L'uomo di Kiev
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L'uomo di Kiev

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Basato su una vicenda realmente accaduta, L'uomo di Kiev è la storia di uno sconcertante caso giudiziario. È il 1911 e la Russia zarista è attraversata da frequenti scoppi di violenza antisemita. Yakov Bok è un ebreo che si guadagna da vivere come tuttofare; lasciato dalla moglie, cerca fortuna nella città di Kiev dove, spacciandosi per gentile, riesce a farsi assumere come sorvegliante in una fabbrica di mattoni. Ma quando accanto alla fabbrica viene ritrovato il cadavere di un bambino, si diffonde la voce che si tratti di un delitto perpetrato dagli ebrei a scopi rituali e scatta la ricerca del capro espiatorio: tradito da false testimonianze e incastrato dalla polizia, Yakov viene accusato del crimine. Rinchiuso in carcere senza processo, umiliato, abbandonato da tutti, l'uomo non smetterà di lottare con tutte le sue forze per difendere la propria innocenza. Pubblicato per la prima volta nel 1966 e premiato con il Pulitzer e il National Book Award, L'uomo di Kiev non è soltanto una vigorosa denuncia del razzismo e della violenza del potere, ma un apologo universale sulla condizione umana: sulla nostra solitudine, le nostre paure irrazionali, il nostro incoercibile desiderio di giustizia.Con una prefazione inedita di Alessandro Piperno.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788875215903
Argomento
Literature
Categoria
Classics

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L’uomo di Kiev

1
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1.

Dalla finestrella della sua stanza sopra la scuderia della fabbrica di mattoni, quella mattina sul presto Yakov Bok vide diverse persone, nei loro cappotti lunghi, che correvano tutte nella stessa direzione. Vey is mir,[1] pensò a disagio, è successo qualcosa di brutto. I russi, che venivano dalle vie intorno al cimitero, si affrettavano nella neve primaverile, soli o in gruppo, verso le grotte del burrone; qualcuno correva in mezzo alle fangose strade acciottolate. Yakov nascose in fretta il minuscolo barattolo dove teneva i rubli d’argento e scese alla svelta in cortile per scoprire le cause di quella agitazione. Lo domandò a Proshko, il capofabbrica, che bighellonava attorno alle fornaci fumanti, ma Proshko sputò e non disse nulla. Dalla strada una contadina con la faccia ossuta, gli abiti pesanti e lo scialle in testa spiegò a Yakov che nelle vicinanze avevano trovato il cadavere di un bambino. «Dove?», s’informò lui, «quanti anni aveva?», ma la donna rispose che non lo sapeva e si allontanò in fretta. Il giorno dopo il Kievlyanin riferì che in un burrone, dentro a una grotta piena di umidità, a poco più di una versta e mezzo dalla fabbrica di mattoni, due ragazzi di quindici anni, Kazimir Selivanov e Ivan Shestinsky, avevano trovato il cadavere di un bambino di dodici anni, Zhenia Golov, assassinato. Zhenia era morto da più di una settimana ed era tutto coperto di ferite di coltello e completamente dissanguato. Dopo il funerale nel cimitero vicino alla fabbrica, Richter, uno dei carrettieri, arrivò con una manciata di volantini che accusavano gli ebrei del delitto. Erano stampati dalle Centurie Nere, notò Yakov quando ne guardò uno. Sulla prima pagina c’era lo stemma dell’organizzazione, l’aquila bicipite imperiale, e sotto: SALVATE LA RUSSIA DAGLI EBREI. Quella sera in camera sua Yakov, come ipnotizzato, lesse che il bambino era stato ucciso e dissanguato a scopi rituali perché gli ebrei potessero raccoglierne il sangue e portarlo alla sinagoga, per fare i matzo[2] pasquali. Era ridicolo, ma Yakov si spaventò. Si alzò, si sedette, tornò ad alzarsi. Andò alla finestra, poi tornò frettolosamente indietro e riprese a leggere il giornale. Era preoccupato perché la fabbrica di mattoni in cui lavorava era nel quartiere Lukianovsky, dove gli ebrei non potevano abitare. Lui ci abitava da mesi, sotto falso nome e senza permesso di residenza. E aveva paura del pogrom minacciato dal giornale. Suo padre era morto in una occasione simile circa un anno dopo la sua nascita: qualcosa di meno di un pogrom, e di men che inutile. Due soldati ubriachi avevano sparato ai primi tre ebrei che avevano incontrato: il padre di Yakov era stato il secondo. Il figlio invece era sopravvissuto a un pogrom ai tempi della scuola: una razzia di cosacchi durata tre giorni. La terza mattina, mentre le case bruciavano ancora, Yakov era stato portato fuori dalla cantina dove l’avevano tenuto nascosto assieme a un’altra mezza dozzina di bambini, e aveva visto un ebreo dalla barba nera con un salsicciotto bianco calcato in bocca. Stava riverso in mezzo alla strada su un mucchio di piume insanguinate, e il maiale di un contadino gli divorava un braccio.

2.

Una mite sera di inizio novembre di cinque mesi prima, quando la neve non era ancora caduta sullo shtetl,[3] il suocero di Yakov, un uomo vestito di stracci, scarno e inquieto, che pareva fatto di fiammiferi e aria frullata, era arrivato con il suo cavallo scheletrico e il carretto sconquassato. Si erano seduti in casa, una casetta misera e fredda che due mesi dopo la fuga di Raisl, la moglie infedele, era andata completamente in malora, e avevano bevuto assieme l’ultimo bicchiere di tè. Shmuel aveva passato da un pezzo la sessantina e aveva la barba grigia e arruffata, gli occhi acquosi e la fronte solcata da rughe profonde. Pescò da una tasca del caffettano mezza zolletta di zucchero giallo e la offrì a Yakov, che scosse il capo. Il venditore ambulante (era lui la dote della figlia: non aveva potuto dar niente e così faceva gentilezze, piccoli servigi, se possibile) succhiò il tè attraverso lo zucchero, il genero invece lo bevve senza addolcirlo. Era amaro, e lui dava la colpa all’esistenza. Ogni tanto il vecchio faceva commenti sulla vita senza accusare nessuno o rivolgeva a Yakov domande innocue, ma lui taceva o rispondeva a monosillabi.
Quando ebbe sorbito mezzo bicchiere di tè, Shmuel sospirò: «Non è necessario essere un profeta per capire che ce l’hai con me per via di mia figlia Raisl». Parlava con tristezza, tenendo in testa la bombetta che aveva trovato in un barile in una città vicina. Quando sudava, il cappello gli si appiccicava alla fronte, ma Shmuel era religioso e non ci badava. Portava un caffettano imbottito e rappezzato, da cui spenzolavano le mani pelle e ossa. E un paio di scarpe molto larghe – scarpe, non stivali – con le quali correva e se ne andava in giro.
«Chi ha detto niente? Sei tu che te la prendi con te stesso per aver cresciuto una puttana».
Shmuel, senza una parola, tirò fuori un fazzoletto azzurro, sporco, e pianse.
«E tu allora, scusa, perché non hai più dormito con lei per mesi? Ti pare il modo di trattare una moglie?»
«È stato per qualche settimana, non di più. Ma per quanto tempo si può dormire con una donna sterile? Io mi ero stancato di tentare».
«Perché non sei andato dal rabbino quando ti ho implorato di andarci?»
«Che il rabbino non metta il naso nei fatti miei e io non lo metterò nei suoi. In fondo, è solo un ignorante».
«Tu non hai mai avuto carità», osservò il venditore ambulante.
Yakov balzò in piedi, infuriato. «Non mi parlare di carità! Che cos’ho mai avuto in tutta la mia vita? Che cos’ho da offrire io? Sono nato praticamente orfano... mia madre è morta dieci minuti dopo, e tu sai che fine ha fatto il mio povero padre. Se qualcuno ha detto il Kaddish per loro quello sono stato io molti anni più tardi. Se aspettavano davanti alle porte del paradiso, hanno aspettato un bel pezzo al freddo, e magari aspettano ancora. Per tutta la mia infelice infanzia sono vissuto in un orfanotrofio puzzolente, anzi, sono a malapena sopravvissuto. Nei miei sogni mangiavo, e mangiavo i miei sogni. Di Torah me ne hanno insegnata poca e di Talmud ancora meno, ma se ho imparato l’ebraico è perché ho orecchio per le lingue. In ogni caso, sapevo i Salmi. Mi hanno insegnato un mestiere e mi hanno collocato come apprendista appena ho compiuto i dieci anni... non che lo rimpianga. Ora lavoro, diciamo così, con le mani e qualcuno dice che sono “ordinario” ma la verità è che pochi sanno chi è davvero ordinario. Quanto alla gente che, a un primo sguardo, ha classe, be’, bisogna dargliene un secondo, di sguardo. Per me, Viskover, il nogid,[4] è un uomo ordinario. Tutto quello che ha sono i suoi rubli, e quando apre la bocca li senti suonare. Io, per mio conto, ho studiato parecchie materie, e ancora prima di andar militare avevo imparato da solo a parlare un russo decente, molto meglio di quello che si orecchia dai contadini. Il poco che so l’ho imparato da me: un po’ di storia e geografia, un po’ di scienze, di aritmetica, un paio di libri di Spinoza. Non molto, ma meglio di niente».
«Anche se per la maggior parte sono cose treyf[5] ti concedo...», lo interruppe Shmuel.
«Lasciami finire. Ho dovuto scavare con le unghie per guadagnarmi da vivere. Che cosa si può fare senza capitale? Quel che possono fare gli altri lo posso fare anch’io, ma non è molto. Io aggiusto la roba rotta... tutto fuorché il cuore. Nello shtetl va tutto in pezzi, ma chi si preoccupa se dal tetto piove, quando dalle crepe puoi spiare Dio? E chi può pagare per farlo aggiustare, ammesso che me lo chiedano, cosa che non succede mai? E anche se me lo chiedono, la metà delle volte io lavoro per niente. Se sono fortunato, un piatto di minestra. Qui le buone occasioni nascono morte. Francamente, sono di un umore schifoso».
«Delle buone occasioni è inutile che mi parli...»
«Mi hanno chiamato militare per la guerra russo-giapponese, ma era finita ancora prima che ci arrivassi. Grazie a Dio. Quando mi sono ammalato mi hanno sbattuto fuori a calci. Un ebreo con l’asma non valeva la spesa. Grazie a Dio. Quando sono tornato, ho dovuto di nuovo arrabattarmi in tutti i modi, peggio di prima. Poi ho conosciuto tua figlia e dopo un gran girarci attorno l’ho sposata, una moglie che in cinque anni e mezzo non è riuscita a restare incinta. Non mi ha dato dei figli: chi potevo più guardare in faccia? E adesso mi scappa con un forestiero che ha incontrato all’osteria. Un goy, ne sono certo. Mi pare che basti – serve forse altro? Non voglio che la gente abbia pietà di me o si domandi che cos’ho fatto per tirarmi addosso tante maledizioni. Non ho fatto nulla. È stato un regalo. Sono innocente. Sono orfano da troppo tempo. Tutto quello che possiedo al mondo, dopo trent’anni in questo cimitero, sono i sedici rubli che ho preso vendendo tutta la mia roba. Quindi ti prego: non mi parlare di carità, perché non ho nessuna carità da offrire».
«La carità si può fare anche quando non si ha niente. Io non parlo di denaro. Parlavo di mia figlia».
«Tua figlia non merita niente».
«È corsa da un rabbino all’altro in tutte le città dove la portavo, ma nessuno poteva prometterle un bambino. È corsa anche dai dottori quando aveva qualche rublo, ma le hanno detto la stessa cosa. Coi rabbini era più a buon mercato. Così, è scappata via, che Dio la protegga. Anche i peccatori sono cosa Sua. Ha peccato, ma era ridotta alla disperazione».
«Che scappi in eterno».
«È stata una moglie fedele per tanti anni. Ha condiviso tutte le tue disgrazie».
«Ha condiviso quello che ha causato. È stata una moglie fedele fino all’ultimo momento, o all’ultimo mese, o al penultimo, e questo ne fa un’infedele, che le venga il colera!»
«Dio non voglia!», esclamò Shmuel, alzandosi. «Che venga a te!»
Con gli occhi spiritati, maledisse profusamente il genero e se ne andò di corsa da quella casa.
Yakov aveva venduto tutto fuorché gli abiti che aveva indosso, portati alla maniera dei contadini: una lunga blusa ricamata, stretta con la cintura sopra i pantaloni infilati in un paio di alti stivali grinzosi, e un montone marrone, liso e pezzato, che ogni tanto odorava di pecora. Aveva tenuto i suoi ferri e qualche libro: la grammatica russa di Smirnovsky, un testo di biologia di base, i Brani scelti di Spinoza e un atlante malandato che aveva almeno venticinque anni. Aveva fatto un pacchetto dei libri e l’aveva legato con un pezzo di corda. I ferri erano in un sacco da farina che si era legato al collo, e la sega spuntava fuori. Aveva anche un po’ di cibo in un cono di carta di giornale. Yakov si lasciava dietro i suoi pochi mobili malandati – per portarli via un rigattiere gli aveva chiesto dei soldi – e due servizi di piatti sbeccati, anche quelli invendibili, di cui Shmuel poteva fare quel che meglio credeva: usarli, romperli o bruciarli, tanto non valevano niente. Raisl aveva tenuto i due servizi solo per via del padre, perché a lei importava ben poco. In cambio del carro e del cavallo, invece, Yakov dava al suocero una mucca più che discreta. Così Shmuel avrebbe potuto rilevare la piccola latteria della figlia. Difficilmente avrebbe potuto rendergli meno del suo commercio. Per quel che ne sapeva Yakov, Shmuel era l’unica persona al mondo che riuscisse a vendere il niente, a spizzichi e bocconi, in cambio di copechi sonanti. A volte barattava il niente con setole di maiale, lana, grano, barbabietole da zucchero, e poi vendeva ai contadini pesce secco, sapone, fazzoletti, caramelle in quantità infinitesimali. Era il suo talento e miracolosamente di questo viveva. «Colui che ci ha dato i denti ci darà il pane», diceva. Tuttavia, il suo alito non odorava di niente: né di pane né d’altro.
Yakov, in abiti larghi e berretto a visiera, era un uomo longilineo e nervoso con le orecchie grandi, le mani dure, chiazzate, il dorso ampio e la faccia tormentata illuminata appena dagli occhi grigi e dai capelli quasi castani. Il suo naso a volte era ebreo e a volte no. Dopo la fuga di Raisl si era tagliato la barbetta rossastra, e nessuno si era meravigliato. «Tagliati la barba e non somiglierai più al tuo creatore», l’aveva ammonito Shmuel. Da allora più d’un ebreo aveva avvertito Yakov che sembrava un goy, ma la cosa non gli aveva fatto né caldo né freddo. D’aspetto era giovane ma si sentiva vecchio, e di questo non dava la colpa a nessuno, nemmeno alla moglie; dava la colpa al destino e risparmiava se stesso. Dai gesti si capiva che era nervoso. Di solito si muoveva più in fretta del necessario, considerato il poco da fare che c’era; lui, però, qualcosa faceva sempre. In fondo, era un uomo tuttofare e doveva tenere le mani occupate.
Mentre gettava la sua roba sul carro, Yakov guardò insoddisfatto il cavallo: un animale dall’aria nuda, con le gambe malferme, il corpo bruno e ossuto e due grandi occhi stupidi, che andava molto d’accordo con Shmuel. Esigevano poco l’uno dall’altro e vivevano in pace. Il cavallo faceva praticamente tutto quello che voleva e Shmuel lasciava correre. In fondo, che importava se arrivavano un po’ in ritardo in un mondo di matti? L’indomani lui non sarebbe diventato certo più ricco. Il tuttofare era irritato con se stesso per aver comprato quell’animale decrepito, ma aveva preferito un baratto svantaggioso con Shmuel piuttosto che non prendere nulla, per la mucca, da un contadino che in realtà le moriva dietro. Il sangue di un suocero è più denso dell’acqua. Sebbene non ci fosse una stazione ferroviaria nella zona e la posta passasse ogni due settimane a caricare i viaggiatori, Yakov sarebbe potuto andare a Kiev senza rilevare il cavallo e quel carro con un secchio arrugginito appeso tra le due ruote p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prefazione
  4. Profilo bio-bibliografico
  5. Bibliografia
  6. L’uomo di Kiev