1.Il racconto della resa
di Pierfrancesco Majorino
I cartelli dicono che “andrà tutto bene”.
Fanno la loro apparizione nelle ultime giornate di febbraio e prendono il largo nei primi giorni di marzo. Spesso sono accompagnati dall’arcobaleno.
Le mani da cui nascono sono, solitamente, mani piccole, quelle delle bambine e dei bambini. Sui marciapiedi di tante città del nord quel desiderio positivo di futuro appare disegnato dai colori pastello.
Una classe coinvolta dai primi tentativi di didattica a distanza esibisce in rete la medesima scritta riportata in tutte le lingue possibili e immaginabili.
C’è chi dichiara di volerselo tatuare, quello slogan, presto, il giorno in cui, si spera di lì a poco, i tatuatori saranno nuovamente al lavoro.
Quando poi le restrizioni diventano più severe e le persone iniziano a conoscere quelle misure – la chiusura in casa, il ricorso alle mascherine – tragicamente presentate anche per via istituzionale come “distanziamento sociale”, arrivano pure i canti dai balconi.
È la prima risposta popolare, emotiva, a tratti perfino allegra, di grande parte della cittadinanza.
Certo non si vede nulla di tutto ciò nei luoghi dei focolai, dove l’allarme fagocita da subito la quotidianità e i lutti divorano le famiglie, ma certamente si scorge ovunque l’esibizione di questo tentativo, questo desiderio, che alla fine sia “solo” una questione di poche settimane.
Ed è proprio “questa illusione” mi spiega Miriam, attraverso un lungo messaggio scritto rabbiosamente, “la cosa che mi ha distrutto di più”.
L’illusione, in fondo in fondo, che si trattasse di un incidente di percorso.
Di un tema da “cinesi”. Al massimo di un dramma conosciuto a Codogno, o in qualche comune dal nome praticamente mai sentito prima.
Come quando giunge la scossa del terremoto nel paesello, magari produce preoccupazione tra mille anime, ci sono le persone in strada, i servizi dei telegiornali con le immagini dello storico campanile segnato dalla crepa e la mano del vecchio puntata nella giusta direzione che lo indica.
E quindi si diffonde tra i più accorti lo sgomento e tra molti si socializza un sentimento solidale verso una comunità colpita.
E magari si cominciano a contare i deceduti, e ci si commuove pure, pensando a “loro”. Osservandoli da lontano.
“Loro”, così distanti.
E poi tutto torna alla normalità.
Ma non è vero niente e questa volta non è così.
Miriam me lo vuole comunicare con ferocia. Non sopporta nulla dei discorsi dei “politici”. Di quelli dei rappresentanti delle istituzioni.
Non vuole nemmeno distinguere. Non le interessa la valutazione delle responsabilità. In lei risuona quell’insopportabile e comprensibile adagio “siete tutti uguali” che accompagna tanti ragionamenti su come funzionino le cose nel Paese e nel mondo in quest’epoca così bulimica.
Desiderosa di cancellare tanto, di non soffermarsi, di generalizzare.
Ha venticinque anni, Miriam. Fa l’interprete. Collaborazioni occasionali, traduzioni veloci, nella Milano che vuole ripartire ogni giorno nonostante tutto.
Un lavoro bello e di colpo, per lei, divenuto inaspettatamente fragile.
“Ci avete illusi ma non è come dicevate voi”.
E in quel “voi” ci siamo dentro in molti.
C’è perfino suo padre, con cui se l’è sempre presa.
“Litighiamo spesso. Lui del Milan, io dell’Inter”.
Me lo immagino come un signore pacato, duro, autorevole. Sulla sessantina. Una vita concentrata sul lavoro. La sua azienda. Gli imballaggi.
E me li vedo, lui, lei, litigare.
Discutere.
Anche nelle ore del messaggio che mi arriva.
È il 30 di marzo. Le cose non stanno procedendo come avevano lasciato intendere i cartelli di alcune settimane prima, quei cartelli spesso rimasti appiccicati a qualche porta e che, giorno dopo giorno, perdono colore.
E non è solo una questione di “cinesi”. Anzi, quel che fa imbestialire Miriam, che abita oltre il Cimitero Monumentale, è che nel vicino quartiere di Sarpi-Canonica, la storica zona cinese di Milano, “sembra proprio che va tutto a meraviglia. Ma Cristo come è possibile. Cosa c’è dietro!”.
Perché Miriam non crede più a nessuno e litiga con suo padre.
Lui è fiducioso, lei no.
La sua calma placida e la sua forza la fanno infuriare.
“Mi incazzo sempre con lui”.
Anche in quei giorni, quando tra le pareti del loro appartamento, un appartamento che mi immagino assolutamente nella norma di uno spicchio di città ferita, l’ansia aumenta attimo dopo attimo.
“Chiamiamo il call center, il medico, nessuno ci dice niente”.
Attimo dopo attimo la febbre del padre, la tosse, la fatica di respirare, aumentano.
Di messaggi del genere ne sono circolati centinaia, migliaia.
Spesso scritti di notte da chi non sapendo più a che santo votarsi si è trovato a lanciare il suo grido alla ricerca di aiuto. Di qualsiasi aiuto possibile.
Li pubblico periodicamente sui social, e ne leggo tantissimi, che rimbalzano dai racconti e testimonianze di giornalisti, blogger, opinionisti. Alcuni di loro, anche diversissimi per storie e posizione espressa su come affrontare l’emergenza, non fanno altro che favorire il tam-tam di una moltitudine disperata, che non comprende più assolutamente quale sia l’autorità da chiamare in causa, quella a cui affidarsi.
Selvaggia Lucarelli si dice, un giorno, totalmente “sommersa” dai messaggi.
Ne parlo spesso con Luca Paladini, il leader del movimento per i diritti civili “I Sentinelli”, che si trova di colpo segnato drammaticamente dalla malattia.
Lui, i suoi parenti più cari.
Mi scrive, e lo fa pure in rete, dello stupore di quella enorme massa di testimonianze che giorno dopo giorno lo raggiungono.
E se lo domanda: “Perché scrivono proprio a me”?
E, al netto dei messaggi di denuncia, come dire politica, me lo domando pure io.
Di colpo mi trovo a fare i conti con richieste di tutti i tipi.
Relative all’uso delle mascherine, alle condizioni di vita nelle case di riposo, all’uso dei tamponi.
“Ho 38.4 non sanno dirmi niente, il medico non sa come muoversi, sembra che lo ignorino. Mi dia un consiglio”.
E in fondo la realtà è questa: un tempo, in casi simili, si sarebbe detto “innanzitutto rivolgetevi al medico di base”.
Ma nelle terre lombarde la cosa non è da dare tanto per scontata.
Del resto un esponente chiave del leghismo di questi anni, quel Giancarlo Giorgetti tanto raccontato come l’uomo chiave del primo Governo Conte, la voce affidabile di un leghismo “serio”, nell’estate del 2019 afferma (come si può facilmente verificare in rete) “dal medico di base chi ci va più”.
E in quell’espressione di Giorgetti, che è quello “bravo”, che è quello della cultura di governo indispensabile, la faccia che deve accompagnare il sovranismo da comizio di Salvini per rassicurare i poteri forti, c’è proprio il racconto della resa.
La resa di un sistema che non ha fatto nulla per presentarsi pronto all’appuntamento drammatico e durissimo con un’emergenza venuta da lontano.
L’escalation
Il diario di questi mesi, anche quello qui pubblicato, realizzato in gran parte da un osservatore scrupoloso e attento come Lorenzo Zacchetti, fa impressione.
Siamo di fronte ad una vera e propria escalation.
Di fatti, notizie, annunci, errori, sottovalutazioni e pure – certamente – di orgogliosi tentativi di rispondere all’emergenza.
Un’emergenza straordinaria capace di determinare, da svariati punti di vista, il momento di difficoltà più acuto per molti Paesi, tra cui certamente il nostro, dal secondo dopoguerra a oggi.
Un’emergenza che ci ha fornito alcune immagini, d’ora in avanti tragicamente scolpite nella memoria, di un’epoca.
Ne ricordo innanzitutto tre: le mai troppo citate file di camion dell’esercito che trasportano le bare lontano da Bergamo, i segni delle mascherine capaci di scavare solchi indelebili sulla carne provata degli infermieri e dei medici, la solitudine esibita dal Pontefice – una straordinaria e vitale potenza del messaggio di Papa Francesco – mentre prega di fronte al dramma che segna il destino di tante e di tanti.
Un’emergenza sanitaria a cui sta seguendo lo tsunami economico e sociale di cui percepiamo solo i primi segnali in queste settimane nelle quali scriviamo.
Quelle a cavallo tra la condizione di allarme che ha determinato la cosiddetta “fase 1”, la fase del distanziamento, della ricerca dei dispositivi di protezione, degli elenchi dei morti senza nome, e una necessità di ripartenza, ricostruzione – e ancora prima forse un autentico sentimento di libertà – che provocano e invocano la “fase 2”.
E mentre tutto questo accade – quando, in una so...