Virale. Il presente al tempo dell'epidemia
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Virale. Il presente al tempo dell'epidemia

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Virale. Il presente al tempo dell'epidemia

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La pandemia di Coronavirus ha scoperchiato il vaso di Pandora del nostro tempo presente, facendo emergere riflessioni e interrogativi che sembrano mettere in questione le forme di vita che fino a ieri davamo per scontate come individui e come comunità.
Qual è il rapporto tra l’essere umano e il suo ambiente? Quale forma assume il potere nelle sue manifestazioni eccezionali? Qual è il ruolo dei media in quella che è la prima emergenza su scala globale del mondo iperconnesso in rete? Come possiamo costruire la relazione con gli altri nelle forme del distanziamento? L’immaginario, distopico e non, aveva in qualche modo previsto il nostro presente?
Questo volume raccoglie i contributi di studiosi, italiani e internazionali, pubblicati sulla rivista “Fata Morgana Web”, e restituisce una riflessione che si è articolata nel tempo sospeso dell’emergenza, dando forma alle questioni della vita sociale e comunitaria, politica e mediale, che riguardano il nostro presente, ma soprattutto il nostro futuro.
Scritti di: Olimpia Affuso, Pierandrea Amato, Pauolo Barone, Marcello Walter Bruno, Gianni Canova, Alessandro Cappabianca, Mauro Carbone, Dario Cecchi, Francesco Ceraolo, Alessia Cervini, Felice Cimatti, Roberto De Gaetano, Daniele Dottorini, Roberto Esposito, Ruggero Eugeni, Manuela Fraire, Richard Grusing, Andrea Inzerillo, Nidesh Lawtoo, Federico Leoni, Angela Mailello, Caterina Martino, Tommaso Matano, Marco Pedroni, Chiara Scarlato, Emidio Spinelli, Tommaso Tuppini.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788868229146
Argomento
Arte
Categoria
Fotografia

I. La vita e le forme

Istituzioni e pandemia

Roberto Esposito

Perché aprire – o riaprire – oggi un discorso sull’istituzione al punto d’incrocio tra pensiero e prassi? Cosa fa della prassi e del pensiero, intesi nella loro potenzialità istituente, un passaggio necessario della filosofia contemporanea? Forse niente più della pandemia che ha sconvolto il mondo, come mai era accaduto prima, ci offre la possibilità di rispondere con puntualità a queste domande. L’unica risorsa che abbiamo, nell’affrontare questa terribile crisi, è costituita dalle istituzioni – pensate, e praticate, non nella loro fissità, ma nel loro mutamento. Non come sono state fino adesso, ma come saranno, inevitabilmente modificate da questo evento, esso stesso, a sua volta, drammaticamente istituente. Quando parlo di istituzioni non mi riferisco solo agli Stati nazionali o federali, ai poteri regionali o internazionali, all’organizzazione mondiale della sanità o alle banche centrali. Mi riferisco anche a tutti i soggetti coinvolti dalla pandemia, a partire dalle popolazioni nel loro insieme e nelle loro parti, alle categorie professionali, in particolare mediche e sanitarie, fino alle organizzazioni volontarie, alle associazioni non governative, ai centri di raccolta di fondi di beneficenza, a tutte le attività orientate al sostegno delle persone colpite dalla malattia e dai danni collaterali da essa generati. E ancora ai comportamenti, alle attività, alle forme di pensiero che la presenza del Coronavirus ha attivato in tutti noi, in difesa della vita individuale e collettiva, dei singoli e delle comunità. Tutto ciò, oltre che svolgersi necessariamente all’interno delle istituzioni presenti, è esso stesso parte integrante di un processo istituente che ha già trasformato la nostra esistenza attuale e che presumibilmente trasformerà ancora di più quella futura.
Da questo punto di vista – che congiunge indissolubilmente vita e istituzioni – appare inadeguato tanto l’atteggiamento di chi tende a contrapporle, nel presupposto che le istituzioni vogliano opprimere, catturare, violare la vita, tanto il punto di vista di chi c’invita a obbedire ad esse senza incalzarle, criticarle, spingerle a una trasformazione radicale. Ciò che risulta da entrambi questi atteggiamenti, in fondo speculari, è un blocco del mutamento storico – o nella forma di un contrasto sterile e senza sbocchi o in quella di una pura adesione all’esistente. Ciò che sembra sfuggire agli uni e agli altri è che l’istituire, nel significato più intenso del termine – che è quello di iniziare, di dar vita a qualcosa di nuovo –, non è fuori di noi, ma è il motore delle nostre azioni, dei nostri comportamenti, dei nostri pensieri. Ma – nella logica dell’istituzione – non si tratta di un inizio assoluto, indipendente da quanto ci circonda, isolato nell’autonomia di un gesto solitario. Esso è inevitabilmente condizionato dal contesto in cui si attua, segnato dagli orientamenti che ci precedono, anche quando, e forse soprattutto quando, li contesta per cambiarli. Ciò è tanto più evidente oggi, quando la nostra vita quotidiana è regolata da prescrizioni sociali prima inimmaginabili, di cui sentiamo allo stesso tempo la necessità e il peso, come accade in tutte le procedure immunitarie. Oggi più che mai la pratica di immunizzazione che ci viene prescritta si rivela allo stesso tempo necessaria e potenzialmente oppressiva. Questo carattere ambivalente del processo di immunizzazione è già iscritto nella sua genealogia moderna. Se, come è evidente, nessun organismo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere senza un sistema immunitario che lo protegga – si pensi al ruolo del diritto in tutte le società antiche e moderne –, quando esso si spinge al di là di una certa soglia minaccia di minare i presupposti stessi dell’esistenza, come avviene, all’interno del corpo umano, con le malattie autoimmuni.
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Veduta di Piazza della Signoria di Giuseppe Canella (1830)
Se tale soglia sia stata varcata dalle misure di distanziamento sociale, o di riduzione della privacy dovuta ai dispositivi di controllo e di tracciamento dei movimenti degli individui, è oggetto di una discussione che in qualche modo coinvolge il nostro rapporto con le istituzioni. Personalmente ritengo che forme di invadenza da parte delle autorità che ci governano, spesso con insufficiente capacità di ascolto dei nostri bisogni, ci siano state. La necessità di velocizzare e di centralizzare le decisioni ha portato in quasi tutti i Paesi aggrediti dal Coronavirus ad accrescere il peso del potere esecutivo su quello legislativo, spesso chiamato unicamente a ratificare decisioni già prese. Tuttavia bisogna guardarsi dall’interpretare questi elementi inquietanti come segni di una svolta autoritaria – quasi una nuova forma di totalitarismo che starebbe distruggendo dall’interno le democrazie contemporanee. A distinguere quanto accade nei paesi democratici da forme di dispotismo è l’assenza di qualsiasi intenzione di asservimento delle popolazioni. Nulla di quanto è accaduto era immaginabile perché determinato da un evento contingente e del tutto inaspettato. Quello che in questi mesi, in diversi paesi, si è andato configurando come stato di emergenza – o di eccezione – non è l’esito di una volontà sovrana che ha adoperato la pandemia per attaccare le libertà fondamentali, ma di una necessità oggettiva che, come insegna Santi Romano all’origine dell’istituzionalismo giuridico, è fonte di legge non meno di altre. Scambiare la necessità con la volontà, o la contingenza di un evento imprevedibile con un progetto autoritario, è frutto di gravi equivoci. È vero che la dichiarazione, e la stessa definizione, di stato di urgenza nasce sempre da una decisione governativa. Ma in questo caso la condizione di necessità – in relazione alla salute pubblica – è talmente palese da non consentire dubbi in proposito. Naturalmente i singoli provvedimenti, e anche il loro insieme, sono emanazione dei governi, anche se nei regimi democratici i decreti governativi devono essere comunque autorizzati dai parlamenti.
Ma il problema, per essere colto in tutta sua complessità, va guardato anche dal suo rovescio. Cosa sarebbe successo, nella crisi pandemica, in assenza o nel silenzio delle istituzioni? Chi si sarebbe fatto carico di fronteggiarla, pur con gli errori, i ritardi, le incongruenze che dovunque ne hanno punteggiato l’attività di contrasto? Il problema non sta nella inadeguatezza delle istituzioni in quanto tali, quanto piuttosto nella loro scarsa preparazione, nella lentezza e confusione dei loro interventi, nella mancata radicalità dei provvedimenti presi nei confronti dei segmenti più fragili delle popolazioni coinvolte. Ciò tanto da parte delle istituzioni nazionali che da quelle internazionali – in modo particolare dall’Unione Europea. Mai come in questo caso la crisi, gigantesca e drammatica nelle sue dimensioni, va adoperata come un’occasione di riequilibrio dei rapporti di forza tra paesi forti e paesi deboli e, all’interno di ciascuno di essi, tra i ceti privilegiati e quelli svantaggiati. Del resto essa, nei suoi effetti sociali, ma anche nelle sue conseguenze letali, è stata certamente condizionata da scelte politiche fatte in passato che, in alcuni paesi europei e americani, hanno portato allo smantellamento della sanità pubblica e in generale del welfare. Ma proprio ciò attesta come lo scontro tra interessi diversi e contrapposti nasca sempre all’interno delle istituzioni ed abbia a oggetto la loro stessa pratica. Sanità pubblica, organizzazione del lavoro, luoghi deputati alla formazione e alla ricerca cos’altro sono se non istituzioni? E dove altro si dovrebbe condurre la battaglia politica per il loro mutamento, se non all’interno di esse? All’interno, ma anche all’esterno – nei partiti, nei sindacati, nei movimenti, nei media, nei siti, nel lavoro di scrittura e di pensiero. Tutti luoghi esterni alle istituzioni statali, ma a loro volta, da un altro punto vista, istituzioni anch’essi. Si potrebbe dire che il movimento istituente si costituisca sempre sul margine tra interno ed esterno, dentro e fuori, tra ciò che è già istituito e ciò che spinge per esserlo. Da questo punto vista è stato ben detto, lungo una linea di pensiero che prende origine da Machiavelli, che le istituzioni non soltanto non escludono il conflitto politico, ma nascono da esso e, se funzionano come devono, lo riproducono continuamente.
Riferimenti bibliografici
S. Romano, L’ordinamento giuridico, Quodlibet, Macerata 2018.

Prima dell’inizio e dopo la fine.
A proposito del
dispositivo dell’emergenza

Felice Cimatti

Questo il destino
L’immutabile mutarsi
Del sempre uguale nel diverso
Per svanire
Nel continuo ritorno
Del suo rifiorire.
Carlo Invernizzi
La matassa. «Un dispositivo è innanzitutto una matassa, un insieme multilineare» (Deleuze 2010, p. 11). Una matassa non è un’entità dai contorni definiti, come può essere una lavatrice o un coniglio, e tantomeno un oggetto con una funzione immediatamente evidente. In una matassa ci si perde, sappiamo infatti quanto sia difficile trovare il bandolo della matassa, quello che permetterebbe di sbrogliarla. Al contrario, è la matassa che ingarbuglia i nostri pensieri. Un dispositivo è una matassa, allora, vuol dire che un dispositivo “pensa” anche se non ci accorgiamo dei suoi pensieri, perché siamo troppo impegnati a cercare di sbrogliarli: infatti «queste linee nel dispositivo non delimitano né circoscrivono sistemi di per sé omogenei – oggetto, soggetto, linguaggio, ecc. – ma seguono direzioni, tracciano processi in perenne disequilibrio» (ibidem). Ma in che consistono, propriamente, questi «processi in perenne disequilibrio», cioè processi che non producono una situazione di comprensione più o meno stabile bensì agitazione e timore (gli affetti dell’ingarbugliamento nella matassa)? In realtà i dispositivi-matasse sono «macchine per far vedere e far parlare» (p. 13). Ogni dispositivo mette in evidenza un preesistente aspetto del reale, tuttavia lo mette in evidenza isolandolo dal suo contesto, e lo trasforma in un fenomeno a sé stante: «Ogni dispositivo ha il suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza e si diffonde, distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere e scomparire l’oggetto che non esiste senza di essa» (ibidem). Il punto da sottolineare è questa economia luminosa del dispositivo che distribuisce «il visibile e l’invisibile». Il dispositivo è il contrario di un buco nero, attira su di sé tutta la luce disponibile, “accecando” ogni altra possibile visione.
Pensiamo al dispositivo in cui siamo definitivamente precipitati da qualche mese, e che probabilmente ci accompagnerà per molto tempo ancora, l’emergenza (Agamben 2003) Sars-Cov-2. In questi giorni soltanto il virus è visibile, tutto il resto – e come ci stiamo accorgendo in questo “resto” è finita anche la nostra esistenza non puramente biologica (se non semplicemente polmonare) – è diventato del tutto invisibile. In questo senso il dispositivo “pensa” per noi, non tanto perché ci “imponga” cosa e come pensare, piuttosto perché restringe il campo del pensabile ad un solo contenuto, l’emergenza. Per questa ragione «l’oggetto» del dispositivo «non esiste senza» la luce che gli proietta sopra. Senza quella luce non ci sarebbe più un solo oggetto da pensare. Ma siccome il dispositivo ci mostra in piena evidenza un solo oggetto, tutti non facciamo che pensare e dire quell’unico oggetto. Siamo tutti finiti per rimanere ingarbugliati nella matassa. Perché attraverso questo uso differenziale del regime luminoso il dispos...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione“Guardare attraverso” il virus
  2. I. La vita e le forme
  3. II. Estetica e politica
  4. III. Media e dispositivi
  5. IV. Racconti e immaginari