Bugiardi e innamorati
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Bugiardi e innamorati

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Bugiardi e innamorati

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Informazioni sul libro

La giovane moglie di un professore universitario, due bambini figli di madri divorziate, un'impulsiva prostituta londinese, un soldato in licenza a Parigi, una scultrice che sogna fama e gloria, un impiegato che aspira a una vita libera, uno scrittore in trasferta a Hollywood: da questi personaggi così vari, eppure uniti da uno stesso desiderio di qualcosa di nuovo che cambi le loro vite, il genio narrativo di Richard Yates tira fuori sette racconti che descrivono magistralmente quel groviglio di sentimenti contraddittori, talvolta inconsapevoli e spesso incomprensibili che costituiscono un amore. E il lettore non può fare a meno di sentirsi trascinato, coinvolto, messo a nudo e infine assolto dalla propria umanità, così come vengono assolti, prima dell'ultima riga, i protagonisti di questa magnifica carrellata di affetti e menzogne.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788833890081

/
Addio a Sally

Jack Fields ci mise cinque anni a scrivere il suo primo romanzo, che lo lasciò giustamente orgoglioso ma esausto fin quasi al punto di ammalarsi. All’epoca aveva trentaquattro anni e viveva ancora in uno scantinato buio e squallidamente economico del Greenwich Village, che gli era sembrato abbastanza buono per rintanarcisi a finire il suo lavoro dopo che il suo matrimonio era andato in pezzi. Riteneva che sarebbe stato in grado di trovare un posto migliore e forse addirittura una vita migliore una volta che il libro fosse uscito, ma si sbagliava: anche se aveva ottenuto elogi da ogni parte, le vendite erano andate così male che in tutto il primo anno dopo la pubblicazione gli era entrato in tasca soltanto un rivoletto di denaro scarso e di breve durata. In quel periodo Jack aveva preso a bere parecchio e a non scrivere molto – non si occupava neppure granché del lavoro da pennivendolo anonimo e mal retribuito che gli aveva dato da vivere per anni, per quanto riuscisse ancora a tirare fuori quanto bastava per pagare gli alimenti alla ex moglie – e aveva cominciato a vedersi, non senza un certo compiacimento letterario, come una figura tragica.
Le sue due figliolette venivano spesso dalla campagna a passare il weekend con lui, indossando sempre abiti freschi e vivaci che facevano in fretta ad afflosciarsi e sporcarsi in mezzo all’umidità e al sudiciume della sua orribile abitazione, e un giorno la più piccola annunciò in lacrime che non voleva più lavarsi lì a causa degli scarafaggi nella cabina della doccia. Alla fine, dopo che Jack ebbe schiacciato e gettato nello scarico tutti gli scarafaggi che riuscì a trovare, e dopo un sacco di moine per convincerla, la figlia disse che dopotutto poteva anche tenere gli occhi chiusi; e il pensiero di lei che brancolava nella cabina dietro la tenda di plastica ammuffita, cercando di fare in fretta e di non mettere i piedi troppo vicino allo scarico brulicante e infido mentre si insaponava e si risciacquava, lo faceva sentire fiacco per il rimorso. Doveva andarsene da lì, lo sapeva. Avrebbe dovuto essere pazzo per non saperlo – forse era già pazzo, non fosse altro che per il fatto di trovarsi lì e continuare a infliggere quello squallore alle bambine – ma quello che non sapeva era da dove cominciare il delicato, difficile compito di rimettere in sesto la propria vita.
Poi, all’inizio della primavera del 1962, quando aveva compiuto da non molto trentasei anni, arrivò un’occasione del tutto inaspettata: gli fu affidato l’incarico di scrivere una sceneggiatura tratta da un romanzo contemporaneo che ammirava moltissimo. I produttori gli avrebbero pagato il viaggio fino a Los Angeles per incontrare il regista, e gli fu consigliato di rimanere «in zona» fino a che non avesse finito di scrivere il copione. Con tutta probabilità non gli ci sarebbero voluti più di cinque mesi, e già quella prima fase del progetto, per non parlare delle vertiginose prospettive di guadagni futuri, gli avrebbe fruttato più soldi di quanti fosse mai riuscito a racimolare prima in due o tre anni messi insieme.
Quando lo disse alle figlie, la più grande gli chiese di mandarle una foto autografata di Richard Chamberlain; la più piccola non aveva richieste da fargli.
Vi fu una festa in suo onore nell’appartamento di qualcun altro, una festa che fu allegra e rumorosa, in stretta sintonia con l’immagine spigliata che aveva sempre sperato di trasmettere agli altri; su una parete era appeso un grande striscione scritto a mano:
ADDIO BROADWAY
SALVE GRAUMAN’S CHINESE THEATRE
E due sere dopo si ritrovò sottochiave, solo e sbronzo in mezzo a sconosciuti, nel lungo cilindro soffuso e mormorante del primo jet che avesse mai preso in vita sua. Dormì per gran parte della trasvolata attraverso l’America e non si svegliò finché non si trovarono a fluttuare sui chilometri e chilometri di luci nel buio della periferia di Los Angeles. Gli venne in mente allora, mentre premeva la fronte contro un finestrino freddo e sentiva che la fatica e l’ansia degli anni passati cominciavano a svanire, che ciò che lo aspettava – buono o cattivo che fosse – poteva benissimo rivelarsi un’avventura ricca di significato: F. Scott Fitzgerald a Hollywood.
Per le prime due o tre settimane del suo soggiorno in California, Jack fu ospite a Malibu nella sontuosa dimora del regista, Carl Oppenheimer, un tipo melodrammatico, irascibile, dal linguaggio ostinatamente grossolano, che aveva trentadue anni. Oppenheimer era passato da Yale dritto agli studi televisivi di New York negli anni in cui trasmettevano ancora castigatissime commedie «dal vivo» per il pubblico serale. Quando i recensori avevano cominciato ad adoperare il termine «genio» per parlare del suo lavoro, era stato convocato a Hollywood, dove aveva rifiutato molti più progetti cinematografici di quanti ne avesse accettati, e dove i suoi film gli avevano permesso di farsi rapidamente un nome come membro di quella che qualcuno aveva deciso di chiamare la Nuova Razza.
Come Jack Fields, Oppenheimer aveva due figli ed era divorziato, ma non era mai da solo. Con lui viveva una giovane attrice sveglia e graziosa di nome Ellis, che si vantava di riuscire a trovare ogni giorno nuovi modi per fargli piacere, spesso gli rivolgeva lunghi sguardi appassionati ai quali lui non sembrava far caso, e aveva l’abitudine di chiamarlo «Amore mio» – a bassa voce, enfatizzando il «mio». E riusciva a essere anche un’attenta padrona di casa.
«Jack?», chiese un pomeriggio al tramonto mentre porgeva al suo ospite un drink in un bicchiere pesante e costoso. «Ti hanno mai detto cosa fece Fitzgerald quando viveva qui in riva al mare? Mise davanti alla casa un cartello che diceva “Honi soit qui Malibu”».
«Ah sì? No, non l’avevo mai sentito».
«Non è magnifico? Dio mio, quanto sarebbe stato divertente esserci allora, quando tutti i veri...»
«Ellie!», chiamò Carl Oppenheimer dall’altro capo della stanza, dove era chino a sbatacchiare gli sportelli di vari mobiletti dietro un bancone da bar in sontuoso legno biondo e cuoio, lungo e ben fornito. «Ellie, puoi dare un’occhiata in cucina e cercare di capire che cazzo di fine ha fatto tutto il brodo?»
«Oh, certo, amore mio», rispose lei, «ma se non sbaglio a te il bullshot piace di mattina».
«Qualche volta sì», ribatté Carl, tirandosi su e sorridendo in un modo che suggeriva esasperazione e autocontrollo. «Qualche volta no. E si dà il caso che mi sia venuta voglia di prepararne un po’ adesso. E il punto è, semplicemente, che mi piacerebbe sapere come cazzo faccio a preparare i bullshot senza quel cazzo di brodo, mi segui?»
E mentre Ellis si affrettava obbediente in cucina, entrambi gli uomini si girarono a guardare il movimento delle sue natiche sode e frementi dentro i pantaloni attillati.
Ormai Jack era diventato impaziente di trovarsi un appartamento tutto suo, e magari perfino una ragazza tutta sua, così appena la sceneggiatura fu abbozzata per sommi capi – appena si furono messi d’accordo su quella che Oppenheimer chiamava l’essenza del film – si trasferì.
Qualche chilometro più avanti sulla superstrada costiera, in quella parte di Malibu che dalla strada pare solo una fila di bicocche malmenate dalle intemperie e ammassate le une sulle altre, prese in affitto il piano inferiore di una piccolissima casa a due piani sulla spiaggia. Aveva una esigua finestra panoramica che dava sull’oceano e una verandina di cemento col pavimento coperto di sabbia, ma in pratica non aveva altro. Si rese conto solo dopo avere traslocato – e dopo aver pagato i tre mesi di affitto richiesti in anticipo – che quel posto era quasi altrettanto lugubre e umido della sua cantina newyorkese. Poi, secondo uno schema che gli era da tempo familiare, cominciò a preoccuparsi per se stesso: forse era incapace di trovare luce e spazio nel mondo; forse la sua natura avrebbe sempre cercato il buio e la reclusione e la decadenza. Forse – e questa era una frase popolare all’epoca sui rotocalchi nazionali – aveva un temperamento autodistruttivo.
Per liberarsi da quei pensieri tirò fuori diverse buone ragioni per andare in città e incontrare subito il suo agente; e quando si trovò fuori nel sole pomeridiano, con la macchina presa a noleggio che ronzava passando accanto a masse di vivido fogliame tropicale, cominciò a sentirsi bene.
L’agente si chiamava Edgar Todd, e il suo ufficio era quasi in cima a un nuovo edificio a torre ai margini di Beverly Hills. Jack era andato a parlare con lui tre o quattro volte – la prima, quando gli aveva chiesto come fare a ottenere la foto autografata di Richard Chamberlain, si era rivelata una faccenda che Edgar Todd poteva sistemare con una sola telefonata rapida e noncurante – e ogni volta aveva notato con crescente interesse che la segretaria di Edgar, Sally Baldwin, era una ragazza eccezionalmente carina.
A prima vista poteva sembrare che non rientrasse nella categoria delle «ragazze» perché i suoi capelli acconciati con cura erano grigi, con mèches argentate, ma l’ovale e la consistenza del viso indicavano che non doveva avere più di trentacinque anni, e lo stesso valeva per l’incedere slanciato e flessuoso con il quale si muoveva sulle lunghe gambe. Una volta gli aveva detto che «adorava» il suo libro ed era sicura che un giorno sarebbe stato trasformato in un magnifico film; un’altra volta, mentre lui stava uscendo dall’ufficio, gli aveva detto: «Come mai non la vediamo più spesso? Torni a trovarci».
Ma quel giorno non c’era. Non era alla sua ordinata scrivania da segretaria nella sala rivestita di moquette davanti all’ufficio di Edgar, e non si vedeva da nessun’altra parte. Era venerdì pomeriggio; probabilmente era andata a casa prima, e Jack provò un brivido di delusione finché non vide che la porta della stanza di Edgar era socchiusa. Bussò piano, due volte, poi la spinse ed entrò... ed eccola lì, più adorabile che mai, seduta all’enorme scrivania di Edgar, con i dorsi di almeno mille romanzi dalle copertine vivaci che facevano da sfondo al suo viso dolce. Stava leggendo.
«Buonasera, Sally», disse.
«Ah, buonasera. Che bello vederla».
«Edgar è già andato via per oggi?»
«Mah, ha detto che usciva per pranzo, ma non credo che lo rivedremo prima della settimana prossima. Mi fa piacere che sia venuto a interrompermi, però; stavo leggendo il romanzo più brutto dell’anno».
«È lei che legge i romanzi al posto di Edgar?»
«Ecco, per la maggior parte sì. Lui non ne ha il tempo, e comunque odia leggere. Perciò gli batto a macchina dei riassuntini di una o due pagine per tutti i libri che arrivano, e lui legge quelli».
«Ah. Be’, senta, Sally, che ne dice di venire a bere qualcosa con me?»
«Mi piacerebbe molto», rispose lei, chiudendo il libro. «Cominciavo a pensare che non me l’avrebbe mai chiesto».
E meno di due ore dopo, seduti a un tavolino in penombra nel bar di un famoso albergo, si tenevano le mani timidamente ma con fermezza perché era chiaro e deciso che quella sera lei sarebbe venuta a casa sua – e, implicitamente, che vi avrebbe trascorso l’intero weekend. Guardandola, Jack Fields aveva cominciato a sentirsi calmo e forte e sanguigno come se l’idea di avere un temperamento autodistruttivo non gli fosse mai passata per la testa. Stava benone. Il mondo era ancora intatto, e cosa fosse a farlo girare lo sapevano tutti.
«Però senti, Jack», disse lei. «Possiamo fermarci in un posto, prima? Qui a Beverly Hills? Perché devo prendere un po’ di cose, e comunque mi farebbe piacere mostrarti dove abito».
E gli indicò la strada, mentre lui guidava lungo la leggera salita con cui si apre la zona residenziale di Beverly Hills, prima che cominci la parte più ripida. Jack scoprì che tutte le strade del quartiere erano disposte in curve aggraziate, come se chi le aveva progettate fosse stato incapace di tollerare il pensiero di una linea diritta, e che c’erano palme altissime, slanciate ed eleganti disposte a intervalli scrupolosamente misurati. Alcune delle grandi case che fiancheggiavano la strada erano molto belle, altre erano ordinarie e altre ancora erano brutte, ma tutte indicavano una ricchezza che superava la comprensione di un uomo comune.
«Adesso, se prendi la prossima a sinistra», disse Sally, «siamo praticamente arrivati. Bene... Qui».
«Tu abiti qui
«Eh sì. Dopo ti spiego».
Era un’immensa villa bianca in stile Vecchio Sud, con almeno sei colonne che s’innalzavano dal portico fino al maestoso sottoportico, con un’infinità di finestre illuminate dal sole, con un lungo ampliamento sotto forma di ala da un lato e, al di là di una piscina, diverse dépendance collegate fra loro, dello stesso colore e stile.
«Noi entriamo sempre da qua, passando accanto alla piscina», spiegò Sally. «La porta principale non la usa mai nessuno».
E l’ampia stanza in cui lo fece entrare dalla terrazza che dava sulla piscina era quello che Jack immaginò si potesse definire uno studiolo, per quanto avrebbe potuto benissimo essere una biblioteca se Sally avesse trovato il modo di portarsi a casa i mille romanzi che Edgar Todd aveva in ufficio. Le alte pareti erano rivestite in legno di una gradevole tonalità scura, c’erano profondi divani e poltrone di pelle, e c’era un caminetto dentro il quale ondeggiavano delle fiammelle, anche se la giornata era tiepida. Intorno al focolare erano disposte delle panche di ferro battuto con il sedile di pelle imbottita, e su una di queste panche era seduto un ragazzino pallido e triste sui tredici anni, con le spalle voltate al fuoco e le mani intrecciate fra le ginocchia, che aveva l’aria di essere venuto a sedersi lì perché non c’era altro che potesse fare.
«Ciao, Kick», gli disse Sally. «Kicker, voglio presentarti Jack Fields. Questo è Kicker Jarvis».
«C...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Innamoràti delle bugie di Giorgio Vasta
  4. Yates scritto da Yates – profilo bio-bibliografico
  5. Bibliografia
  6. Bugiardi e innamorati
  7. / Oh, Giuseppe, sono tanto stanca
  8. / Una ragazza naturale
  9. / Partecipare alla corsa
  10. / Bugiardi e innamorati
  11. / Motivi di famiglia
  12. / Saluti a casa
  13. / Addio a Sally