Il commento
Enzo Neppi
Una storia di nóstos e anagnórisis:Una lapide in via Mazzini di Giorgio Bassani
Una lapide in via Mazzini, novella pubblicata una prima volta su «Botteghe Oscure» nel 1952 e poi confluita attraverso varie revisioni nel Romanzo di Ferrara, combina motivi presenti nella letteratura occidentale sin dalle sue origini greche.
In primo luogo vi figura il motivo del nóstos, il ritorno in patria dopo una lunga assenza, motivo che, come noto, è al centro degli ultimi libri dell’Odissea e di numerose tragedie attiche; e che riaffiora poi spesso nel corso di tutta la letteratura occidentale, dal romanzo greco ai giorni nostri.
In secondo luogo, incontriamo nella Lapide il motivo dell’anagnórisis, rappresentato in genere icasticamente dalla scena in cui due persone s’incontrano e si «riconoscono» dopo una lunga separazione. Il caso più comune di anagnórisis è quello in cui un reduce viene drammaticamente riconosciuto dai suoi compatrioti dopo un tempo iniziale in cui la sua vera identità è rimasta celata: anche qui l’esempio più classico è quello di Odisseo che ritorna a Itaca; tuttavia, come dimostrano non solo la scena di Genesi in cui Giuseppe rivela la propria identità al padre e ai fratelli, ma anche il Filottete di Sofocle o l’Ifigenia in Tauride di Euripide, Calliroe di Caritone e tante altre opere più recenti, l’agnizione può anche avvenire in una terra straniera che i protagonisti hanno raggiunto per vie diverse: e in tal caso si avrà anagnórisis ma senza nóstos.
Nella Lapide troviamo inoltre il motivo della katábasis, della discesa agli inferi, di cui l’esempio classico più famoso è probabilmente quello di Orfeo. Nel caso appunto di Orfeo, ma anche in quello di Persefone, Teseo, Eracle o Enea, il soggiorno nell’Ade ci è presentato come “reale”, in altri è invece solo simbolico o metaforico. Ma che, almeno metaforicamente, il motivo affiori frequentemente nelle storie di nóstos e anagnórisis, non può sorprenderci: chi torna in patria dopo una lunga assenza, quando lo davano ormai tutti per morto, dopo avere magari patito sofferenze inaudite, rischiato più volte la morte e perso la speranza del ritorno, come potrà non paragonarsi (o essere paragonato) a un redivivo, a un fantasma, a uno che ritorna miracolosamente alla vita dopo essere stato nella casa dei morti? Proverà per esempio quest’impressione chi è scampato a un terremoto o a un naufragio, e ritrova persone care che credeva perite nella stessa catastrofe: così per esempio in due pièce shakespeariane, The Tempest e The twelfth Night. In questi svariati testi si esprime un irriducibile desiderio: quello di ritrovare le persone amate che si credevano perdute per sempre. Ma inversamente, in altre opere, non meno numerose, come la stessa Odissea o Il conte di Montecristo, ma anche Macbeth, affiora la possibilità che tornino a vendicarsi i nemici di cui uno credeva di essersi sbarazzato per sempre. Anche molte storie di spettri e fantasmi sono infatti, almeno potenzialmente, storie di nóstos, katábasis e anagnórisis.
Nella Lapide assistiamo infine a una peripéteia, cioè a quel momento dell’azione – spesso in stretto rapporto con l’anagnórisis – definito da Aristotele come un «mutamento [metabolé] che si produce nel senso contrario alle vicende in corso» (Poetica, 1452a21-22). Così, per esempio, il mutuo riconoscimento di Oreste ed Elettra ad Argo prelude a un cambiamento di situazione che è felice per il fratello e per la sorella, infelice per Clitennestra ed Egisto. In modo ancor più pregnante, nell’Edipo re l’anagnórisis è un passaggio da ignoranza a conoscenza che spinge l’eroe ad accecarsi e Giocasta a suicidarsi. Secondo Aristotele, la scena del riconoscimento è particolarmente efficace quando, come appunto avviene nell’Edipo sofocleo, deriva dall’azione e coincide con la peripezia, ne è cioè la causa (Poetica, 1452a33-b2).
Le quattro figure del nóstos, dell’anagnórisis, della katábasis e della peripéteia non sono dunque sempre simultaneamente presenti. Tuttavia, una sorta di legge di gravitazione universale della narratologia fa sì che la presenza di una delle quattro basti molto spesso per attirare anche le altre tre. E infatti, come ora vedremo, in Una lapide in via Mazzini sono davvero tutte presenti.
L’azione della Lapide si concentra sul momento del ritorno di Geo Josz a Ferrara, nell’agosto del 1945, e sui tre anni che seguono, fino alla sua improvvisa scomparsa, dopo le elezioni del 18 aprile del ’48. Gli antecedenti del suo ritorno – le leggi razziali, e poi il suo arresto e la sua deportazione a Buchenwald nell’autunno del 1943 – non sono raccontati nella novella, se non per brevissimi cenni. E solo in L52 due corte analessi (poi, in due tempi, a loro volta soppresse) ci danno un’idea di cosa potessero aver provato Geo e altri ragazzi della sua età allorché furono colpiti dalle leggi razziali. Malgrado la loro brevità, si tratta di due scene essenziali.
La prima è cruciale per il tema dell’anagnórisis in quanto si riferisce proprio ai tentativi fatti dai ferraresi di dare un nome e un’identità a «quell’uomo d’età indifinibile» che è improvvisamente apparso in città nell’estate del ’45. Deve trattarsi – dice la voce narrante, riepilogando il pensiero dei suoi concittadini – di «uno di quei ragazzi appartati [...] che dopo aver troncato forzatamente ogni rapporto di studio con gli ex compagni di scuola fino dal ’38 e avere smesso, per conseguenza, di frequentarne le case [...] non si erano più visti in giro che di rado, ed erano venuti su con certe facce strane, tra impaurite, selvatiche e sdegnose [...] chine sul manubrio di una bicicletta trascorrente velocissima». Il riconoscimento di Geo, nel ’45, è dunque reso più difficile dal fatto che già fra il ’38 e il ’43 gli ebrei erano stati emarginati dalla vita cittadina.
La seconda analessi figura più avanti, come una breve digressione nella narrazione dell’«incontro» di Geo con le schiere di belle ragazze che hanno ricominciato a sfilare in bicicletta per via Mazzini, nel maggio del ’46. Il narratore si chiede se alcune di queste ragazze possano avere «ricordi più antichi della guerra» e possano perciò «rammentare [...] il “ciao” furtivo, disperato, che Geo Josz – allora un magro sedicenne perpetuamente in bicicletta – aveva sussurrato, superandola in corsa, ad una delle loro sorelle maggiori, nell’estate del ’38 o del ’39». Con queste parole, la voce narrante di L52 – che opta a sua volta per uno stile furtivo, come il «ciao» di Geo alla ragazza – inserisce nel testo una potenziale e forse unilaterale storia d’amore, che le leggi razziali dovevano avere subito soffocato, e che nel ’46 non può rinnovarsi: da allora sono infatti trascorsi otto anni, nell’intervallo la ragazza che Geo aveva timidamente desiderato si sarà magari sposata, sarà diventata madre, ed è quindi ormai troppo tardi perché possa riallacciarsi il legame di allora; quanto alla sorella minore, che avrà ora 15 o 16 anni, è certo troppo giovane per amare o essere amata da Geo, e anche solo per «riconoscerlo», cioè per rammentarsi che era stato un compagno di scuola e un amico della sorella.
Per lo stesso motivo, cioè per il fatto che si concentra sul momento del suo ritorno a Ferrara, la Lapide ci fornisce anche pochissime informazioni sulla deportazione di Geo e sul suo soggiorno a Buchenwald, nella casa dei morti. Tutte quelle che giungono a noi lettori derivano da ciò che egli racconta ai suoi concittadini dopo il suo ...