spesi per Stato Membro
Fonte: elaborazione Osservatorio CPI su dati Commissione Europea
La capacità dell’Italia nella spesa dei fondi sembra ostacolata da alcune difficoltà: la lentezza da parte della pubblica amministrazione nella pubblicazione dei bandi per presentare i progetti, la complessità di alcune regole burocratiche nostrane (per esempio in materia di appalti pubblici), la mancanza di competenze di euro-progettazione all’interno del personale di alcune regioni, l’assenza di liquidità degli enti locali che dovrebbero cofinanziare gli interventi.
La cosa è intollerabile. Altro che immigrazione…
Nel precedente ciclo di programmazione 2007-2013, l’Italia era riuscita ad accelerare la spesa dopo ritardi iniziali analoghi a quelli attuali, finendo per “sprecare” solo 200 milioni su un totale di fondi strutturali pari a circa 28 miliardi. Speriamo almeno in un risultato simile per il ciclo in corso. Mi sembra il caso il Governo si muova con la massima determinazione.
Allo stato possiamo solo prendere atto che a fine giugno 2019 l’Italia aveva certificato a Bruxelles spese per 10,5 miliardi su un totale di 53,2 miliardi del programma 2014/2020 e che entro fine 2019 dobbiamo spendere 3 miliardi e 238 milioni dei programmi regionali e nazionali per non perdere la quota di risorse stanziate dal Fondo di sviluppo regionale e dal Fondo sociale che valgono circa 2 miliardi e su cui dovranno lavorare l’Agenzia per la Coesione territoriale, posta sotto la diretta vigilanza della Presidenza del Consiglio, i Ministeri competenti e le Regioni.
L’immigrazione e il Regolamento di Dublino
Difficile negare che il famigerato Regolamento UE 604/13, noto come Dublino III, non danneggi ingiustamente l’Italia in quanto frontiera marittima esterna dell’UE particolarmente esposta ai flussi migratori dal Nord Africa.
In particolare per quanto riguarda i criteri ed i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.
Tale persona infatti deve rimanere nel Paese di primo approdo fino a che la sua posizione di richiedente asilo sia stata definita.
Non è onere da poco che questo compito spetti sempre a noi per tutti coloro che arrivano sul suolo italiano anche se non intendano rimanervi o non soddisfano le condizioni previste.
In questa premessa, va detto che nel 2003, il precedente Regolamento Dublino II, identico su questo punto al III, fu ratificato col voto favorevole di molti partiti italiani, Lega (allora Nord) compresa. La memoria è corta, cambiano le circostanze e si può cambiare idea ma è opportuno averne memoria soprattutto pensando a quanto è accaduto negli ultimi anni.
Il 6 novembre 2017 il Parlamento europeo a larghissima maggioranza ha confermato il mandato per i negoziati interistituzionali con i governi europei per una revisione delle Regole di Dublino.
Secondo quanto stabilito nella posizione del Parlamento, il primo paese di arrivo del richiedente asilo non dovrebbe più farsi automaticamente carico di elaborare la richiesta di asilo.
Coloro che hanno un “legame effettivo” con un determinato Stato membro dovrebbero essere immediatamente trasferiti in quel paese. I richiedenti asilo per cui non sussiste alcun legame effettivo nei confronti di un paese specifico dovrebbero invece essere equamente distribuiti tra tutti gli Stati membri. I paesi che si rifiutano di accogliere la loro quota di richiedenti asilo potrebbero perdere i finanziamenti europei.
Gli eurodeputati ritengono inoltre che vadano rafforzate le misure di sicurezza e che ogni richiedente asilo debba essere registrato al suo arrivo, effettuando anche un controllo delle impronte digitali usando il database europeo.
Maggior rigore ed equità europea quindi, fatto salvo il rafforzamento dei provvedimenti a tutela dei minori e l’accelerazione delle procedure di ricongiungimento familiare.
Dunque, sebbene il Parlamento sia pronto da novembre 2017 a iniziare i negoziati per rivedere il sistema di Dublino, i Governi non sono stati finora in grado di trovare una posizione comune sulle sue proposte, forse non perfette ma certamente migliorative per l’Italia. Tutto è stato bloccato in sede di Consiglio a fine giugno 2019 per la contrarietà di molti Governi. Tra essi il Governo italiano.
Ancora una volta sembrano essere chiare almeno due cose: l’Italia non intende rinunciare a questo problema finché è elettoralmente utile e rifiuta ogni sostanziale passo avanti rispetto a quanto essa stessa nel passato ratificò; il Parlamento europeo è un luogo decisionale che sfugge alle logiche nazionaliste ed esprime una visione transnazionale capace di trovare punti di ragionevole mediazione ed enforcement delle decisioni assunte (blocco dei fondi per chi rifiuta le quote).
Ma, come ho già detto, non ha poteri di iniziativa legislativa e la sua volontà può essere bloccata dal Consiglio e quindi dai Governi che lo formano.
La battaglia mediatica Italia/ONG porta voti a certi partiti e soldi alle ONG. Tutti contenti, italiani esclusi.
La sovranità europea non può prescindere da un maggior ruolo del Parlamento sulle questioni strategiche.
Sulla destabilizzazione della Libia ad opera degli americani, dei francesi e degli inglesi non mancherà una valutazione e così pure sul motto tragicomico “aiutiamoli a casa loro”. Ma ci torneremo più avanti nel contesto delle ipotesi di riforma del sistema di governance a più livelli su cui l’Europa deve discutere e decidere velocemente per la sua sopravvivenza e sicurezza.
Banche tedesche e Banche italiane: figlie di un Dio minore?
Nel maggio 2019, nella sua prima intervista pubblica rilasciata da quando è uscito da Banca d’Italia, l’ex direttore generale Salvatore Rossi, ex membro del Direttorio che la guida e presidente dell’Ivass, che vigila sulle assicurazioni, ripercorre le tappe di quei momenti del 2013 e del 2014 in cui a Francoforte e a Bruxelles si decisero i destini di Montepaschi, Popolare Vicenza e Veneto Banca, Etruria e altre banche del Centro Italia, tra cui TerCas, crisi che hanno caratterizzato gli ultimi sei anni dell’organo direttivo della Banca d’Italia.
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Rossi, testimone diretto, si sofferma in particolare sui momenti in cui è nata la Direttiva europea BRRD sulla risoluzione delle crisi bancarie.
L’Europa che osserviamo oggi non è certo quella delle origini. L’Unione bancaria, non è nata anche per un ideale, come è stato per l’unione dei mercati o della moneta, ma solo per rispondere ai rischi di un possibile circolo vizioso: la preoccupazione che i debiti sovrani in pancia alle banche provocassero anche una crisi bancaria e aggravassero i...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il libro
  3. Biografia
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Introduzione
  7. I valori comuni. Servono concretamente? Chiedetelo a Americani, Cinesi e Russi
  8. Le Istituzioni europee di governo e legislazione
  9. Alcune questioni di “dettaglio”
  10. L’uso improprio dell’Europa. Talune criticità molto italo-sovraniste degli ultimi anni e… di oggi
  11. Sovranità europea: la svolta necessaria per una strategia comune e per un’identità condivisa forte e democratica che renda possibili le sovranità nazionali nella competizione globale multipolare in atto. Una scelta di campo per il XXI° secolo
  12. Bibliografia