Post punk
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Post punk

1978-1984

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Post punk

1978-1984

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Il post punk non è un «genere» come tanti, non è la diligente coda del punk, a cavallo tra due decenni, quando la rivoluzione è finita e i giochi sono fatti; è, al contrario, la musica e il tempo in cui tutto diventa possibile. I confini cadono, i divieti sono ignorati, le regole vengono sovvertite in una sperimentazione continua, selvaggia e colta insieme. Il post punk non è retromaniaco – per usare la categoria critica che lo stesso Simon Reynolds ha creato e che si è imposta come definizione della nostra epoca – ma è il «suono» del presente e delle sue possibilità infinite. Per questo motivo, a distanza di quarant'anni, ancora appassiona e influenza. La musica degli inglesi Joy Division, P.I.L., Gang of Four e Slits, degli americani Pere Ubu, Devo, Talking Heads e di altri gruppi noti e meno noti continua a essere fonte d'ispirazione per migliaia di artisti in tutto il mondo. Con Post punk Simon Reynolds scrive il suo libro più personale e coinvolgente, mostrando l'erudizione enciclopedica, la raffinatezza d'analisi e l'abilità divulgativa che ne fanno il critico musicale più importante della nostra epoca. I suoni e le emozioni, le speranze e l'euforia escono fuori da ogni pagina e ci invitano all'ascolto amorevole di una musica e di un tempo che non può essere ripetuto ma solo reinventato.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788875219543

I
POST PUNK

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sbarra


LA MIA IMMAGINE PUBBLICA MI APPARTIENE:
JOHN LYDON E I PIL
PUBLIC IMAGE LTD

Mai avuto la sensazione che vi abbiano fregati?
L’oltraggiosa stoccata finale di Johnny Rotten al pubblico di Winterland, San Francisco, il 14 gennaio 1978, più che una domanda fu una confessione. Malgrado fosse il frontman del gruppo più famigerato del mondo, Johnny era stufo: stufo della musica dei Sex Pistols, stanco del proprio personaggio «Rotten», deluso dalla piega complessiva che il punk aveva preso. Winterland fu l’ultima data del turbolento primo tour americano dei Pistols, e qualche giorno dopo il gruppo si disintegrò tra i dissapori e la più totale confusione.
Rotten covava disillusione da mesi. Il primo segnale pubblico lo aveva lanciato a Londra durante The Punk and His Music, un programma del 16 luglio 1977 su Capital Radio, all’interno del quale aveva espresso la sua frustrazione in termini prevedibili per un musicista punk: «Sì, hai la sensazione che ti abbiano fregato. Ci sono un mucchio di cose che dovrebbero essere diverse». Il programma, realizzato montando frammenti d’intervista e dischi selezionati da Rotten, dimostrò inoltre che il cantante aveva gusti musicali molto più diversificati e raffinati di quanto la sua immagine pubblica lasciasse intendere. Chi si aspettava punk e solo punk rimase subito sbigottito dal primo brano, «Sweet Surrender» di Tim Buckley: un r&b magniloquente e sensuale con tanto di orchestra e archi. Nei successivi novanta minuti Rotten ribaltò ulteriormente le aspettative, scegliendo languidi roots reggae, pezzi solisti degli ex Velvet Underground Lou Reed, John Cale e Nico, una sorprendente quantità di musica tendente all’hippy con Can, Captain Beefheart e Third Ear Band e due brani del suo idolo Peter Hammill, un progressive rocker fatto e finito.
La selezione di Lydon per la Capital smentiva il Mito Punk numero uno: i primi anni Settanta come deserto culturale. Se tutto ciò non fosse bastato come tradimento, Johnny ruppe inoltre con il suo ruolo di terrorista culturale voluto da Malcolm McLaren, dichiarandosi di fatto un esteta. Accanto alla scelta di brani moderni, l’intervista rivelava un individuo sensibile e riflessivo, non il leggendario mostro delinquente creato dai giornali scandalistici.
Per Rotten, quella maschera era questione di vita o di morte. Un mese prima dell’apparizione in radio, «God Save the Queen», il pezzo dei Pistols contro il Giubileo d’argento, aveva sfidato censura dell’etere e veti dei negozi di dischi diventando il singolo più venduto del paese. Demonizzato dai giornali scandalistici, Rotten fu vittima di ripetute aggressioni da parte dei fanatici monarchici infuriati. Intimorito, segnato, praticamente agli arresti domiciliari, decise di prendere il controllo del proprio destino. La figura dell’anarchist-Antichrist (un’idea di Rotten poi gonfiata da McLaren e distorta da un apparato mediatico ansioso di credere al peggio) gli era sfuggita di mano. Accettando l’intervista di Capital Radio senza consultare il management, Lydon inaugurò il processo di demolizione del proprio personaggio che sarebbe presto sfociato in «Public Image» (la canzone) e nei Public Image Ltd (il gruppo).
In The Punk and His Music, Lydon appariva fragile e vulnerabile quando parlava delle aggressioni subite: «È molto facile per una banda prendersela con [...] una persona e spaccargli la testa: se la ridono di gusto, ed è molto facile per loro dire: “Che mezza sega, guarda come scappa!” [...] Voglio dire, cos’altro dovrebbe fare?» Collocarsi come vittima e rivelare la propria umiliazione fu una scelta consapevole, attraverso la quale Rotten si riumanizzò.
Questo naturalmente mandò su tutte le furie McLaren, che accusò Rotten di disperdere «la minacciosità del gruppo», rivelandosi come «uomo di gusto». McLaren vedeva i Pistols come l’antimusica, ed ecco all’improvviso il loro frontman decantare la propria eclettica collezione di dischi e proclamare che «a me piace tutta la musica... io amo la mia musica», come un hippy del cazzo! Da quel momento, McLaren decise che sotto sotto Rotten era «una donnicciola costruttiva più che un pazzo distruttivo», e dedicò le sue energie a trasformare il più malleabile Sid Vicious nella vera star dei Pistols, un fumetto psicopatico, capriccioso e autodistruttivo.
Negli ultimi mesi del 1977, fra Rotten e gli altri Sex Pistols si aprì una voragine che rispecchiava la polarizzazione complessiva del punk in alternativi artistoidi contro duri e puri della classe operaia. Rotten proveniva da un ambiente innegabilmente svantaggiato, ma la sua sensibilità era molto più vicina al popolo dell’accademia d’arte. Non era il ragazzo di strada disoccupato mitizzato dai Clash, ma si guadagnava onestamente la pagnotta a fianco del padre in un impianto di trattamento dei liquami, e d’estate lavorava in un asilo nido. Inoltre, malgrado professasse spesso di odiare l’arte e disprezzare gli intellettuali, era colto (amava Oscar Wilde) e aveva opinioni coraggiose (non amava Joyce). Mentre Steve Jones e Paul Cook avevano lasciato presto la scuola, Rotten aveva persino compiuto una breve incursione nell’istruzione post-secondaria, studiando letteratura inglese e arte al Kingsway College. Ma soprattutto, Rotten era un esperto di musica. Non sapeva suonare uno strumento né scrivere una melodia, ma possedeva un’autentica sensibilità acustica e un senso delle possibilità molto più ampio di quello degli altri Pistols.
Il reggae e l’art rock che Rotten propose a The Punk and His Music gettavano le fondamenta emotive e sonore per i Public Image Ltd. Quando affermava di riconoscersi in «Born for a Purpose» di Dr. Alimantado, una canzone sulle persecuzioni subite da un rasta, lasciava intravedere l’aura paranoica e profetica dei PiL: Rotten come reietto visionario, un esule nella Babylon inglese. Musicalmente, ciò che amava di Beefheart e dei produttori dub era il loro allegro sperimentalismo: «Loro amano il suono; gli piace usare qualunque suono». Di fatto, The Punk and His Music offrì una lista di ascolti a un movimento post punk ancora nascituro, suggerimenti e indizi su dove traghettare la musica.
Il punk sembrava «finito» quasi prima di essere entrato nel vivo. Per molti fra i suoi esponenti originari, il rintocco funebre arrivò il 28 ottobre 1977, con l’uscita di Never Mind the Bollocks. Davvero la rivoluzione si era ridotta a questo, un banalissimo e convenzionale album di musica? Bollocks era un prodotto, in altre parole un bene di consumo. Certo, testi e voce di Rotten erano incendiari, ma il sound chitarristico a tutto tondo di Steve Jones e la superba produzione di Chris Thomas (stratificata, ripulita, ben pianificata) erano sintomi di uno sconcertante hard rock ortodosso che smentiva la loro reputazione di gruppo caotico e incapace. Più tardi, Lydon accusò McLaren di aver pilotato il gruppo verso «una regressiva atmosfera mod», spiegando che, se il sound fosse stato quello che lui aveva in mente, il disco sarebbe risultato «inascoltabile per gran parte del pubblico, perché non gli avrebbe dato alcun punto di riferimento».
Il giornalista Jon Savage, che recensì Bollocks per Sounds, ricorda di averlo percepito «come una pietra tombale [...] Privo d’aria, senza spazi fra la musica»: un’osservazione che identifica l’insuccesso del disco in una carenza di dub. Paragonati all’immaginifica irrealtà della produzione reggae, tutta sfavillanti riverberi, effetti speciali disorientanti e tremolanti guizzi ectoplasmatici, gran parte dei dischi punk suonavano antiquati: fermi a metà degli anni Sessanta, prima della psichedelia a ventiquattro piste, prima del suono stereo, perfino. I gruppi più accorti fra quelli emersi dal punk sapevano che li aspettava un corso d’aggiornamento serio. Alcune, fra cui Clash e Ruts, raccolsero soprattutto l’elemento di contestazione del roots reggae: gli slogan espliciti e moraleggianti di «Get Up Stand Up» dei Wailers, il tono radical chic del personaggio da guerrigliero rasta di Peter Tosh. All’estremo opposto rispetto a questa versione «roots rock rebel» del reggae, i gruppi post punk più sperimentali vedevano il reggae come una rivoluzione puramente sonora: una psichedelia africanizzata che mutava le forme e alterava la percezione. Fra il 1977 e il 1981, la produzione spazializzata e i ritmi sofisticati ma elementari del reggae costituirono il modello per il post punk più estremista dal punto di vista sonoro, un ruolo prestigioso che solo il funk poteva ambire a contendere loro.
In Giamaica, però, la militanza «roots» e la volatilità dub rappresentavano due facce della stessa, indivisibile medaglia culturale. La colla che le teneva unite, il rastafarianesimo, era un credo millenaristico: «metà giornalismo, metà profezia», per usare le parole di James A. Winders, in ultima analisi antipolitico e teocratico. La spiritualità rasta era qualcosa che gli inglesi non potevano sottoscrivere facilmente, vuoi per i suoi tratti retrivi (l’odiosa vena antifemminista), vuoi soprattutto perché l’assolutismo delle sue visioni di sangue e di fuoco era intrinsecamente estraneo a una gioventù inglese laica la cui idea di religione derivava in genere dall’anglicanesimo: vaga, inspida, agnostica quel tanto che si poteva senza far incazzare Dio. Fra le schiere del post punk, fu probabilmente solo uno il personaggio che riuscì a competere con i rasta quanto a ferocia spirituale: Johnny Rotten.
Cresciuto a Londra in una famiglia di immigrati irlandesi cattolici, disponeva di una propria finestra sullo spaesamento postcoloniale dei sudditi trascurati dell’ex impero inglese. Non è un caso se la sua autobiografia ha come sottotitolo No Irish, No Blacks, No Dogs,2 la postilla aggiunta da molti proprietari di immobili inglesi alle inserzioni per affittare le stanze, prima che il Race Relations Act mettesse fuorilegge la pratica. L’immedesimazione di Rotten con le esperienze di sufferation e downpression3 dei neri inglesi e la sua passione per il riddim e le potenti linee di basso della musica giamaicana trasparivano dalla sua produzione post-Pistols, infondendo al sound dei PiL un’inquietante ariosità e un acuto senso di paura.
L’ex Pistol Rotten era appena tornato in Gran Bretagna dopo il disastroso tour americano del gruppo, quando Richard Branson, grande capo della Virgin Records, lo invitò a bordo di un altro jet, questa volta diretto in Giamaica. Rotten, notoriamente esperto di reggae, avrebbe accompagnato Branson in qualità di consulente talent scout per la Front Line, la sottoetichetta roots’n’dub della Virgin. Una «vacanza di lavoro» che avrebbe permesso a Rotten di riflettere sul futuro. Mica male come lavoro: gran parte del tempo la passò a bordo piscina allo Sheraton Hotel di Kingston, rimpinzandosi di aragosta e chiacchierando con il fior fiore del reggae giamaicano, suoi idoli personali come Big Youth, U Roy, Burning Spear e Prince Far I.
Qualche giorno dopo lo scioglimento dei Pistols, Rotten aveva annunciato la sua intenzione di formare un nuovo gruppo che avrebbe fatto «antimusica di qualunque tipo». Al ritorno dai Caraibi, si dedicò al reclutamento. Per cominciare invitò John Wardle (un amico con penetranti occhi azzurri, proveniente dai quartieri orientali di Londra, che si era ribattezzato Jah Wobble) a suonare il basso, benché sapesse a malapena imbracciare lo strumento. «John voleva suonare in un gruppo dove il basso fosse in primo piano», ricorda Wobble. «Spesso cazzeggiavamo con gli equalizzatori grafici e i woofer personalizzati, e provavamo a far passare i dischi rock nell’impianto per vedere fino a che punto si potevano pompare i bassi».
Il reggae fu il punto d’intersezione cruciale fra i tre protagonisti dei PiL (Rotten, Wobble e il chitarrista Keith Levene), che per il resto erano una ciurma eterogenea dal punto di vista musicale e da quello personale. «L’unica ragione per cui i PiL funzionarono fu che eravamo tutti fanatici del dub», spiega Levene. «Non facevamo che andare ai “blues”». Questi ultimi erano reggae party illegali, a metà strada fra una rivendita di alcolici clandestina e un vero e proprio sound system, generalmente organizzati in case private per fare soldi vendendo alcol e cannabis. Rotten, da tempo avido collezionista di reggae, era stato introdotto ai sound system dal suo amico nero Don Letts, un dj che lavorava al Roxy, leggendario locale punk, ed è spesso citato per aver convertito al reggae i seguaci del punk. Scortato da Letts, Rotten si trovò spesso a essere l’unico bianco in locali nerissimi come il Four Aces di Dalston, Londra Est. «Era un po’ strano imbucarsi in quei blues», ricorda Wobble «ma tutto sommato non erano male. I neri non facevano storie. Magari qualcuno diceva “cosa ci fanno qui questi ragazzini bianchi?”, ma nessuno ti dava fastidio. Anzi, per un punk a quei tempi era più sicuro starsene in una sala da ballo per neri che entrare nel pub di quartiere dei bianchi. Per me, sentire il basso così forte era grandioso. La fisicità del suono mi lasciava di stucco».
Wobble era cresciuto a Clichy Estate, a Whitechapel, all’incrocio fra Jamaica Street e Stepney Way: un chiaro simbolo della collisione fra East End londinese e Indie Occidentali che in seguito lo avrebbe caratterizzato. Aveva conosciuto Rotten al Kingsway College, dove i due erano diventati membri di una banda di disadattati nota come «i quattro John»: gli altri due erano John Ritchie (alias Sid Vicious) e John Grey. In quella fase, Wobble aveva una reputazione da mezzo delinquente. «Penso che fossimo tutti dei deprivati emotivi, all’epoca», dice con una punta di rimpianto. Ma quando impugnò il basso di Vicious, qualcosa scattò in lui: «Mi sentii subito legato allo strumento. Era terapeutico, anche se allora non me ne rendevo conto». Attingendo al suo bagaglio di musica giamaicana e carburato da tonnellate di anfetamine, si mise a studiare il basso reggae, le semplici frasi ricorrenti che fungono simultaneamente da motivo melodico e regolare cadenza ritmica. Sfruttando trucchi reggae come l’uso di corde vecchie (che non vibrano) e l’azzeramento dei toni con l’apposita manopola dello strumento, imparò a «suonare piano, non in maniera percussiva. La corda va accarezzata. Vibrazione pura». I giri di basso di Wobble diventarono la pulsazione umana della musica dei PiL, il vagoncino che, se da un lato ti proteggeva, dall’altro ti inoltrava dentro il tunnel dell’orrore. E siccome il basso di Wobble si accollava la melodia, la chitarra di Keith Levene aveva licenza di sconvolgere.
Una delle caratteristiche più curiose dei PiL è il fatto che, pur dichiarandosi un gruppo antirock, avessero in prima fila una pietra miliare della chitarra, il Jimi Hendrix del post punk. A differenza di gran parte dei suoi colleghi, Levene era veramente dotato. Prima del punk, si era dedicato a fare ciò che i chitarristi nell’era del virtuosismo prog rock erano tenuti a fare: studiare, studiare, studiare. Da adolescente, cresciuto nei quartieri settentrionali di Londra, passava giorni e giorni a provare a casa di un amico, in sessioni di otto ore. Il suo idolo della sei corde era Steve Howe degli Yes, del quale era stato roadie a quindici anni.
I punk degni di questo nome, pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Nota dell'autore
  4. Introduzione
  5. Prologo: la rivoluzione incompleta
  6. I. Post punk
  7. II. New pop e new rock
  8. Postfazione
  9. Appendici
  10. Cronologia post punk
  11. Ringraziamenti
  12. Bibliografia