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Biografie di minatori
I minatori sono gente assai parca nel parlare. Di sé, della propria vita, dicono pochissimo. Di qui la brevità di queste biografie, che è conforme, vorremmo dire, alla loro mentalità.
Foddi Francesco
Nato a Nuraminis (Cagliari) nel 1908. Era il figlio maggiore di un barrocciaio, che morì nella prima guerra mondiale. Dopo di lui c’erano un altro fratello e due sorelle. Non è andato a scuola. A otto anni cominciò a lavorare come pastorello: guadagnava trenta centesimi il giorno. A dodici anni diventò garzone agricolo e continuò a fare questo mestiere fino ai diciannove anni. Dalla Sardegna venne via una prima volta nel 1927 e poi definitivamente nel 1929. Da allora ha sempre lavorato sul continente.
Fu spinto a lasciare la Sardegna «per tutto»: perché guadagnava poco e perché lì il lavoro non aveva orario; e anche per ragioni politiche. Infatti, avendo ereditato dal padre e dagli zii la fede socialista, i fascisti del luogo lo molestavano. Dal 1929 al 1934 lavorò come terrazziere, soprattutto nelle opere di bonifica della pianura pontina. Ma non avendo la tessera del Fascio non poteva ottenere altro che un lavoro saltuario. Inoltre la zona era malarica; così non era contento del proprio stato. Un compaesano, alto magistrato della Corte di Cassazione, gli fece una raccomandazione che gli permise di entrare, alla fine del 1934, nella miniera di Gavorrano. Dell’esistenza di questa miniera e delle condizioni di vita dei minatori era stato informato a Roma da un compaesano che vi aveva lavorato.
I primi tre-quattro mesi lavorò come manovale, poi passò all’avanzamento, prima con la qualifica di aiuto minatore, poi con quella di minatore. Ha imparato subito il mestiere, anche se «il minatore non s’impara mai», perché sempre diverse sono le condizioni in cui si presenta il lavoro (a seconda che il banco è vergine, o franoso, o a crepe, eccetera).
Tre infortuni. I primi due li racconta ridendo, perché ne è uscito illeso. La prima volta si trovò in mezzo alle esplosioni nel pozzo Impero, dov’era ridisceso non sapendo che erano state sparate delle mine. Avvenne, gli sembra, nel 1936. La seconda volta all’avanzamento stava verificando se erano state sparate tutte le mine, quando una miccia gli scoppiò in mano. Fu nel 1943, ma non ricorda bene, perché anche quella volta se la cavò con molta paura ma senza danno. Della terza ricorda la data precisa e non ride quando fa il racconto. Fu nella miniera di Ribolla, dove era stato provvisoriamente trasferito a causa dell’allagamento della miniera di Gavorrano. Era intento a mettere un quadro di armamento, col martello perforatore stava facendo una buca per piantare una gamba del quadro, quando gli scoppiò sotto una mina rimasta inesplosa dalle due «gite» precedenti. Scaraventato lontano, accecato, trovò la forza di rialzarsi e cominciò a fuggire temendo nuove esplosioni. Finalmente lo raccolsero e lo portarono fuori. Stette cinque mesi fuori dal lavoro. Da un occhio non ci vedeva più, e anche l’altro aveva subito una grave diminuzione della capacità visiva. Rientrò a Gavorrano, ormai inabile come minatore, addetto ai lavori di manovalanza all’esterno. Nel 1951 venne riconosciuto affetto da silicosi, con infiltrazioni sotto l’apice destro, e fu ricoverato per diciotto mesi al sanatorio di Grosseto. Dal maggio 1953 ha ripreso il lavoro come pesatore della merce.
Ha sposato nel 1939 una ragazza di Castiglion de’ Pepoli (Bologna). L’aveva conosciuta a Gavorrano, dove ella aveva dei parenti. Hanno tre figli viventi (due gli son morti): una bimba di quindici anni, un maschio di undici e una bimba di quattro. Fino all’agosto scorso si sono adattati a vivere in una sola camera con cucina, di proprietà della Montecatini. Ora abitano a Bagno di Gavorrano in una casa Fanfani a riscatto, per cui pagano 6075 lire il mese. Hanno due camere, la stanza di soggiorno, cucina e bagno.
Attualmente Foddi guadagna sulle 45.000 lire il mese. Ha inoltre la pensione degli infortuni (12.000 lire il mese) e quella della invalidità (16.000 lire il mese). Dopo la Liberazione si è iscritto al Partito comunista.
È un uomo di media statura, molto robusto, coi capelli e i baffi neri. Porta gli occhiali scuri per difendere quel po’ di vista che gli rimane. Rimpiange i tempi in cui lavorava all’avanzamento; si compiace di ricordare quanto arrivava a guadagnare. Facendosi assegnare alle grandi preparazioni, ai lavori pesanti maggiormente retribuiti, prima della guerra arrivava a strappare una giornata di 40 lire.
Foddi ha lavorato e guadagnato più di un normale operaio nel corso della sua vita; ma a 46 anni è quasi cieco e coi polmoni tarati. Spera tuttavia di potercela fare per altri quattordici anni, fino al limite dei 60 che gli consentirà di fruire anche della pensione della previdenza sociale.
Cano Giuseppe
Nato a Buddusò (Sassari) nel 1903. Aveva sei fratelli e due sorelle. Il padre era ed è tuttora commerciante all’ingrosso di pellami, formaggi e lane. Dopo aver fatto la quinta elementare, entrò in una segheria di ciocco come fuochista alla caldaia. Aveva una tredicina d’anni e gli davano 12 lire la settimana. Rimase lì fino ai diciotto anni, quindi andò a fare lo stesso mestiere, con la stessa ditta, ad Ajaccio e Bastia. Rimase in Corsica finché non dovette andare militare.
Suo padre era apolitico, lui invece, pur senza iscriversi a nessun partito, si sentì avversario del fascismo. Era da poco tornato da militare, quando a Buddusò cadde la ricorrenza della festa dei giovani che partivano per il servizio di leva. Lui prese parte alla festa con altri di fresco congedati. Due fascisti volevano farli smettere; reagirono picchiandoli. Uno zio colonnello dei carabinieri gli consigliò allora di fuggire in Francia. Egli andò a Porto Torres, dove s’imbarcò clandestinamente per Bastia. Di lì andò nella Francia dell’Est, e precisamente a Longwy, dove quattro fratelli della madre lavoravano in un grande stabilimento metallurgico. Cominciò a lavorare come locomotorista in una miniera: vi rimase solo quattro mesi, ad ogni modo fu quello il suo primo incontro con la vita di miniera. Quindi passò fuochista in uno stabilimento metallurgico. Nemmeno in Francia si era iscritto ad alcun partito, però si era iscritto alla Lega dei Diritti dell’Uomo, e frequentava i fuorusciti, che erano numerosi a Longwy.
Mentre faceva il metallurgico, studiava in una scuola privata (ramo commerciale); così dopo tre anni poté abbandonare lo stabilimento per diventare commesso viaggiatore. Viaggiava per conto di una grande ditta di alimentari, alle cui dipendenze rimase cinque anni, dal 1929 al 1934. Nel 1930 sposò una francese, da cui ebbe un figlio; divorziarono nel 1933, e il figlio fu assegnato alla madre. Anche a causa di questa sfortunata vicenda coniugale, s’indusse a rientrare in Italia. Tornò a Buddusò, ma ci rimase poco, perché preso di mira per i precedenti politici. Per un anno fece il motorista ad Arborea (Cagliari); passato nel continente, trovò lavoro nel Lazio, prima come trattorista e poi come motocarrellista.
Finalmente nel 1938 entrò a Gavorrano tramite l’Istituto infortuni, come invalido del lavoro (si era infatti infortunato quando faceva il metallurgico in Francia: aveva quasi perduto un occhio). In miniera lavorò prima come arganista, poi come pompista. Un anno fa si bruciò un motore: venne data la colpa a lui che, rimosso da pompista, non ha più avuto una mansione fissa, ma è adibito a lavori vari. Guadagna sulle 45.000 lire il mese. Da parecchi anni si è unito a una donna, da cui ha avuto due figli. Prima abitavano in uno stanzone, ora finalmente hanno avuto una casa dalla Montecatini a Forni di Gavorrano, per quattromila lire il mese. Dopo la Liberazione si è iscritto al Partito comunista.
Piscedda Priamo
Nato nel 1901 a Muravera (Cagliari). Il padre era minatore: aveva lavorato in Sardegna, in Tunisia e a Gavorrano. Lui dopo aver fatto la quinta elementare, a tredici anni cominciò a lavorare come pescatore. Dapprima prendeva tre lire il mese, oltre il vitto, che poi gradatamente gli furono aumentate. A diciotto anni, quando smise quel mestiere, guadagnava sessanta lire il mese. Erano sempre troppo poche, ed egli andò a Genova dove trovò lavoro come operaio industriale. Ma solo per un anno, perché alla fine del 1920 andò militare in Marina. Finita la ferma di ventotto mesi, tornò al paese, e qui si iscrisse al Partito comunista. Il padre era apolitico, ma facendo l’operaio a Genova lui s’era formato «un concetto politico» e il successivo periodo passato in Marina gli aveva fatto concepire un profondo odio «per il militarismo». Dirigeva il Pc nella zona di Muravera, dove aveva ripreso a fare il pescatore; ma gli mettevano il bastone fra le ruote per il lavoro, così nel 1925 emigrò nel continente. Aveva intenzione di tornare a Genova, ma si fermò a Ladispoli, dove aveva un fratello e uno zio materno. A Ladispoli rimase ventidue anni facendo il manovale. Si era sposato nel 1927 con una ragazza del suo paese, dalla quale ha avuto otto figli, quattro maschi e quattro femmine.
Nel frattempo due suoi fratelli erano finiti minatori a Gavorrano. Nel 1947, benché sapesse che il minatore è un brutto mestiere, si decise a raggiungerli, essendosi trovato totalmente disoccupato. Fu messo subito alla produzione. Non gli fu facile ambientarsi col lavoro in miniera, a quarantasei anni, dopo che aveva sempre lavorato all’aria libera. Ma bisognò che soggiacesse. Ricorda lo spavento dei primi tempi quando una sparata vicina o lo stillicidio gli spegnevano la lampada ad acetilene. Dopo il primo anno passato alla produzione, è stato due anni vagonaio, altri due anni al sindacato; rientrato in miniera nel 1952, fa da allora lo stradino.
Compresi gli assegni familiari (prende cinque quote, moglie più i quattro figli tuttora minori di diciotto anni) arriva a guadagnare sulle 60.000 lire il mese. La famiglia l’ha lasciata a Ladispoli; egli dorme in un camerotto e mangia alla mensa.
Possamai Albino
Nato a Cesio Maggiore (Belluno) nel 1913. Il padre faceva il contadino; morì nella prima guerra mondiale. Egli studiò fino alla terza elementare. A dodici anni un compaesano che abitava ad Asti gli trovò lavoro in questa città come commesso da un commerciante di vino. Lì rimase fino al servizio di leva. Congedato nel 1936, venne a lavorare a Gavorrano. Poiché vi era il divieto di trasferire manodopera da una provincia all’altra, la Montecatini lo assunse fittiziamente per la miniera di Agordo, trasferendolo subito dopo a Gavorrano. Egli venne a Gavorrano con altri 28 bellunesi, assunti con un contratto della durata di quattro mesi. Passati i quattro mesi, 23 preferirono tornarsene a casa. Se ne sarebbero andati subito dopo pochi giorni, se non avessero dovuto aspettare la scadenza del contratto per potersi far rimborsare le spese del viaggio di ritorno. A breve distanza arrivò un altro scaglione di 25 bellunesi: quelli addirittura al termine dei quattro mesi se ne andarono tutti spaventati dalle condizioni del lavoro in miniera. A quel tempo del resto la massa dei minatori era poco stabile, c’era un grande andirivieni di operai: molti lavoravano in miniera solo nel periodo della disoccupazione stagionale. Per esempio c’erano dei marchigiani che ogni anno venivano a Gavorrano in ottobre e a marzo se ne riandavano.
Ebbe prima la qualifica di aiuto minatore e dopo due anni quella di minatore. Da aiuto minatore guadagnava 15-16 lire il giorno, da minatore arrivava a 21-22. Oggi, con la qualifica di operaio di prima categoria, guadagna in media 55.000 lire il mese, a cui vanno aggiunte 11.000 lire di assegni familiari (moglie e due figli). Abita in una casa della Montecatini composta di una camera e di una cucina. Non ha mai avuto infortuni di rilievo e non è affetto da silicosi. È iscritto al Partito comunista.
Mastacchini Terzo
Nato a Manciano (Grosseto) nel 1910. In famiglia erano tre fratelli e tre sorelle. Lui, come dice il nome, era il terzo figlio. Il padre, mezzadro, morì nella prima guerra mondiale. Uno zio diventò il capoccio. Han fatto i contadini fino al 1946, anno in cui si sono divisi come famiglia e hanno lasciato il podere. Dal 1946 al 1951 lui ha fatto l’operaio giornaliero. I lunghi periodi di disoccupazione, le paghe scarse, lo hanno spinto a cercar lavoro in miniera. Assunto a Gavorrano, è stato assegnato alla produzione con la qualifica di aiuto minatore. Guadagna sulle 55-60.000 lire il mese (di cui 14.000 di assegni familiari, avendo moglie e tre figli). Abita a Filare di Gavorrano in una casa privata: paga 7500 lire il mese per due camere e una cucina. Lamenta la fatica pesante, il dover lavorare sotto terra, lui che fino a trentasei anni ha fatto il contadino. È iscritto al Partito comunista dalla Liberazione.
Fabbri Mazzino
Nato a Montieri (Grosseto) nel 1903. Il padre ha fatto il minatore per cinquantaquattro anni. Lui andò in miniera a tredici anni come aiutante perforatore. Lavorò nella miniera di Boccheggiano, poi, dopo l’interruzione del servizio militare, in quella di Gavorrano. Non è stato mai minatore, ma ha fatto di tutto: armatore, arganista, pompista, sondatore, elettricista. Attualmente fa il pompista. Ritiene il lavoro migliore quello dell’elettricista, perché la giornata passa meglio, dovendo l’elettricista andare in giro per la miniera.
Ha avuto due infortuni: una frattura al ginocchio per caduta nel 1917; nel 1926 ebbe il piede forato da un pezzo di legname caduto dal quadro di armamento. Ha la silicosi al trenta per cento.
Il padre, tendenzialmente repubblicano, era poi diventato comunista. Lui fu prima socialista e poi, dal 1921, comunista. In quell’anno venne purgato due volte e picchiato parecchie volte dai fascisti. Nel periodo dell’occupazione tedesca fu partigiano.
Ha moglie e due figli. Abita da trent’anni a Filare di Gavorrano in una casa della Montecatini, per la quale paga un affitto nominale (quattrocento lire l’anno).
Guzzo Tommaso
Nato nel 1926 a Torretta (Palermo). Suo padre possedeva un poderetto e faceva inoltre il manovale edile e il meccanico; in ultimo fu licenziato perché socialista. Nel 1928 perciò aveva preferito emigrare negli Stati Uniti, dove trovò lavoro come operaio nelle ferrovie e dove morì nel 1941. A casa la famiglia campava con le rimesse dall’America e coi proventi del poderetto.
Tommaso Guzzo rimase in Sicilia fino a diciannove anni. Prima frequentò le scuole elementari, poi fu messo in seminario, da dove fuggì andandosene a lavorare come ortolano. A sedici anni entrò a lavorare in un cantiere navale e qui si fece una prima idea politica. L’anno dopo, avvenuta la Liberazione, si iscrisse alla Federazione giovanile comunista, continuando a lavorare come operaio edile. Era un lavoro magro e senza prospettive, così nel luglio del 1945 decise di tentare la fortuna. «Il fronte è passato. Bisogna andare in continente, qui non si vive più», così si diceva allora dalle sue parti. Dopo un viaggio avventuroso, arrivò a Grosseto; qui incontrò alcuni minatori calabresi che lo convinsero a occuparsi anche lui in miniera. Trovò un posto a Ribolla come manovale. Fu messo a un fornello della compagnia 32-bis, al terzo ripiano del pozzo 2. Non era un posto comodo: soprattutto la temperatura del cantiere, che toccava a volte i 42°, lo mise in serio disagio.
Era da poco in miniera quando conobbe una ragazza di Montemassi, figlia di un ex minatore diventato mezzadro. Questa all’inizio diceva di non aver fiducia in lui, perché siciliano, poi si convinse e nel 1946 si sposarono. Nel 1947 ebbero una bimba.
Continuava a fare il manovale e continuava anche a occuparsi attivamente di politica. Fu prima collettore di gruppo, poi capocellula, poi responsabile della stampa per la sezione di Roccastrada.
Nel 1949 guadagnava sulle 35-40.000 lire il mese, quando ebbe un nuovo lavoro: doveva sbancare la terra delle gallerie per ampliarle e approfondirle al piano quarto del pozzo Raffo. Questo lavoro veniva pagato col criterio del cottimo: ogni metro di terra asportata era pagato dalle 200 alle 260 lire, a seconda dell’altezza dello sbancamento. Al totale veniva poi detratta la paga base, 119 lire. Guzzo riuscì a guadagnare sulle 70.000 lire il mese e arrivò a sfiorare le centomila. Questo grazie alla sua eccezionale robustezza (si pensi che una palata di terra, da sollevare fino a un metro e settanta di altezza, pesa 25-30 chili) e grazie anche a un sistema speciale di lavoro da lui escogitato. Il sistema escogitato era questo: con lo sbancamento si asporta la terra da sotto i binari del decauville. Normalmente gli operai scavano a tratti uniformi, da «panchine» (traversa di legno) a «panchino», lasciando sotto ciascuno di essi una fetta di terra a sostegno. Ciò richiede una maggior perdita di tempo, dovendosi poi recuperare la terra lasciata indietro. Guzzo invece asportava completamente la terra, sostenendo i «panchini» con bozze di cemento, di quelle che servono ad armare le gallerie e pesano ottanta chili ciascu...