I film da vedere a vent'anni
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I film da vedere a vent'anni

Una filmografia selettiva

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Una guida per conoscere la storia del cinema attraverso i suoi classici: le opere più significative dalla sua origine a oggi, i grandi film e i grandi, senza dimenticare i problemi che l'umanità ha dovuto affrontare dalla sua invenzione a oggi. Non ci si accontenta di una puntuale perlustrazione estetica, si guarda al cinema anche dal punto di vista dei grandi dilemmi civili e morali. L'evoluzione tecnica permette oggi di recuperare e godere i film di ieri e quelli più vicini a noi attraverso dvd e internet, festival e rassegne, ed è dunque possibile realizzare un sogno lontano: quello di una filmoteca pubblica o privata per titoli essenziali, allo stesso modo in cui lo si fa da sempre con i libri. Il critico Gianni Volpi, recentemente scomparso, ha scelto e "spiegato" con ammirevole chiarezza gli autori e le opere, mentre Livio Marchese propone una carrellata sui temi più rilevanti tra quelli che il cinema ha affrontato, utili a capire il nostro passato e il nostro presente. Introduzione di Pietro Mereghetti.

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Informazioni

I film da vedere a vent’anni di Gianni Volpi

Il viaggio nella Luna (Le voyage dans la Lune) e Il viaggio attraverso l’impossibile (Le voyage à travers l’impossible) di e con Georges Méliès, Francia, 1902 e 1904

Jules Verne (Dalla Terra alla Luna) e H. G. Wells (First Men in the Moon) mescolati fino a ottenere un prodotto nuovo che inaugura il cinema di fanta-scienza; una Luna immaginaria “creata” con scenografie originali dipinte a mano a trompe l’oeil, negli studi di Montreuil-sous-Bois; giocolieri e danzatrici trasformati nel popolo dei Seleniti, simili a giganteschi insetti: tutto questo è Il viaggio nella Luna, tutto questo è Méliès, proposta di uno “spazio fantastico assoluto”, lavoro sull’immagine e la sua percezione. Corpo ludico che gioca con lo spettatore, regista “prestidigitatore” (sparizioni, tras-formismi a fermo macchina, in ripresa, non in post-produzione), in Il viaggio attraverso l’impossibile egli ci fa raggiungere il sole a bordo di un Automa-bouloff, che è treno, automobile, dirigibile, sottomarino, tutti mezzi figli del-la modernità come il cinema. Anzi, il mezzo che solca aria terra e acqua, che attraversa il tempo, altri non è che il cinema in forma di féerie onirica di un’innocenza non si sa se più naïf o sperimentale. L’illusionismo ancora teatrale, da estetica belle epoque, s’in-treccia con la magia cinematografica. In Méliès il primitivismo si apre a cose impensabili, viaggi fantastici, avventure surreali. Tali sono questi due cori (trenta diversi quadri in 15’, il primo; 24’ di sogno, l’altro) che restano fra gli esempi più famosi degli oltre 500 film che girò prima del 1912. Méliès “ha dato fuoco alle polveri cinematografiche”, scriveva nel ’49 Flaiano su Il mondo. Ancor più ha incarnato agli occhi di tanti teorici l’altro polo dialetti-co di un’opposizione che non ha mai avuto corso, eppure fissata come fonda-zione della Legge: Méliès vs. Lumière, la finzione contro la realtà.

Intolerance (id.) di David Wark Griffith, con Mae Marsh, Robert Harron, Lillian Gish, Usa, 1916

Nascita di una nazione ha portato a Griffith fama, denaro, e attacchi per la cultura razzista cui rendeva omaggio. Per tutta risposta il cineasta, facendo tesoro della lezione dei kolossal storico-mitologici italiani, gira con enorme dispendio di mezzi Intolerance. La sceneggiatura è originale e scritta insie-me a Tod Browning. Quattro epoche, quattro luoghi, quattro storie legate dal tema dell’intolleranza, in una sorta di “sinfonia in quattro movimenti”, ogni movimento un suo stile. In realtà, la Passione di Cristo funziona semplice-mente da riferimento irenico agli altri tre episodi: la caduta dell’antica Babi-lonia (il più impressionante per architettura e visionarietà); la Notte di San Bartolomeo ovvero la strage degli ugonotti che dà inizio alle guerre di reli-gione nella Francia del ‘500; infine, il caso di un operaio americano, impiccato dopo uno sciopero, vittima di una giustizia classista. Episodi via via più frammentati, sino quasi ad unificarsi nella percezione dello spettatore, ancor più legati nella ricorrente allegoria della madre e della culla, vera origine a cui tornare, vera essenza della vita che prevale sulla morte. In un finale, appunto alla Griffith, i “quattro corsi d’acqua, dopo un lungo e autonomo corso, si uniscono in un solo, possente fiume di commozione”. Come in un unico grande affresco. Film ricco di idee, a volte osando l’inosabile, film di scandaloso sperimentalismo e, ad un tempo, superspettacolo di durata estrema (in origine 208’, ma già dagli anni Venti a più riprese tagliato dallo stesso Griffith), Intolerance ha il torto di uscire nel momento sbagliato, alla vigilia dell’entrata degli USA nella Grande Guerra.

La donna di Parigi (A Woman of Paris) di Charlie Chaplin, con Edna Purviance, Adolphe Menjou, Carl Miller, Usa, 1923

Nel ‘22 la “cercatrice d’oro” Peggy Hopkins Joyce, specializzata nello spo-sare milionari da cui divorziare per incassare ingenti alimenti, è a Hollywood e in una visita agli studios incontra Chaplin. Ne nasce un “breve incontro” di poche settimane che lascia, però, a Chaplin l’idea per il suo primo film total-mente drammatico. La donna di Parigi è anche il primo film in cui egli non recita (se non in un cameo). Chaplin cerca la profondità del romanzo. Fi-nezza di analisi, di allusioni, di disvelamenti indiretti (un faux col che cade da un cassetto, svela una tresca). Ancor più innovativa è la recitazione, a le-vare - “pensata”, diceva Menjou - non a grandi gesti. Il metodo di lavoro di Chaplin è sempre quello, costoso e lungo (sette mesi), delle riprese nell’ordi-ne del racconto, a partire da una sceneggiatura di massima. Lo sfortunato a-more tra Marie e Jean si dipana tra il villaggio natio e Parigi. Lui è troppo le-gato alle vecchie abitudini (la vita con la madre, la provincia), lei non sa ri-nunciare al lusso di una vita da mantenuta. Lui si suicida, lei si occuperà di orfani, aiutata da un suo intelligente quanto immorale seduttore. Amara riflessione sull’amore, il film cesella due caratteri originali, tragici nella loro intima debolezza. Registi come Lubitsch e Clair restano impressionati da una freddezza di sguardo, capace di giudizio e di distanza di fronte a complessi stati d’animo. Ma un film di Charlot senza Charlot è troppo per il pubblico, per di più spiazzato da un’insolita libertà di visione morale, che lo rifiuta.

Rapacità (Greed) di Erich von Stroheim, con Zasu Pitts, Gibson Gowland, Jean Hersholt, Usa, 1925

È famoso l’epitaffio lapidario con cui Stroheim liquidò il film della sua car-riera di regista: “Credo di aver fatto un solo film nella mia vita e nessuno l’ha visto. I suoi poveri resti, mutilati, furono proiettati col titolo di Greed”. Tra-sposizione di un gran romanzo naturalista di Frank Norris (Una storia di San Francisco), nove mesi di riprese in condizioni durissime nei luoghi indicati dal libro (in gran parte, il deserto), alla fine il film uscì in 12 rulli, invece dei 42 e poi dei 24 che Stroheim aveva montato. L’ambizione era al racconto della più profonda natura dell’uomo, governato da feroci istinti primari che si scatenano non appena entrano in scena denaro e sesso. Il dentista (senza li-cenza) McTeague si innamora di Trina, la fidanzata dell’amico Marcus, e riesce a sposarla. Una grossa vincita alla lotteria da parte della donna inne-sca, però, avarizia, follia, assassinio. Passano gli anni e McTeague, ormai alcolizzato, uccide Trina portandole via l’oro. Raggiunto da Marcus nel de-serto della Death Valley, lo uccide ma muore di sete, incatenato al cadavere dell’ex-amico. L’oro viene disperso dal vento. Inseguendo un suo naturali-smo visionario, Stroheim - che voleva “colorizzare” ogni oggetto dorato, in un’allusione continua al tarlo dell’avidità - fa, secondo Deleuze, una sorta di nietzschiana “diagnosi della civilizzazione”. E dei suoi segni e feticci: estre-mi, impressivi, perversi. Il pessimismo sadiano di Stroheim ha radici abissali.

Aurora (Sunrise) di Friedrich Wilhelm Murnau, con Gorge O’Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston, Usa, 1927

Per il suo primo film negli Stati Uniti, Murnau ricrea negli studi Fox una città che vive e mai è décor, e lì cala questa “canzone di due esseri umani” (così recita il sottotitolo originale: i personaggi sono così comuni da non avere nomi propri). Il registro di Aurora è quello di una quotidianità “messa in parabola”. L’Uomo, ingenuo campagnolo, e la Moglie si amano, ma si allontanano per la presenza della Ragazza di città, nera come il sesso. La cit-tà è caos - luci, folla e follia, gigantesco luna park, irrealtà, frenesia; ma città e campagna sono entrambi luoghi in cui perdersi. Il Destino è opera dell’ Uomo, e rappresenta un suo spazio di ricerca e di libertà alle cui svolte, in un respiro quasi cosmico, partecipano gli elementi naturali, magari in forma di terribilità. Come nella sequenza-chiave, di (auto)punizione e salvezza, sul lago in tempesta. Alla fine, a prevalere nei due giovani sposi è un bisogno di radici e normalità. Che Murnau ha sempre vissuto come nostalgia e impossi-bilità per sé. Aurora da subito fa sensazione per una messa in forma che bru-cia i retaggi tedeschi (il vecchio sodale Carl Mayer ha tratto il soggetto da una novella di Sudermann) in un’inedita libertà dalla prigionia del quadro. Emozione del gioco delle forme nello spazio che va oltre la stessa bellezza di composizione, movimenti e luci che si originano, diranno Rohmer e Cha-brol. La cinepresa di Murnau orchestra una sorta di partitura visiva in cui da-to reale e dato simbolico, immagini e idee si saldano e si fanno sguardo oni-ricamente vero, uno sguardo che ha affascinato intere generazioni di cineasti.

La folla (The Crowd) di King Vidor, con James Murray, Eleanor Boardman, Bert Roach, Usa, 1928

“Ho scoperto, anni dopo la realizzazione, che La folla, La grande parata, Allelujah, Nostro pane quotidiano avevano una cosa in comune: avevano tutti a che fare con una classe, concernevano una folla e non un solo indivi-duo”, osservava Vidor in una tarda intervista. La folla resta il suo capolavo-ro. La sua grande forza stilistica è fatta di recitazione nervosa, moderna, inti-ma, di forte impatto visivo di décors di studio e ancor più di ambienti ripresi dal vero (le strade, il bus, il luna park, il grattacielo-ufficio), di virtuosismi di carrelli e gru ispirati a Varieté di Dupont, di atmosfere urbane da Aurora di Murnau, l’una e l’altra influenze confessate; alla base, una sceneggiatura ori-ginale. Il protagonista, Johnny Sims, è nato il 4 luglio 1900, ideale figlio del secolo e dell’America (è l’anniversario dell’indipendenza), ma la sua realtà è quella di un modesto impiegato a New York. Johnny è l’americano medio, un uomo massa, un uomo della folla solitaria. Solo anche nel dolore (l’agonia della figlioletta) o nell’umiliazione (il licenziamento). Una solitudine che geometria e simmetria delle forme sottolineano in un’esplicita ripetizione dell’uguale (il “doppelganger delle scrivanie tutte uguali”, ecc.). Il lieto fine non esclude un colpo di coda: Johnny, la moglie e il figlio stanno godendosi uno spettacolo di varietà, ridono rilassati, quando la cinepresa allarga l’inquadratura, a mostrare un tea...

Indice dei contenuti

  1. Questo libro
  2. Introduzione di Paolo Mereghetti
  3. Ricordo di Gianni Volpi | Goffredo Fofi
  4. I film da vedere a vent’anni di Gianni Volpi
  5. Temi e generi di Livio Marchese