Il fenomeno compare nella Bibbia già nei primi capitoli della Genesi, nella saga di Noè, alla fine della storia del diluvio universale. Usciti dall’arca il patriarca, la sua famiglia e tutti gli animali, e dopo che Noè ebbe offerto un sacrificio, Dio promise che la terra non sarebbe più stata distrutta dalle acque e strinse un patto con ogni essere vivente «per le generazioni in perpetuo», dice il testo biblico (Genesi 9,12-13). Come prova visibile di questo patto e relativa promessa, potremmo quasi dire come «sacramento», Dio pose tra le nuvole (in mezzo a quanto aveva causato le acque del diluvio e la distruzione) un segno, un memento anzitutto per se stesso: «Io lo vedrò per ricordare il patto perpetuo esistente tra Dio e tutti gli esseri viventi». È a partire da questa narrazione che l’arcobaleno si carica di un significato simbolico-religioso, anzi squisitamente teologico: è il segno della riconciliazione divina con la terra, non solo con l’umanità ma con tutta la creazione. In forza di questo patto, Noè diventa un secondo Adamo, dal quale tutti noi siamo discendenti, ma anche il testimone privilegiato della promessa divina siglata dall’arco-in-cielo: nonostante tutto, la terra e i suoi abitanti non saranno più distrutti dalla giustizia divina.
Ecco perché nella tradizione ebraica questo fenomeno naturale viene salutato con gioia recitando una speciale preghiera con la quale si benedice Dio «che si ricorda del patto, è fedele e mantiene la sua parola». Per il profeta Ezechiele, poi, l’arcobaleno è il termine di paragone della luminosità che emana dalla gloria divina, che gli appare in una visione straordinaria e pullulante di vita, tra fiamme di fuoco e creature angeliche, tra pietre preziose e lampi di pura energia, apparizione descritta in apertura del suo rotolo profetico, il capitolo chiamato della «visione del carro» (un’eco di tale visione risuona forse anche in Apocalisse 10,1, il testo che chiude il canone del Nuovo Testamento, dove un arcobaleno cinge la fronte di un angelo che «grida come un leone che ruggisce»). Grazie alle interpretazioni di questo carro celeste, l’arcobaleno entra nell’immaginario dei mistici, specie dei qabbalisti: lo ritroviamo così in alcuni passaggi dello Zohar, il Libro dello splendore, elevato a segno della redenzione futura, del riscatto messianico e della benevolenza divina sul mondo. Simbolo del patto grazie al quale non vi sarà più un’altra distruzione globale della terra, quest’arco che appare subito dopo un temporale o una bufera assurge per la mistica ebraica a sintesi visiva dell’esperienza spirituale più alta, durante la quale il qabbalista vive una specie di sinestesia, ovvero un convergere di sensazioni solitamente esperite dai sensi corporei in modo separato. Qui la vista, l’olfatto e l’udito sono combinati, i colori si percepiscono come profumi e i profumi come voci angeliche. Per questo le spezie (chiodi di garofano, bacche di ginepro, cinnamono...), che veicolano i profumi più estatici, sono state inserite nella liturgia di commiato dallo shabbat, quale viatico che dovrebbe prolungare nei giorni profani l’odore e il sapore della santità del settimo giorno.
Ma anche i colori fanno da sfondo alla liturgia, perché la luminosità – espressa dal bianco – è una delle manifestazioni del divino: la luce non è altro che la sintesi di tutti i colori, che nell’arcobaleno sono presentati nella loro distinzione. Sono sette, numero simbolico che rimanda a una pienezza che tuttavia non annulla la loro diversità, piuttosto la tiene insieme. Se li separassimo, l’arcobaleno svanirebbe. Ma non tutti i colori hanno qui la stessa forza simbolica: il rosso, ad esempio, nella cultura biblica rimanda al sangue, elemento fondamentale della vita: la vita sta nel sangue, secondo le Scritture. E non senza un certo realismo il rosso rimanda anche al peccato (il sangue di Abele e dei sacrifici idolatrici), mentre il color porpora, simile a un violetto, che sta all’estremo opposto dello spettro di questi sette colori, rimanda alla purificazione (la liturgia cristiana lo ha ereditato come colore della quaresima e dei riti penitenziali). Il blu, invece, è tradizionalmente il simbolo del cielo e del mare, e come tale diventa il colore più “trascendente”, emblema stesso dell’esperienza spirituale. Di solito è associato al bianco, che nell’arcobaleno non c’è perché il bianco è luce, è perfezione e purità, dunque è sintesi di tutti i colori messi insieme, sublime punto di incontro tra umano e divino. Ecco perché il tallit, il manto della preghiera ebraica, che gli uomini indossano in sinagoga di shabbat di solito è bianco, a volte con strisce di blu o di nero: quest’ultimo per i mistici è il colore dell’inchiostro, delle lettere della Torà, chiamata pertanto «fuoco nero su fuoco bianco». Bianca poi è quella speciale veste, il kittel, che i chassidim indossano a Kippur, giorno di digiuno per ottenere il perdono divino. E nel kittel, avvolti dal loro tallit, desidera...