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Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv

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Dai Soprano a Breaking Bad, gli antieroi delle serie tv

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Sul finire degli anni Novanta, le serie televisive americane hanno riscritto le regole della narrazione classica. Uno degli aspetti più importanti di questa rivoluzione riguarda i personaggi rappresentati, non più eroi tutti d'un pezzo ma creature moralmente ambigue. Veri e propri antieroi sono, infatti, i protagonisti dei Soprano, di Mad Men, The Wire, Breaking Bad e Game of Thrones. Attraverso un racconto del dietro le quinte di queste serie e approfondite interviste a showrunner e autori coinvolti nella loro realizzazione, Difficult Men ricostruisce con grande abilità un inedito profilo degli antieroi seriali più significativi di questo inizio secolo. I villain delle serie tv riescono a suscitare la nostra empatia e ci permettono di calarci nei panni di chi si spinge oltre il lecito, ponendoci di fronte a dilemmi etici e a scelte sbagliate che non prenderemmo mai nella vita. Scopriremo inoltre che David Chase, Matthew Weiner, Vince Gilligan e David Simon, tra gli altri, sono persone reali complesse e interessanti quanto i personaggi da loro creati. Il dialogo diretto con gli autori consente a Martin di mettere a fuoco il valore di rottura di titoli che, come ha scritto il Guardian, possono essere considerati per la tv l'equivalente di Roth, Updike e Mailer per la narrativa e di Scorsese, Altman e Coppola per il cinema.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788833890234

SECONDA PARTE
LA BESTIA IN ME

5
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UOMINI DIFFICILI

La sigla dei Soprano è il remix di un pezzo del 1997 di una semisconosciuta band inglese ossessionata dall’America, gli Alabama 3, o A3, come vengono chiamati negli Stati Uniti per evitare contenziosi legali con gli Alabama. Al primo ascolto, sembra una scelta incongrua con l’universo della serie, ancor meno «italiana» o «del New Jersey» dell’altra opzione di David Chase: «Complicated Shadows» di Elvis Costello. Ma Chase, all’inizio, aveva paura di fare scelte scontate, per quanto riguardava la colonna sonora (ci avrebbe messo un bel po’ prima di prendere in considerazione, per dire, Springsteen o Sinatra). E fu così che, in poco tempo, l’accattivante e incongrua «Woke Up This Morning» diventò inseparabile dalla serie, talmente connaturata a essa che era difficile stabilire se fosse stata la scelta perfetta o se la percezione del brano fosse stata alterata dalla sua associazione ai contenuti che anticipava.
Ma la canzone più importante della puntata pilota dei Soprano si trova nei titoli di coda, ed è «The Beast in Me» di Nick Lowe. Quella canzone potrebbe essere la colonna sonora di tutta la Terza Età dell’Oro.
The beast in me
Is caged by frail and fragile bonds
Restless by day
And by night, rants and rages at the stars
God help the beast in me9
Le storie di uomini che a volte sfogano la propria natura violenta e altre cercano di arginarla sono sempre state frequenti nelle grandi narrazioni americane, e hanno spesso prevalso sui formati e sui canali più diffusi nelle varie epoche. I nostri generi preferiti (il western, le storie di gangster, l’investigatore privato solitario e tenace che rinuncia alla propria serenità personale, il supereroe dalla doppia identità) sono tutti rappresentazioni di questo struggimento interiore, così come in passato lo sono stati i vagabondaggi di Huckleberry Finn o il viaggio di Ismaele.
Non dovrebbe sorprendere, quindi, che la Terza Età dell’Oro della televisione statunitense sia partita dalla rivisitazione di questi generi. Lo stesso era successo con il cinema degli anni Sessanta e Settanta, che riprendeva la conquista della frontiera (Easy Rider), la detective story (Il lungo addio), il western (Il mucchio selvaggio, I compari) e così via. Ma nessun genere incarnava il rapporto conflittuale dei baby boomer con il capitalismo, un rapporto fatto di attrazione e sensi di colpa, meglio del gangster movie. L’idea che niente incarnasse il sogno americano meglio di un’impresa criminale era alla base dei film più importanti del periodo, basti pensare a Gangster Story (Bonnie and Clyde), Chinatown, Il Padrino e Mean Streets.
I Soprano ha declinato questo tema su uno degli argomenti più potenti della letteratura postbellica: l’orrore delle periferie, che in romanzi come Revolutionary Road di Yates, È successo qualcosa di Heller e nella serie di Coniglio di Updike ha finito per rappresentare tutto ciò che reprime e recinta la vera natura dell’uomo. Col suo egocentrismo, la fregola costante e l’alternarsi di crudeltà e pentimento, con la sua ansia tribolante, Tony era, al di là del Prozac e di un paio di omicidi, l’erede diretto di Harry «Coniglio» Angstrom di Updike. In altre parole, l’americano medio. (Ma era anche una versione perversa di un altro archetipo, il «papà televisivo»: come ha detto Chase, «era Papà ha ragione... su come far fuori la gente».)
Dalla combinazione di queste due tradizioni era uscito un ibrido molto moderno e riconoscibile: un uomo vecchio stampo – robusto, poderoso, che prende ciò che vuole e rappresenta quello che sia gli uomini che le donne vorrebbero in qualche modo ritrovare – in un mondo post-femminista. Il Tommy Gavin di Rescue Me e il Vic Mackey di The Shield erano due versioni della stessa cosa: uomini che facevano i lavori più virili – un pompiere e un poliziotto – smontati dalle donne nell’istante in cui mettevano via l’uniforme. Allo stesso modo Don Draper viene spazzato via, quasi sradicato, dal sovvertimento dei ruoli e delle ambizioni di genere.
«Tony Soprano ha tutto il potere del mondo, ma viene castrato dalla madre e dalla moglie», ha detto Peter Liguori, executive di Fx e in seguito presidente di Fox Broadcasting. «Gli uomini guardano la serie e pensano: “Mi piacerebbe fare il boss, avere tutto questo potere, telefonare alla gente e dare ordini”. Ma anche: “Questo qui è come me, perché anche se per la maggior parte del tempo non mi faccio piegare da nessuno, poi torno a casa e divento un agnellino”».
Per tutte queste ragioni, Tony incarna perfettamente quel tipo di personaggio che per anni la gente ha preferito incontrare al cinema o al massimo sulle pagine di un libro, ma al quale non ha mai permesso di apparire sullo schermo domestico. Ma allora, cos’è cambiato?
In parte, verso la fine degli anni Novanta, ha cominciato a diventare labile il confine tra l’arte da fruire fuori e dentro casa, grazie alla tv via cavo, ai videogame, al videonoleggio e a internet, pur nella sua fase nascente. Questo processo ha subito una forte accelerazione nell’arco dei dieci anni successivi, fino al punto che per i bambini che hanno cominciato a guardare video nel 2012 non esiste più nessuna differenza sostanziale tra «film», «tv», «YouTube», «podcast» e così via.
Allo stesso tempo, i risultati commerciali hanno rivelato che forse a essere avversi ai personaggi difficili erano gli inserzionisti e non gli spettatori – un ritorno al tempo in cui gli inserzionisti producevano e sponsorizzavano i propri spettacoli e potevano permettersi di esercitare una certa pressione censoria: in generale, significava evitare tutto ciò che potesse minare i sentimenti positivi e la predisposizione consumistica che le interruzioni pubblicitarie dovevano instillare negli spettatori.
Quelli di Hbo, ovviamente, non dovevano preoccuparsi di questo tipo di ingerenze da parte degli sponsor. Il loro unico interesse era comunicare il messaggio che nessun individuo culturalmente consapevole poteva rinunciare all’abbonamento, nemmeno se guardava la tv soltanto un’ora la settimana. E le basic cable si rimisero presto al passo, per ragioni più simili di quanto non sembrasse di primo acchito. La pubblicità, per la quale gli indici di ascolto sono molto importanti, è soltanto uno degli introiti che permettono la sopravvivenza di una basic cable tv. Gli altri derivano dalle carriage fee, ovvero ciò che gli operatori cable (Time Warner, Cablevision, Cox) pagano per il diritto di includere un canale nei loro pacchetti via cavo. E anche quando il numero degli operatori aumentò, e ci si ritrovò con migliaia di canali, il gran numero di emittenti che combattevano per ricavarsi il proprio spazio diede vita a una paura più assillante di quella per i bassi indici d’ascolto: quella di essere abbandonate dagli spettatori e di sparire nel nulla.
John Landgraf, diventato presidente di Fx Entertainment nel 2004, ha spiegato perché è importante programmare serie originali come The Shield e Rescue Me: «C’è un numero considerevole di spettatori, tutti insieme saranno dieci milioni [molti di più degli spettatori specifici di qualsiasi programma di Fx], che sarebbe molto scocciato se non riuscisse a guardare Fx. Cambierebbero fornitori del servizio via cavo o inveirebbero contro quello attuale. Non credo che succederebbe la stessa cosa se ci limitassimo a proporre le repliche di Due uomini e mezzo e una pur eccellente selezione di film di Hollywood».
Insieme al successo arriva anche la fidelizzazione dello spettatore verso il marchio, grazie alla quale gli altri canali di un’azienda possono essere «trainati» da quello più famoso. Così, per esempio, Amc Networks (ex Rainbow Media, rinominata così dopo il successo della programmazione originale del suo canale principale Amc) poteva costringere un operatore via cavo a inserire nel suo pacchetto anche Ifc, Sundance Channel e We Tv se voleva trasmettere Mad Men e Breaking Bad. E quando il fornitore satellitare Dish Network si rifiutò di farlo, Amc Networks era ormai in grado di scatenare una vera e propria guerra, a livello di pubbliche relazioni, facendo appello direttamente agli abbonati.
Al contempo, erano ormai lontani i tempi in cui una serie di Stephen J. Cannell poteva essere cancellata perché raggiungeva soltanto un terzo del pubblico totale (Black Sheep Squadron, nel 1978). Il nuovo panorama era costituito da un certo numero di nicchie, che potevano ritagliarsi più facilmente un pubblico specifico. Per fare un parallelo nell’ambito dei magazine, si possono prendere in analisi le differenze tra il New Yorker e Parade: il primo ha trenta milioni di abbonati in meno del secondo, ma raggiunge quel tipo di lettore che fa gola agli inserzionisti più redditizi.
Senza dubbio, c’è un dato di fatto che mette d’accordo queste due coordinate: una serie ha bisogno di spettatori. Ma per tutte le ragioni già elencate, gli indici d’ascolto hanno smesso di essere il più sacro dei metri valutativi della tv. Sono stati rimpiazzati da qualcosa di meno quantificabile: l’identità del brand, il riscontro della critica, il passaparola e così via. David Milch, che ha creato un archetipo dell’uomo difficile, il detective Andy Sipowicz di NYPD, approfondito poi in Deadwood, ha visto in questo cambiamento un’apertura radicale delle possibilità creative.
«Nei primi venticinque anni di vita della tv, gli spot erano la Chiesa: non potevi dire nulla che offendesse gli sponsor. Anzi, avevi l’obbligo di sottolineare e rispettare certi valori». Ma l’arrivo delle cable ha eliminato questa costrizione, creando un mondo capace di esplorare «l’antiversione di qualsiasi forma», un posto in cui «la Storia» era libera di «raccontarsi a modo proprio, libera da aspettative preesistenti». «Tutte le convenzioni sono state svuotate e si sono rivelate sterili», ha spiegato Milch. «La verità è che le aspettative esistono proprio per essere disilluse».
E così sono arrivati gli antieroi. È stato chiaro che il decennio a venire sarebbe stato propizio per questo tipo di personaggi già molto tempo prima che The Wire raccontasse «un’America in guerra con se stessa su ogni piano» o che The Shield incarnasse per un’intera stagione un’allegoria losangelina della guerra in Iraq. Ai tempi dell’esordio dei Soprano in tv l’America aveva già cominciato a diventare un paese dolorosamente spezzato in due, come sarebbe stato chiaro durante le elezioni presidenziali del 2000. Dopo le elezioni, gli americani che avevano votato per chi aveva perso erano dovuti scendere a compromessi con la Bestia che si annidava nel loro corpo politico e – nel corso di un decennio funestato da due guerre, da prigioni segrete, dallo scandalo delle torture e da cose simili – anche con ciò che veniva compiuto in nome loro.
Questa fetta di elettorato corrispondeva per sommi capi agli spettatori di reti come Amc, Fx e Hbo: progressisti, colti, democratici. E ora la Terza Età dell’Oro, presentava repubblicani dal volto umano: poliziotti, pompieri, mormoni, persino un Don Draper a favore di Nixon e, crimine dei crimini, un Jimmy McNulty che si astiene dal voto. Si trattava pur sempre di una working class, ma molto diversa da quella mostrata da Pappa e ciccia, che mirava a un pubblico vasto che si immedesimasse nei problemi economici della famiglia, o da Arcibaldo (All in the Family), che invece invitava entrambe le parti a ridere l’una dell’altra. Era questa la destra in ascesa proposta alla sinistra disillusa, come per rassicurarla che chi era al potere aveva comunque un volto umano.
«Una serie come I Soprano risulta rassicurante perché parte dal tacito assunto che persino il più abominevole degli individui è tormentato dalle nostre stesse ansie quotidiane», ha detto Craig Wright, tra gli sceneggiatori di Six Feet Under e altre serie. «Quest’assunto è sempre stato ribadito dai periodi in cui la destra è al potere e la sinistra muove le sue critiche attraverso l’arte. Ma la cosa divertente è che queste critiche servono a mascherare, o ad alimentare, un’impotente erotizzazione del potere della destra. La verità è che la gente è attratta dai Big Daddy, per quanto sostenga di odiarli».
E questo vale sicuramente per le donne che trovavano in Tony Soprano un insospettabile sex symbol, ma anche per gli uomini, spesso altrettanto ammaliati. La possibilità di realizzare i propri sogni è sempre stata la perversa attrattiva dei gangster movie, l’invidia dello spettatore per una vita al di là delle convenzioni, mescolata al desiderio che il criminale venisse punito per le stesse trasgressioni che in qualche modo ci intrigano. E lo stesso succede ai personaggi maschili dei Soprano che vengono attratti dal carisma di Tony con conseguenze disastrose. (Davey Scatino perde il suo negozio di articoli sportivi dopo aver partecipato a un tavolo da poker con Tony, e Artie Bucco, estraneo alla mala ma a essa vicino più di chiunque altro, subisce una serie interminabile di dolorose umiliazioni.) E lo stesso vale per gli spettatori, sui quali una vita di furti, omicidi e promiscuità esercita un appeal innegabile, per quanto conflittuale.
Ma questo vale anche per gli stessi creatori delle serie tv. Non dovrebbe sorprendere che il lavoro dello showrunner – che ha il potere di dar vita a un mondo finzionale, di spostarne i personaggi da una parte all’altra e di far commettere loro atti indicibili – attragga uomini non del tutto estranei agli istinti più primitivi dei personaggi da essi creati.
David Chase l’aveva sicuramente capito. «Quando guardo un film sulla mafia una parte di me urla: “Dai, spaccate tutto, bastardi!”», ha spiegato. Ma ancora più significativo è il racconto del giorno in cui Todd Kessler si è ritrovato da solo con Chase negli uffici della Silvercup. Chase era arrivato in ritardo all’incontro in cui avrebbero dovuto discutere su come unire le due metà dell’episodio finale della seconda stagione, «L’ultima tequila», di cui si erano occupati separatamente. Si sedette distrattamente davanti a Kessler e gli disse che aveva avuto un’illuminazione.
«Eravamo seduti a una trentina di centimetri l’uno dall’altro», ricorda Kessler. «“C’è qualcosa di cui vuoi parlare?”, gli chiesi. E lui: “Sì, certo. Vedi, ho capito che non sarò mai davvero felice... finché non avrò ucciso un uomo”. Quindi si appoggiò al tavolo e continuò. “Ma non intendo semplicemente uccidere qualcuno”, disse e, afferrandomi la testa con entrambe le mani, aggiunse: “Intendo ucciderlo... a mani nude!”»
I due rimasero in silenzio per qualche secondo. Poi Chase ruppe l’incantesimo: «“Vado a prendere un caffè”, disse. “Tu lo vuoi un caffè?”»
In un certo senso, Chase aveva già fatto ciò di cui sentiva il bisogno. Se c’è stato un momento che ha segnato l’inizio della nuova tv, è arrivato poche settimane dopo l’inizio dei Soprano. Nel frattempo il pubblico aveva già cominciato ad affezionarsi a questo nuovo atipico eroe. È vero che l’avevano visto picchiare un uomo, organizzare truffe, estorsioni e incendi dolosi, e tradire reiteratamente la moglie; ma al contempo sembrava che si fosse ritrovato lì, e che non sarebbe potuta andare diversamente, con una madre degenerata come la sua. Inoltre, se eri avvezzo alle storie televisive tradizionali, potevi cogliere diversi segnali che si potesse trattare della parabola di un uomo che si redimerà grazie alla psicoanalisi e all’amore per la famiglia. D’altronde, già il primo episodio cominciava con quella che poteva sembrare la visione di un santo prossimo alla conversione, un...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prefazione. La duplice inquietudine del protagonista e dell’autore - di Aldo Grasso
  4. Prologo
  5. Prima parte. Nelle puntate precedenti
  6. Seconda parte. La bestia in me
  7. Terza parte. Gli eredi
  8. Epilogo
  9. Fonti