Il tempo della malafede e altri scritti
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Il tempo della malafede e altri scritti

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La straordinaria figura di Nico Chiaromonte, discepolo di Caffi, amico di Camus, Hannah Arendt e Malraux, assieme al quale combattè nella guerra di Spagna, critico di ogni ideologismo, di ogni totalitarismo, di ogni società che vive nella malafede, e che è pronta a credere a ogni menzogna. Fu nemico del mito dello Stato nato con la modernità, e che accomunò Mussolini, Stalin e Hitler. Fu direttore con Silone di "Tempo Presente" e studioso e critico teatrale. Incompreso dalla sinistra, continuò a credere nella necessità di gruppi e comunità che si opponessero alla deriva dell'Occidente, oppressiva e permissiva insieme.

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Informazioni

Che cosa rimane

Quando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distoglier lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per prima ci si articola nella mente è: «Che cosa si è avuto dalla vita? Che cosa si è Ma questa domanda in realtà è la maschera di un’altra più grave ed amara, negativa: «Che cosa non si è avuto?» E infine anche questa nasconde il semplice rimpianto della canzone: «Combien je regrette... » tutto ciò che ho avuto e tutto ciò che ho mancato. È l’esistenza nostra in negativo che allora ci si mostra, e ci mostra che s’è mancato esattamente tutto quello che non s’è avuto avendo quel che s’ebbe. Sicché, quale che sia stata, l’esistenza ci si rivela molto esattamente come un Allora, dunque, non c’è forse errore nel modo stesso di guardare alla vita come un’impresa di rapina e di presa: ... sazia la fame di... Se questo non è semplice, naturale rimpianto non di ciò che non si è avuto, ma della vita trascorsa e tramutata in sogno di se stessa, è una stoltezza, dunque. In verità la domanda vera, quella che infine si nasconde sotto tutte le altre più o meno febbrili e desolate non è «che cosa si è avuto?” » ma «che cosa rimane?». Che cosa rimane del seguito di giorni e d’anni vissuto come si poteva, e cioè secondo una necessità di cui neppure ora riusciamo a decifrare la legge, come capitava, e cioè a caso?
Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’esser stati “belli”, direbbe Plotino, e la capacità di mantenerlo tuttora vivo. Rimane l’amore, se lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e di pregio che si incontrano nelle scorie della vita. Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male, male, e non si può fare che sia diversamente (e non si fare che diversamente).
Rimane quello che era, quello che merita di continuare e durare, ciò che . E di noi, di quell’Ego da cui non potremo mai strapparci né mai abiurarlo, non rimane nulla. (XV, 12)
Se non esiste che il reale, ossia l’insieme degli oggetti e il seguito dei giorni, la morte – il fatto della morte inerente in ogni momento e permeante ogni pensiero - la morte, dunque, non lascia un solo oggetto, un solo fatto, un solo momento essere reale, regna su tutti come il solo fatto irrefragabilmente reale e non c’è alcuna cosa reale, alcun momento reale, alcuna realtà la più corposa che non sia resa dalla morte equivalente al sogno, al ricordo, all’illusione. E nessun pensiero naturalmente, se in qualche punto fuori dall’ordine dei fatti non c’è un qualche cosa (Dio o Destino) che stabilisce - rende stabile - la distinzione fra vero e falso, fra reale e irreale.
Quest’idea così semplice, che se la realtà del mondo non è assicurata da un ente che sta «al di là» delle circostanze corporee, allora non c’è più niente di reale tranne la morte, mentre la morte rende irreale ogni cosa e ogni momento - questa idea così semplice, dunque, è stata persa di vista. Eppure è presente nel comportamento quotidiano degli individui, sempre più chiara. È il «non essere» che rende deficiente ogni modo dell’essere. Il che corrode ogni coscienza e la rende superflua. Il principio attivamente disgregatore così ovvio nell’arte, nel pensiero, nella vita politica moderna.
Nella letteratura, la si ritrova, questa idea, con una vivezza e semplicità cristalline a partire da Shakespeare, da Calderon, da Cervantes. In Proust raggiunge l’evidenza del principio primo: solo nella luce della sorge il bisogno che la propria vita solo la morte ravviva la memoria, fa nascere il passato come in un supremo soprassalto, lo fa ritrovare nell’eternità dell’Arte ma non rende per questo reale la realtà, anzi la mostra assoluta, fuori della memoria che la fa rivivere come immagine, sogno attento, seguito ordinato di sensazioni.
La stessa inconsistenza del reale è all’opera in tutti gli scrittori moderni di qualche importanza: Joyce, Kafka, Musil. E in Jorge Luis Borges non c’è più altro che questo, tranne che della babelica confusione d’irreale e di reale, di finzione e di verità, di sogno e di veglia. Dal più profondo del vortice annullatore, dalla compresenza e equivalenza d’ogni fatto, atto e parola risorge come per magia (e come in Proust dall’abbandono alla memoria) il senso della storia umana; vi si distingue ciò che vale e ciò che non vale, ciò che è bello e ciò che brutto, ciò che è nobile e ciò che è infame. Lo si distingue in una specie di vaga vertigine, come in sogno, e tuttavia lo si distingue, il pensiero che non tutto è lo stesso, e non tutto irreale ovvero che tutto sprofonda nel nulla, tranne il fatto che la vita dell’uomo appunto da questo trae senso. Ma anche in Borges, la realtà vera è la poesia: la letteratura, che «tante sventure capitano agli uomini perché ci sia un canto per il poeta», una versione leggermente deviata e perversa della famosa osservazione omerica.
In Genet più acuto ancora è questo senso che la morte rende ogni cosa irreale, dissolve ogni differenza fra reale e immaginario, momento desiderato e momento posseduto. E il teatro è la celebrazione di questa suprema finzione. In che cosa è diversa una tale situazione metafisica da quella espressa da Pindaro «sogno d’un’ombra il mortale» o di Platone «gli uomini, marionette degli Dèi»?
In questo, che per il Greco se l’uomo è sogno di un’ombra, o marionette degli Dèi, il cosmo, però, è reale, mentre, da Amleto in poi, al «moderno» poco importa che il cosmo sia reale o no: non è che peso, che il cosmo sia reale implica che gli Dèi esistono, il discorso ordinato ha senso. «Il soggetto dell’opera è più importante dell’artista”, il mondo più dell’uomo, sogno o no, per ciò che fa, e ciò che fa vale nella misura in cui s’accorda con l’ordine vero delle cose. (XVIII, 9)
Il drammaturgo ci mostra la pazzia delle cure quotidiane (o meglio: del far consistere l’esistenza nelle cure quotidiane - nella - da parte dell’ nel più semplice dei modi: isolandole su sfondo di nulla, fuori da ogni contesto quotidiano appunto.
Ma allora quest’essere che «canta» la lugubre e sciocca elegia dei «giorni felici» non rappresenta noi ma il pupazzo - il pagliaccio - che noi diventiamo nel momento in cui accettiamo che tutto il significato della nostra vita sia nel seguito delle ore e dei giorni, interminabile ... poiché, ragionando proprio al modo di Euclide, (ma al rovescio) il senso della vita non sta nel mucchio dei giorni, non sta neppure nei giorni uno per uno, né nelle ore né nei minuti, né nei secondi, e il tempo scompare: si ferma. E si ferma anche ragionando all’inverso, il tempo. Se non sta in ogni secondo, in ogni minuto, in ogni ora, in ogni giorno, non sta nemmeno nel totale, il senso.
Questa potrebbe essere la «morale» di Beckett se si ammette che egli sia una specie di predicatore d’apocalissi. Ma in realtà, sia in quest’ultimo lavoro che negli altri, Beckett dice proprio che al di là dei minuti, dei giorni, degli anni, non c’è altro e che se non c’è nesso in ciascun attimo, non ce n’è neppure alcuno nella loro somma, e viceversa. Dunque è un lamento in malafede, quello di Beckett nella vita vista «a rovescio»: come un seguito di Ma la vita comunque non è questa: la gioventù non è il vestito della comunione o le festicciole in famiglia. È il modo in cui quelle realtà banali sono state «provate», è il della gioventù, la gioventù, i miti di cui la gioventù è non i fatti fisiologici, gli aneddoti e la biografia. (XX, 4)
È possibile negare che la Storia abbia un senso qualsiasi; cioè dire che non è dato scoprire negli «eventi» in quanto tali alcuna necessità, ma unicamente la per effetto e nella trama di un infinito numero di azioni, reazioni, eventi minimi e incalcolabili che solo agli occhi di Dio è concepibile assumano ordine senso e necessità, quindi solo se si presume che si possa scoprire il segreto ultimo dell’universo e mettersi al posto di Dio.
Sì, si può dire che la Storia, il seguito degli eventi esterni, non ha senso. La Storia significa in sostanza il Tempo unico, l’idea che tutto ciò che avviene si possa riportare sotto la categoria del tempo e cioè della successione, e questo è precisamente inaccettabile solo che ci si pensi: gli «eventi» non sono fatti materiali, oggettivi, misurabili, ma hanno qualità, quindi ci sono tanti «tempi» quante sono le «specie» degli eventi e un Tempo unico, un’unica serie temporale nella quale vengono a situarsi tutte le specie di eventi in ordine di semplice successione o simultaneità, può darsi che esista, ma non è il nostro tempo, noi non possiamo concepirlo. Se un tal Tempo esistesse, se tutti gli eventi potessero prendere naturalmente posto in una medesima e unica cronologia, allora questa successione infinita indeterminata e traslucida non avrebbe letteralmente senso alcuno.
In questo senso, dunque, si può dire che la Storia non ha senso. Ma per dire questo, è chiaro, bisogna poi ritrovare un senso di ciò che accade sul piano del «divino». Dal riconoscimento del «divino» cioè, in fin dei conti, di una lotta fra bene e male, luce e tenebra, che rischia continuamente di diventare rigida, inumana e disperante, non discende alcuna logica provvidenziale ma solo l’asserzione di «assoluti» (bene-male, giusto-ingiusto, bello-brutto) dal punto di vista dell’uomo, veri perché sperimentati veramente nel contesto quotidiano, necessari all’esistenza, «buoni». Ed è da questi punti fermi mantenuti perché necessari all’equilibrio umano («veri») che scaturisce la sanzione divina, l’assolutezza e eternità di ciò senza di cui l’esistenza umana si degrada nel nonsenso. Contrariamente a ciò che avviene nella storiografia, questo «assoluto» non è mai generale, sempre personale.
D’altra parte, l’idea che negli eventi esterni non si può ritrovare ordine né ragione finisce nell’altra per cui la cosiddetta «realtà» appar...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. Prefazione | Vittorio Giacopini
  3. Il tempo della malafede
  4. La situazione di massa e i valori nobili
  5. Il socialismo “scientifico”
  6. IL GESUITA
  7. Che cosa rimane
  8. Lettera a Caffi
  9. Violenza e non violenza
  10. Tra silenzio e parole
  11. Il realista e l’utopista