Passi falsi
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«Non aver niente da esprimere dev'esser preso nel senso più semplice. Qualunque cosa lo scrittore voglia dire è niente. Il mondo, le cose, il sapere non sono per lui se non dei punti di riferimento attraverso il vuoto. E lui stesso è già ridotto a niente. Il nulla è la sua materia. Respinge le forme attraverso cui questa gli si offre come se fosse qualcosa. Vuole coglierla non in un'allusione, ma nella sua propria verità.»Prima raccolta di saggi di Maurice Blanchot, Passi falsi è uno snodo imprescindibile nello sviluppo del pensiero del critico francese. A fondamento di questo corpo di brevi analisi monografiche è l'indagine, letteraria e filosofica, sull'atto dello scrivere. Blanchot riflette sulla necessità di una transizione dai paradossi dell'angoscia a quelli del linguaggio. Lo fa senza mai disattendere le tensioni affettive che si fissano alle espressioni linguistiche, sottolineando però che il pathos dell'angoscia è, in ultima istanza, grottesco. «Uno scrittore che scrive: "Sono solo", o come Rimbaud: "Sono veramente d'oltretomba", può venir giudicato quasi grottesco» dichiara Blanchot, poiché «è grottesco prender coscienza della propria solitudine rivolgendosi a un lettore, e con mezzi che impediscono all'uomo di essere solo». Nell'indagine di Blanchot queste contraddizioni del linguaggio rivelano una carenza, un'assenza costitutiva, una totalità connotata dal segno meno, un vuoto centrale che rappresenta nel contempo l'irraggiungibile luogo d'origine della letteratura.Con Blanchot la linea di demarcazione fra opera critica e opera autoriale, tra critico e scrittore, si dissolve; protagonista assoluto è il linguaggio, esplorato nei saggi sulla poesia e sulla narrazione, sul silenzio e sul simbolismo, sul romanzo e sulla morale, sullo straniero, sull'enigma, sul tempo e sulla possibilità stessa della letteratura in Blake, Balzac, Rimbaud, Gide, Bergson, Rilke, Bataille, Sartre, Camus, Queneau e altri ancora.Frutto di una delle menti più fini della critica novecentesca, Passi falsi ci rammenta che il segreto della letteratura non è stato tradito: la fascinazione continua

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788865768211

Dall’angoscia al linguaggio

1. Il Diario di Kierkegaard

Il Diario di Kierkegaard, come tutta la sua opera, è dominato dalle due figure sempre presenti nella meditazione di questo spirito straordinario, quella di suo padre, vegliardo profondamente religioso perseguitato dal ricordo di una duplice colpa, e quella della sua fidanzata, Regina Olsen, con la quale ruppe misteriosamente dopo un anno di fidanzamento. Intorno a queste due immagini il suo pensiero non smette mai di cercarsi, e ne ricava un mondo, replica tragica del vero universo inintelligibile.
Il Diario in cui si ritrovano, in un succedersi perfettamente naturale, non soltanto le sue riflessioni teoriche o temi di articoli e di opere, ma i suoi pensieri più intimi, le parole che era il solo a sentire, quello strano sguardo con il quale si vedeva nel suo completo enigma, miscuglio di una ricchezza infinita (l’edizione completa dei Papiers pubblicata a Copenaghen comprenderà una ventina di volumi), combinazione profondamente unitaria e apparentemente fortuita di filosofia, di teologia, di poesia, di confidenze, di fantasticherie, di invenzioni dialettiche, in cui ciò che pensa di più astratto appare come fuso con la sua persona, in cui l’idea, lungi dal subire i casi della vita, vi trova la propria essenza e le proprie condizioni e in cui gli avvenimenti dell’esistenza meno ricca di sconvolgimenti esteriori si prolungano in sviluppi interiori di una straordinaria fecondità, il Diario, grazie a tale varietà essenziale, è lo specchio di tutta l’opera di Kierkegaard e addirittura il suo simbolo, se è vero che ciò che è alla base di tutta la sua meditazione, è la ricerca di un’idea che fosse al tempo stesso esistenza, di un’idea che, verità per lui, desse un senso a tutto ciò che era e che faceva. Il Diario, che non è un diario intimo come quello di Amiel, giacché le riflessioni sulla propria vita non vi sono predominanti e raramente si scompongono in annotazioni psicologiche, è tuttavia la testimonianza più vicina al centro focale di uno spirito che si possa concepire. Si ha l’illusione di scoprirvi l’itinerario ideale che permetterebbe d’osservare un pensiero precedendolo.
Per i suoi contatti con tutta l’opera di Kierkegaard, il Diario pone innumerevoli problemi che non è il caso di prendere in esame in questa sede. Ma ve n’è uno che egli mette in valore e di cui si discernono alcuni elementi: è il problema della comunicazione. Tale problema assume in lui un significato particolare. Vi si trova una prima espressione di quel paradosso che fa sì che le sue opere, il suo pensiero, siano tutte formate da peripezie autobiografiche e sembrino destinate a rivelare la sua vita e, al tempo stesso, che tale vita svelata continuamente in maniera indiretta in quegli scritti che la manifestano sotto la forma dei più alti problemi, appaia essenzialmente come non rivelabile nella sua verità e nel suo dramma profondo. Continuando in una certa misura a parlare di sé e a riflettere sugli avvenimenti della sua esistenza, Kierkegaard si propone come regola di non dirne niente d’importante e fonda la sua grandezza sulla salvaguardia del segreto. Si spiega e si vela. Si mostra e si protegge. Si scopre, ma è solo per mettere gli spiriti che attrae, con una vera opera di seduzione, in contatto con la sostanza delle sue tenebre e per rifiutar loro ciò che spiegherebbe tutto.
Si sa che il tema del segreto è essenziale nella vita e nell’opera di Kierkegaard. I rapporti che l’univano al padre, i rapporti che l’univano alla fidanzata fin nella rottura che la separò da lei restano avvolti nel mistero. Ma al di là, un mistero ancor più serio si lascia intravedere, non inconoscibile per la sua profondità o oscuro per l’ignoranza assoluta sotto cui l’avrebbe sepolto, ma nascosto in un’ambiguità evidente che permette di parlarne molto e di non saperne niente. Lui stesso ha voluto tale enigma: «Dopo di me» scrive nel Diario «non si troverà nei miei Papiers (e questa è la mia consolazione) un solo chiarimento su ciò che in fondo ha riempito la mia vita; non si troverà nel più profondo di me stesso quel testo che spiega tutto e che spesso, di ciò che il mondo considererebbe inezie, fa degli avvenimenti di straordinaria importanza per me…». Scrive altresì: «Di ciò che costituisce in modo totale ed essenziale, nel modo più intimo la mia esistenza, non posso parlare». E circa alla stessa data afferma, come se il segreto non fosse ciò che si conserva, ma il fatto di conservarlo, come se conservare qualcosa per sé significasse conservarsi tutto intero: «Tutti coloro che sanno tacere diventano figli degli dei: è tacendo che nasce la coscienza della nostra origine divina. I chiacchieroni non saranno mai altro che uomini. Ma quanti sanno tacere! – quanti intuiscono soltanto ciò che significa tacere».
Si può tentare d’interpretare un certo numero dei suoi atti e delle sue maniere di essere, vedendovi uno degli aspetti del problema della comunicazione, di quella necessità in cui si trovava di rompere il silenzio e tuttavia di preservare la parte riposta di se stesso, di salvaguardare a ogni costo i suoi segreti e d’essere sincero sino in fondo. Perché rompe il fidanzamento? Perché la comunicazione abituale, attraverso il matrimonio, non è stata possibile? A causa del segreto, perché tale comunicazione minacciava il tesoro della solitudine. «Se mi fossi dovuto spiegare» scrive nel Diario «avrei dovuto iniziarla a cose spaventose.» Con la rottura invece, mettendo tra sé e la fidanzata una distanza invalicabile, immagine della trascendenza, tende a stabilire rapporti essenziali. Non soltanto continua a rivolgersi a lei nei libri che le sono indirettamente dedicati, ma con quei libri stessi che sono un tentativo sia di spiegarsi a lei, sia di confondere la spiegazione, egli le propone la via in fondo alla quale le avrà detto tutto senza rivelarle niente. Se i suoi scritti falsano l’uomo che veramente è trasformandolo in un seduttore infedele, ma se lasciano anche apparire le ragioni profondamente religiose che l’hanno indotto alla rottura, è perché la sua fidanzata possa superare l’ambiguità e, pur nel segreto non svelato, comunichi con lui. Vi è comunicazione solo se ciò che è detto appare come il segno di ciò che deve essere nascosto. La rivelazione è tutta quanta nell’impossibilità di una rivelazione.
La teoria dell’incognito, le ragioni che l’hanno portato a pubblicare i suoi libri soltanto sotto uno pseudonimo, il bisogno di far parlare sotto un nome diverso dal suo tutti i personaggi che erano in lui o dietro i quali si nascondeva, sono altrettanti fatti attinenti al problema della comunicazione. Egli ha sempre sentito la necessità di affermare che i suoi scritti non l’esprimevano interamente. «L’incognito è il mio elemento» dichiara «e anche in questo consiste la stimolante incommensurabilità in cui mi posso muovere.» Si applica a sconfessare anche il suo Diario come testimonianza veridica. «Sicuramente si è spesso introdotta una parte d’immaginario nelle note che mi riguardano personalmente nei Diari 1848 e 1849. Per un uomo poeticamente produttivo come sono io, non è facile evitarlo. Sgorga da me, non appena prendo la penna in mano.» L’anima della sua dialettica, del suo metodo d’espressione indiretta, dev’esser altresì ricercata nella sua credenza che non vi è comunicazione diretta possibile. «L’imperfezione di tutto ciò che è umano» dice «è che il desiderio non raggiunga mai il suo oggetto se non attraverso il suo contrario.» Ma si può anche dire che non si esprime autenticamente qualcosa se non rivelandola in un’oscillazione equivoca che lasci vedere non il positivo, ma il negativo, e che cancelli continuamente la comunicazione nello stesso momento in cui l’arricchisce attraverso la diversità delle forme in cui avviene. In Kierkegaard tutto è dialettico, perché il solo modo di dire la verità senza svelarla è perseguirla come se potesse essere raggiunta in uno sforzo che non ammette né compimento, né requie.
Come poeta del religioso («Sono il riflettore poetico dell’elemento cristiano»), che non poteva divenire il testimone della verità, Kierkegaard si è scontrato con lo stesso problema della comunicazione. Non trovando in sé le forze necessarie per essere cristiano e apostolo, ha pensato che la sua vocazione, se non faceva di lui «lo straordinario», lo portava a immaginare lo straordinario. Spetta al poeta occuparsi con l’immaginazione dell’ideale religioso, invece di sforzarsi di realizzarlo nella sua esistenza. Vi è perciò, per i segreti più alti, una forma di comunicazione che è quella del poeta, forma che è indubbiamente autentica e tuttavia segnata da una degenerazione giacché è comunicazione di ciò che non si è. «Che io sia poeta» dice «è l’espressione del fatto che non m’identifico con l’ideale.» Ed è la stessa situazione che mette in luce quando scrive nel suo Diario: «Il mio destino sembra quello di esporre la verità via via che la scopro, pur danneggiando al tempo stesso tutta la mia autorità possibile». Esporre la verità, vale a dire farla conoscere sino in fondo, ma a condizione di eliminare i mezzi che la farebbero immediatamente prendere sul serio; rivelare ciò che è vero e fondare tale rivelazione unicamente su di sé, in un rapporto pieno di pericolo, in cui gli altri, davanti a questo testimone discreditato, rischiano di perdersi e non possono salvarsi se non scendendo egualmente dentro di sé per assimilare il messaggio nella loro solitudine più profonda: tale è la vocazione che si riconosce Kierkegaard, ed essa esprime il tormento dell’uomo che, chiuso in se stesso, vuole annunciare agli altri il suo segreto e non può farlo se non abolendolo.
Sappiamo che a un certo punto della sua vita Kierkegaard si è chiesto se la sua testimonianza non potesse approfondirsi e risvegliare, per vie più dirette, l’attenzione degli uomini. È l’epoca in cui pensa a un breve studio dal titolo: Un uomo ha il diritto di lasciarsi uccidere per la verità?, in cui i suoi attacchi contro il giornale Il Corsaro fanno esplodere la sua opposizione al mondo, in cui pensa di sollevare un immenso scandalo separandosi dal vescovo Mynster. Il martirio gli appare quindi come un mezzo supremo di comunicazione. «Se la società colpisce un uomo a morte» scrive «diventa attenta e riflessiva.» Gli uomini fanno parlare l’essere che perseguitano nella morte che gl’infliggono. Non è esattamente perché è capace di affrontare la morte per la sua idea o perché mostra che l’idea sopravvive alla sua morte che il perseguitato è veramente un testimone, è perché i persecutori, colpendolo, stabiliscono in lui una relazione completa d’interiorità tra l’idea e l’esistenza; si può dire che essi contribuiscono a gettare le basi di tale idea, che con tale morte le danno il suo posto nel mondo: grazie a loro, essa è. In tal senso il martirio è un modo di comunicazione con cui non è il perseguitato, ma il persecutore a voler rompere il segreto; che va a cercare la testimonianza, che sorprende la verità. Il perseguitato è un uomo silenzioso, un uomo murato e il suo silenzio d’uomo vivente è tale che quelli dell’esterno credono che il suo silenzio d’uomo morto sarà infinitamente meno grande, sarà, in confronto, una rivelazione. Il martire è un uomo che ha spinto il suo silenzio tanto lontano da restare silenzioso persino nella comunicazione. «Per questo martire pieno d’umiltà» scrive Kierkegaard, parlando di San Paolo, «semplicemente gli uomini non esistono.»
Tuttavia Kierkegaard finisce per rispondere negativamente a tale pensiero. «Se ho veramente avuto l’idea di fare questo passo: esser condannato a morte, me ne devo pentire.» Per tutta la vita è stato conteso tra l’esigenza del segreto e il bisogno di rompere tale clausura. Nel 1848 scrive: «Non sono più chiuso in me stesso, il sigillo è spezzato, bisogna che parli», ma qualche giorno dopo dice di nuovo: «No, no, il mio silenzio, il mio segreto non si lasciano rompere». Sul suo letto di morte gli viene chiesto se ha un messaggio da lasciare ai suoi amici: «No» dice, e aggiunge: «Ero l’eccezione». Non possiamo accingerci a precisare il senso che ha avuto per il suo pensiero e per la sua vita questa profonda ripugnanza alla comunicazione: contro Hegel ha vivamente affermato che c’era in ogni anima qualcosa che non poteva diventare pubblica, un mistero che la costituiva nella sua realtà tragica e che non poteva esser penetrato. Ha avuto la sensazione fortissima che il cavaliere della fede fosse l’isolamento assoluto, che non potesse parlare agli altri, che non potesse parlare a sé, e che la sua vita fosse come un libro sotto sequestro divino. E in definitiva lui che in un certo modo non aveva la fede, ha per sé la convinzione che il suo regno non fosse né il silenzio né la parola, e ha profondamente sentito che ogni spirito ha bisogno di una maschera, che nessuna comunicazione diretta è mai valida perché anche la verità dell’essere corrisponde a un’ambiguità fondamentale. Su questo silenzio che avvolge tutta la sua opera, per il quale essa si propone come enigma ed esige dagli altri che divengano enigmi a loro volta, non si può far altro che ricordare le parole di Chestov citate da Jean Wahl nei suoi eccellenti Studi kierkegaardiani: «Forse è perché Kierkegaard (come nella fiaba di Andersen) aveva nascosto il suo pisello sotto ottanta materassi, che questo crebbe e raggiunse proporzioni grandiose, non soltanto agli occhi di Kierkegaard, ma altresì agli occhi dei suoi lontani discendenti. Se l’avesse fatto vedere apertamente a tutti quanti, non l’avrebbero nemmeno guardato.»

2. Maestro Eckhart

Non è dovuto probabilmente al caso il fatto che siano apparse a due settimane d’intervallo due importanti traduzioni delle opere di Maestro Eckhart. Le ragioni di tale interesse vanno cercate nella curiosità, talvolta abbastanza rozza, che il nostro tempo prova per ogni movimento mistico e ancor più nella parentela che lega i grandi temi della mistica eckhartiana a certe tendenze del pensiero attuale. Tale somiglianza non è di per sé l’effetto di un gioco storico superficiale. Sembra che vi sia nell’esperienza del maestro turingio, quale ci appare attraverso le sue opere, una profondità che pone in maniera concreta proprio i problemi che coscientemente prendiamo in esame. Se dobbiamo diffidare delle analogie che senza cautelarci troppo troviamo tra un certo mistico e un certo poeta, oppure anche tra un movimento mistico e certe ricerche filosofiche perseguite sei secoli dopo, non c’è però ragione di trascurare dei rapporti non legati a considerazioni esteriori e avvertiti come il segno di un’autentica comunità di spirito.
Chi è Maestro Eckhart? Se per sommi capi la sua carriera ci è più o meno nota, ignoriamo invece l’essenziale della sua vera vita, giacché non sappiamo niente dell’esperienza profonda di cui le sue dottrine non sono altro che i frutti speculativi. La lettura dei suoi scritti principali rivela in maniera sicura che l’esigenza mistica domina tutto il suo pensiero, che tale pensiero testimonia un’esperienza spirituale di una pienezza e di una ricchezza infinite. Ma tale evidenza non è attestata da nessuna confidenza diretta; i testi esprimono una verità che ha potuto essere colta solo nell’intimità di una conoscenza sperimentale, ma evitano ogni allusione a tale avventura concreta. Vi sono poche opere religiose che nella vita della fede diano altrettanta importanza all’esperienza mistica, esperienza che interessa l’Io in ciò che ha di più interiore, e che al tempo stesso siano meno legate alla descrizione psicologica e storica di questo Io nella sua ascesa verso l’Unità perfetta. La prova più personale dà luogo a formulazioni da cui sono assenti l’azione e l’autorità soggettiva della persona.
Tale carattere sconfina in un altro che determina uno degli aspetti della mistica eckhartiana. Pur mettendo al di sopra di ogni esigenza l’esigenza mistica, Maestro Eckhart non accetta di rompere con i metodi speculativi. Pretende invece di servirsi delle possibilità intellettuali per rendere, e in una certa misura fondare, l’unione completa dell’anima con Dio. Mentre concepisce con un rigore che niente flette tutte le condizioni di tale deificazione, mentre elimina come altrettanti ostacoli non soltanto l’uso delle nostre facoltà finite, ma l’attaccamento a un contenuto sia pure soprarazionale della fede, mantiene sino in fondo l’esercizio della ragione nello studio di una realtà che si confonde con il nulla. Da una parte non vede l’ora che tutto ciò che sussiste sia scomparso, che il crollo della logica, della morale, di Dio – in quanto legato alle creature – abbia preparato il ritorno all’abisso, la fusione nel seno della divinità, e dall’altra non dichiara mai un’impotenza intellettuale, si serve invece arditamente della conoscenza speculativa, rifiuta di sostituire le evocazioni e le effusioni sentimentali all’uso di uno strumento razionale preciso. Non si tratta di un’inconseguenza. È anzi significativo che Eckhart, parallelamente a un’intuizione che lo porta nel cuore del non sapere, che gli fa sentire come solo degno di esser vissuto uno stato che esige la morte dell’uomo, la morte dello spirito e addirittura la morte di Dio, si attenga a un uso rigoroso del pensiero e consideri che la ragione porti in sé il proprio annullamento. Tale ambizione che pretende di unire il fluire ininterrotto del pensiero finito al concepimento di un infinito al quale non corrisponde nessuna categoria del pensiero, è il segno distintivo della dialettica.
Maurice de Gandillac nota che Maestro Eckhart è ben poco dialettico, e questo è vero nel senso in cui s’intenda per dialettico un progresso ordinato che si chiuda in un sistema. Ma da un altro punto di vista, si capisce che Bernard Groethuysen abbia potuto scrivere che togliendo al suo pensiero il carattere dialettico, gli avversari di Eckhart l’hanno immobilizzato. Giacché intorno all’esperienza d’unione la quale può soltanto denunciare il proprio fallimento, l’impostazione generale di tale pensiero, attraverso un movimento d’approfondimento che non s’arresta mai, tende a rimettere sempre in questione ciò che avanza come ipotesi, ciò che appunto le permette d’avanzare. È in questo senso che la dottrina della rinuncia è una vera contestazione concreta grazie a cui a ogni tappa dell’ascesi corrisponde un’altra tappa che la nega e la rende derisoria. L’anima deve morire a se stessa in quanto è essenza creata per trovarsi come essenza increata nell’archetipo eterno. Deve morire come essenza increata per uscire dalla molteplicità in cui si trova come il Figlio a parità col Padre ed entrare nella natura divina primitiva. Deve morire a tutte le attività divine che vengono attribuite a tale natura primitiva per arrivare all’esistenza assoluta e spoglia non soltanto di sé, ma del Figlio, ma del Padre, vale a dire di tutto ciò che è teologicamente formulabile, scoprire il Fondo, il Letto, il Ruscello, la Sorgente in cui «Dio» stesso è scomparso.
Questo movimento che trasforma ogni affermazione in una negazione che se ne arricchisce, che va al negativo attraverso il positivo e non si ferma se non nell’affermazione di una negazione assoluta non è possibile se non grazie al paradosso. Per sussistere, il pensiero di Maestro Eckhart ha bisogno delle assicurazioni appassionate del paradosso. È dialettico e paradossale: dialettico, giacché non può mai fermarsi su un’affermazione, paradossale nella misura in cui riposa su un’affermazione che si contraddice. Anche gli aspetti esterni del paradosso, vale a dire di una proposizione che rivesta l’incomprensibile, gli sono necessari. Allorché dichiara: «Se dico, Dio è buono, non è vero, io sono buono, Dio non è buono, mi spingo anche più lontano: io sono migliore di Dio», oppure: «Devi amare Dio in modo non spirituale», ovvero: «Il Dio di cui non si può dire che è bontà, saggezza, verità, non basta alla ragione più di una pietra o di un albero», o: «Se io non fossi, nemmeno Dio sarebbe», «È più necessario all’anima perdere Dio che la creatura», «Per Dio, se un uomo umile fosse all’inferno, Dio sarebbe obbligato ad andarcelo a ritrovare, e l’inferno sarebbe per lui come un regno dei cieli», non ricorre soltanto a una forma violenta perché il suo pensiero esige tale violenza, questo sì e questo no intimamente uniti, ma sceglie coscientemente la forma più grave di scandalo perché il pensiero possa riceverla soltanto in una tensione che le tolga il riposo, e la dilani e la prepari al silenzio. Maestro Eckhart sente pienamente che se ha il diritto di servirsi dell’intendimento per trascrivere un’esperienza davanti alla quale il suo pensiero si disarticola, è facendogli assumere uno dei suoi ruoli che consiste nel contraddire senza tuttavia farsi inghiottire nella contraddizione. Volentieri direbbe come Kierkegaard che il solo uso della ragione è quello di esprimere i valori della fede nel linguaggio della impossibilità, di ragionare aspramente, rigorosamente, sull’impossibile. Una formul...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Dall’angoscia al linguaggio
  3. Digressioni sulla poesia
  4. Digressioni sul romanzo
  5. Digressioni senza nesso