La Sicilia è un'isola per modo di dire
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La Sicilia è un'isola per modo di dire

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La Sicilia è un'isola per modo di dire

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«La Sicilia è un'isola per modo di dire è molte cose insieme»: un libro di raffinata e irresistibile comicità, un racconto lucido di una terra molto amata, un diario di viaggio curioso e impertinente, un manuale d'istruzioni per montare e smontare il mito della sicilitudine. Mario Fillioley sa bene di trovarsi davanti un luogo fin troppo raccontato, ammantato di una sua tradizione che – dal ciclo dei vinti fino alle fiction televisive – ha accumulato e inglobato una serie sterminata di versioni, sempre al confine tra topos e stereotipo. E sa che per raccontarlo, quel luogo, nelle sue infinite manifestazioni, ha una sola arma vincente: l'ironia. Evitando tanto le pose retoriche quanto quelle antiretoriche, Fillioley parla al lettore come fosse un amico, senza trucchi e senza ipocrisie. Riesce così in un'impresa apparentemente impossibile: dire qualcosa di nuovo sull'isola troppo grande, troppo complessa, l'isola per modo di dire. Raccontare, con leggerezza e amoroso disincanto, una Sicilia diversa, non definitiva e quindi tanto più vera e credibile.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788833890197

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CAGNOLI

Nel 2000 ci siamo trasferiti in villetta molto presto, in aprile, e ci siamo rimasti per un anno e mezzo, fino al Natale del 2001. In Ortigia era partito il progetto Urban, finanziamenti europei, ottanta per cento a fondo perduto per tetto e facciata, una bella occasione, finalmente si poteva ristrutturare la casa di città.
Casa nostra in Ortigia, effettivamente, ne aveva bisogno: lavori continuamente posposti per varie necessità, economiche, familiari, e poi permessi, autorizzazioni, in Ortigia, dagli anni Novanta in poi, bastava che piantassi un chiodo in una parete e subito ti ritrovavi in casa il soprintendente. La casa è antica, ma non del tutto, diciamo che è fatta a strati: ci abitava già il mio bisnonno, ma all’epoca era fatta solo da una specie di piccolo piano ammezzato e da un primo piano di due sole stanze.
Mio nonno, siamo nel dopoguerra, ha una laurea in giurisprudenza e si è abilitato come procuratore legale: sul finire degli anni Quaranta, con una laurea in giurisprudenza potevi fare quello che volevi. Infatti a nemmeno ventitré anni è impiegato di banca, a venticinque ha già fatto diversi scatti di carriera, ma nel 1951, a ventisette, decide che la banca non gli piace più e fa un concorso pubblico. Lo vince: cancelliere in tribunale, però ad Asti. Parte, se ne va, ha già una figlia, cioè mia zia, di circa sei anni. Mio padre invece nasce là, in Piemonte.
Il fratello maggiore di mio nonno si è laureato anche lui, a Torino, poi è tornato a vivere a Siracusa, però non ama abitare la città: troppa gente, troppe macchine (scrive lunghissime invettive su certi giornali locali, tutte di stampo luddista, in particolare contro la motorizzazione di massa: lui camminerà esclusivamente a piedi fino ai novant’anni), ha avviato con successo uno studio legale, coi primi soldi compra un terreno su una specie di colle, zona Teatro Greco, all’epoca praticamente campagna, e si costruisce una casa. A un certo punto si accorge che questo studio legale va abbastanza bene, allora chiama mio nonno, gli dice: Ma torna qua, scusa, che ci fai ad Asti? Hai la laurea in giurisprudenza, sei un avvocato, ti metti a lavorare con me, no? Mio nonno non ci pensa un minuto. piglia mio padre ancora in fasce, e riparte. Siamo nel ’54.
Quando mio nonno torna da Asti, nella casa di Ortigia ci si trasferisce lui, ha già moglie e due figli, e oltretutto si porta dietro la madre, che viene a vivere con loro, gli serve spazio, ma tanto sono gli anni Cinquanta, lo studio legale va bene, e poi non ci sono ancora piani regolatori, niente soprintendenti che ti piombano in casa mentre appendi il quadro. Mio nonno, senza manco contravvenire a nulla, amplia di due stanze il primo piano e qualche anno dopo alza un secondo piano.
Com’è bello l’autunno sulla veranda del Plemmirio, pensiamo noi nel 2000, durante la nostra villeggiatura obbligata, col giardino che si bagna di pioggia e diventa incolto in questo modo dolce, selvaggio e spontaneo, ce ne stiamo sotto il tetto della veranda, ammirati di fronte alla forza della natura che riconquista i suoi spazi, e poi le tamerici salmastre, come si fanno rigogliose, ci mettono un attimo a crescere due gocce d’acqua e bum, da cespugli ad alberi. Però attenta, o Ermione, dice mio padre a mia madre, la pioggia è tradimentosa, con quei vestimenti leggeri finisce che ti viene il broncospasmo. In inverno, poi, la stufa a legna, la resina delle acacie così dura a bruciare, mio padre che imbuca di continuo pezzi di corteccia di eucalipto dentro la stufa: Fanno un buon profumo, dice, e noi tutti a tossire perché in realtà fanno un sacco di fumo e non riscaldano per niente. Il bel clima che c’era in soggiorno, coi vetri che s’appannano, tutta la famiglia, di sera, seduta a tavola a giocare a Scarabeo perché col vento l’antenna della tv s’è spezzata e ora si vede solo Rai 1.
Certo, l’altra faccia della medaglia si fa sentire presto: tanti chilometri su e giù, ogni giorno avanti e indietro dalla città, quasi trentadue, per essere precisi, dopo un poco si avverte la scomodità, gli orari si inseguono, le giornate incalzano. Ma quando finiscono questi lavori, che così ce ne torniamo a casa?
I lavori sono diretti da Santi Tenaglia, ingegnere edile, padre del mio migliore amico, attivo in un comitato civico per la difesa di Ortigia, un tipo pilicuso, si dice a Siracusa, uno che fa le pulci alle cose. Infatti è molto amico di mio zio Vitruvio.
Nel ’92, invece, otto anni prima di questo trasferimento in villetta, c’era stata da decidere la questione di dove fare l’università. Io già al liceo avrei voluto fare il linguistico, ma all’epoca il linguistico di Siracusa era gestito dalle Orsoline e questa cosa non convinceva molto i miei. Sì, bello studiare le lingue, però ci dispiace non si può fare, mi avevano detto, non è che ce l’abbiamo con le suore di Siracusa in particolare, ma è che non riusciamo a fidarci: cos’è questa storia che paghi e ti danno un diploma? Ricordiamoci che i cattolici sono quelli delle indulgenze plenarie, soldi soldi e via il peccato. Liceo classico, quindi, pubblico, e non se ne parla più. Almeno fino all’estate del diploma; a quel punto, a tavola, mi fanno la domanda: E ora a che facoltà ti vuoi iscrivere? Io pensavo sempre a Lingue, stavolta c’erano facoltà laiche e pubbliche, nessun mercato delle indulgenze, non credevo di incontrare ostacoli, invece mia madre era informatissima: Ma tu vuoi fare il corso di laurea in Lingue che si tiene nella facoltà di Lettere o il corso di laurea in Lingue che si tiene nella facoltà di Lingue? La differenza ora non me la ricordo più, ma mi ricordo che, anche dopo che me l’aveva spiegata, a me era continuata a sembrare speciosa, e mi c’era voluto un po’ per costringerla a esplicitare il punto. Senti, mi aveva detto, secondo me se ti iscrivi a Lingue, finirà che leggerai tanti bellissimi romanzi, tanta letteratura di vari paesi, però non farai mai le letture difficili. Che letture difficili?, avevo chiesto io. Eh, aveva detto mia madre, i saggi di storia e quelli di filosofia: quelli o li leggi per fare un esame, perché qualcuno ti costringe a fare la fatica di leggerli, oppure tu da solo, per conto tuo, non te li leggerai mai. Io infatti non volevo fare nessuna fatica, e pensavo all’università come a una serie di tavolini, all’aperto e al chiuso, in bar che nel mio immaginario si chiamavano tutti Caffè Verri o Caffè Florian ed erano pieni di giovani in marsina, coi baffi a manubrio, che leggevano il giornale e lo commentavano coi versi di Hölderlin oppure con quelli tratti da un loro scritto d’occasione cui al momento stavano lavorando per risvegliare le coscienze sopite, e non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi e darmi alla propaganda antiaustriaca. Alla fine, comunque, avevo capito l’antifona, e mi ero rassegnato a chiedere: Quindi a cosa mi devo iscrivere? E mia madre: O a Filosofia o a Storia. Pace.
Adesso però bisognava capire dove: Catania, in primis, due passi da casa, nomea di buona facoltà, i miei fanno le loro verifiche, decidono che si può fare. Sì, avevo chiesto io, va bene, ma a Catania c’è almeno un bar che si chiami Caffè Florian? Niente, a Catania il caffè più antico era Scardaci, rinomato per le cipolline e le siciliane tuma e acciughe. Io uno con la marsina sporca di ragù non me lo riuscivo a immaginare: non accettai. Mio padre all’idea che partissi era già in ansia: Allora, aveva detto, visto che te ne devi andare a studiare fuori, ti iscriviamo nella facoltà migliore che c’è. Va bene, mi pare giusto, ma qual è? I miei chiedono a tutti i loro amici insegnanti, in particolare a quelli di lettere o di storia e filosofia. Elio è il più bravo di tutti: riceve me e mio padre nel suo soggiorno pieno di libri e riviste accatastate dappertutto, sul tappeto, sulle poltrone. Accomodatevi, ci dice. Sì ma accomodatevi dove?, pensiamo io e mio padre, poi mio padre scosta una pila di bloc notes da un divano e ci sediamo sopra un gatto, che si mette a soffiare forte verso di noi. Elio si è procurato gli annuari di tutte le facoltà di Filosofia d’Italia. Ha tutto: gli organigrammi, i programmi d’esame dell’anno precedente, conosce nomi, luoghi, pubblicazioni, però nemmeno ci guarda, siamo seduti di fronte a lui e lui è dietro dei fogli, che legge e mormora cose tra sé. Elio, gli dice mio padre, guarda che però il gatto ci sta soffiando. Lui allora ci dice: Sentite, stringi stringi, la scelta è tra queste tre: Napoli, Venezia e Pisa. Buono, penso io, a Napoli c’è il Gambrinus: morte ai Borbone, scriverò versi di fuoco! Mio padre dice: Allora siamo a posto, che ci vuole? Se ne va a Pisa, ovvio. E perché?, gli dico io. Mio padre si è già alzato e sta dando una pedata al gatto: Napoli è un manicomio, Venezia è troppo lontana, te ne vai a Pisa che è piccola e raggiungibile.
A Pisa c’erano i caffè, ma niente panciotti, nessuna marsina, baffi a manubrio manco a parlarne, un sacco di marxisti-leninisti, due centri sociali attivissimi, un buon numero di anacronistici eroinomani. Ma soprattutto a Pisa c’erano i normalisti. Erano tra noi, studenti comuni, però non erano come noi. Facevano le nostre stesse cose: andavano a mensa all’una e un quarto e poi andavano a studiare al settimo piano di Palazzo dei Cavalieri, o forse era il sesto o il quinto, non me lo ricordo più, comunque era l’ultimo, la soffitta, quella dove c’erano i libri di filosofia. Noi ci sedevamo con un libro davanti e lo sottolineavamo per una o due ore senza capirci niente. Oltretutto era dopo mangiato, a me veniva sempre sonno, e all’ultimo piano i termosifoni funzionavano bene, c’era un bel calduccio, capitava che mi addormentavo e quando mi svegliavo, verso le tre, tre e un quarto di pomeriggio, il picco glicemico nel sangue mi faceva venire voglia di KitKat. Scendevo alla macchinetta, me lo compravo, poi tornavo su e riprendevo a sottolineare i libri della biblioteca. Certe volte facevo danno: le dita sporche di cioccolato al latte lasciavano una striscia color diarrea di neonato su passi epocali di La religione nei limiti della semplice ragione. I normalisti invece si sedevano a un tavolone della sala più grande, lungo e massiccio: quando lo guardavo vuoto, senza libri sopra, sgombro, mi veniva sempre di pensare al putsch di Monaco. I normalisti ci appoggiavano sopra pile di sei, otto libri diversi alla volta, in un equilibrio perfetto. Ne sfilavano uno, lo aprivano, non sottolineavano mai niente, poi un altro, poi rifacevano la pila in un altro punto del tavolo. Leggevano solo le bibliografie in coda al libro e ogni tanto qualcuno di loro diceva: Ah, ecco! Per il resto, i normalisti parlavano fitto tra loro. Ogni tanto si alzavano per bisbigliarsi delle frasi più da vicino, spesso si scaldavano e polemizzavano e si dicevano tra loro cose molto pesanti tipo: La prassi... La prassi un cazzo!, però sempre bisbigliando, solo un poco più forte, per non dare fastidio a noi. In realtà non ci davano nessun fastidio, perché per noi si trattava più che altro di un lavoro di sottolineatura, terminato il quale cancellavamo il libro dall’elenco dei testi in programma per l’esame.
E a Pisa c’era pioggia a catinelle per mesi, settimane e settimane da settembre a giugno in cui piove ininterrottamente. Una strada, una sola, Borgo Stretto, con i portici, il resto no, camminavi a capo scoperto. Dopo due mesi che mi fregano tutti gli ombrelli e piglio l’acqua per tornare a casa, mi rendo conto di una cosa: ma com’è che qua non ci sono balconi sotto i quali ripararsi?
Un balcone, nel centro storico di Pisa, è una rarità. A Siracusa, invece, mai uscito con l’ombrello. Quando qualcuno mi diceva: Ma portati l’ombrello!, io rispondevo sempre: Vabbè, tanto sono due passi, mi riparo sotto i balconi. A Pisa, invece, quali balconi? Com’è che qua, dove oltretutto piove così tanto, non ci sono i balconi? Eh, mi dice Ciccio il Mostro, che in quello stesso periodo si è trasferito a Firenze per fare Architettura: tu confondi la causa con lo scopo. Che scopo?, chiedo io. Il Mostro mi spiega: I balconi non servono a ripararcisi sotto quando piove, quella è una cosa che facciamo noi perché siamo troppo pigri per prendere l’ombrello, coprire i passanti dalla pioggia è una funzione del tutto accessoria del balcone, i balconi in realtà servono a passarci del tempo affacciati, e siccome qua piove tanto, a nessuno serve un balcone per starci affacciato, quindi lo spazio che noi destiniamo al balcone, i toscani se lo conservano per l’interno della stanza. Ah, dico io, giusto. Allora chissà quanti pochi balconi ci saranno in Inghilterra. Eh, mi fa lui, quella infatti è la patria del bovindo.
In Ortigia, la casa che a breve lascerò per andarmene a Pisa, nel ’92, com’è fatta? Camera mia è al secondo piano, quello alzato da mio nonno. È un secondo piano di pessima costruzione: metà anni Cinquanta, tecnologia edile ancora primitiva e moda di pessimo gusto, modernariato, moplen, mobili laccati, legno reso lucido da patine che lo fanno sembrare plastica. Mio nonno, una laurea che nel dopoguerra gli ha aperto mille porte, si sta ritrovando benestante senza neanche accorgersene, e infatti si mangia i soldi a minchiate: gioca a chemin le sere di Natale e perde tutto, fa viaggi in Russia e in Egitto con tutta la famiglia, e alza un secondo piano in una casa antica di Ortigia. I lavori li affida al geometra Perez, uno che va per la maggiore: la città è in forte espansione edilizia, Perez mette la sua firma su molti dei nuovi condomini di corso Gelone e viale Teracati, i quartieri appena sorti sul colle Temenite, che rappresentano l’aspirazione sociale del ceto medio siracusano. Perez però sa fare quella cosa e basta: applica il suo stile a qualsiasi cosa faccia, per esempio ai balconi di un secondo piano in Ortigia.
La strada presso la quale abitiamo è una viuzza stretta, una di quelle che in dialetto venivano dette vanedda, in contrapposizione a quella che veniva detta rò, dal francese rue, cioè strada vera e propria: a pochi passi da casa mia, infatti, parte la masciarò, la mastrarua, cioè la strada maestra, quella principale, quella dell’antico passeggio, che oggi si chiama via Vittorio Veneto e non è più la strada principale di niente. La mia, in ogni caso, è solo una stradina, con una bella infilata di balconi barocchi, tutti coi cagnoli, quegli elementi un po’ funzionali e un po’ decorativi che stanno sotto ai balconi e sembrano sorreggerli. Nella strada, nemmeno un balcone senza questi cagnoli; pure i balconi del mio primo piano, quello antico, ce li hanno. Perez invece dice a mio nonno: Ma che sono ’ste cose vecchie?, e sul secondo piano costruisce una lunghissima balconata in puro stile protocondominiale, senza cagnoli. Chiunque si metta all’imbocco e guardi la strada, che è bella e fa due piccole curve appena accennate e poi finisce su uno scorcio di lungomare, nota l’infilata di cagnoli che corre fino ad arrivare al mio balcone, dove PUM: un pugno in un occhio, niente cagnoli.
Durante il primo anno di Filosofia, a Pisa bisognava scegliersi quali materie seguire e quali esami dare: era una facoltà piena di marxisti-leninisti, ma anche di bakuniani sfegatati. I rappresentanti degli studenti avevano ottenuto un ordinamento di facoltà abbastanza anarchico: non ci sono esami obbligatori, basta dare i fondamentali, quando si vuole, niente vincoli di primo, secondo, terzo anno, scegli tu cosa studiare e quando. Bellissimo, ma io sono molto confuso, vado a tutte le lezioni, per tre mesi faccio l’auditore o meglio il turista, comincio almeno dodici corsi e ne abbandono altrettanti, oltretutto girando la città a piedi e bagnandomi un sacco: le lezioni di logica si tengono a Matematica, quelle di psicologia a Medicina, quelle di teoria e storia dei sistemi politici a Economia, tutte facoltà che distano parecchio tra loro, va bene che con la pioggia non ci si può affacciare sul balcone, ma questi architetti toscani tutti così egoisti da non pensare mai a chi si ritrova a camminare per strada senza ombrello? Niente: nessuna misericordia per il viandante, la sacralità dell’ospite pellegrino mandata a farsi benedire, «acqua davanti e vento di dietro», come si dice dalle mie parti.
Alla fine, tutto bagnato, decido che gli esami che meno mi va di seguire sono quelli di storia e me li lascio per ultimi. L’ultimo in assoluto è storia moderna, un manuale che va dalla fine del Medioevo alle guerre napoleoniche, un mare di cose, uno sterminio di avvenimenti bellici, e nomi su nomi di dinastie che regnano, poi non regnano più, prima s’alleano e poi si fanno la guerra, chi ci capisce niente. Per fortuna ci sono le monografie: a me ne tocca una sui mercanti inglesi del Settecento. La leggo mentre sono a casa per le vacanze di Pasqua del 2000, le mie ultime da studente universitario. Il Lunedì dell’Angelo, io e Ciccio il Mostro, pure lui in odore di laurea, siamo in gita fuori porta, a Noto, io mi porto dietro questo librone: a Noto c’è il caffè Sicilia, Foscolo non ci ha mai messo piede, va bene, ma fanno benissimo lo schiumone, e di fronte hai via Nicolaci, un’infilata mai vista di balconi in stile tardo barocco. Tutto questo riparo e nemmeno un poco di pioggia – penso mentre il Mostro è sotto a uno di quei balconi a riempire di disegni un album Fabriano e io mi ordino il terzo schiumone – in una strada così dovrebbe piovere sempre, anche quando nel resto della città c’è il sole.
I balconi di via Nicolaci, però, non è che abbiano niente di funzionale, sono famosi più che altro per i cagnoli: i cagnoli sono il vero motivo per cui via Nicolaci e Palazzo Nicolaci vengono visitati, anzi addirittura sono il vero motivo per cui un turista decide di visitare Noto in generale. E bisogna dire che i cagnoli di Palazzo Nicolaci sono di una magnificenza assurda, se non altro nel senso che raffigurano bestie ibride, metà leoni metà aquile, tanto brutte da risultare belle, uno sforzo di fantasia che per chi ne ha immaginato le fattezze deve essere di sicuro stato faticoso. Io comunque ho questa monografia sui mercanti inglesi e olandesi del Settecento: c’è scritto che questi inglesi e questi olandesi, nel Settecento, investivano nella cosa più tecnologica che c’era all’epoca in Inghilterra, cioè le navi, navi sempre più moderne, più adatte a lunghi viaggi veloci, più capienti per le merci e allo stesso tempo più agili e più resistenti, dotate di tutti i mezzi allora a disposizione per facilitare la navigazione, aggiustare la rotta, governare il timone, manovrare alberi e vele. Appena avevano due lire, questi borghesi dell’Inghilterra e dell’Olanda che facevano? Le investivano in una nave nuova, che poi gli procurava più guadagni, che venivano reinvestiti in altre navi, cosa che creava molta occupazione nei cantieri navali e negli equipaggi e alimentava i commerci, e insomma l’economia inglese e quella olandese del Settecento volavano, i due paesi dominavano i mari ed erano i più ricchi del mondo, in molti stavano bene, al punto che anche i vecchi aristocratici, quelli che possedevano terre a non finire, vendevano i loro poderi e usavano i soldi per mettere su una flotta e moltiplicare il denaro investito dandosi ai commerci, all’imprenditoria navale e mercantile, compagnie delle Indie varie, male che andava, i più disgraziati, si mettevano a fare i pirati con l’avallo della regina e diventavano ricchi corsari. Progresso e ricchezza, relativamente all’epoca, ben più diffusi che negli altri paesi europei.
Palazzo Nicolaci lo disegna un architetto nel 1720, c’è stato un terremoto molto forte sul finire del Seicento, Noto è tutta da ricostruire, il principe di Villadorata è il signore assoluto del posto, è pieno di soldi, decide che adesso si costruisce un palazzo su una delle colline della città, in cima a una salita. Il principe non sa bene come spendere quello che le campagne gli rendono, ha il mare a due passi, anzi proprio sotto casa, ettari di vigneti, mandorleti, e soprattutto limoneti: all’epoca il limone è considerato una specie di oro, tutti vogliono limoni per farci qualunque cosa, dai farmaci ai detersivi ai dolci, e questi infiniti campi, che oltretutto lui fa coltivare da mezzadri che sono quasi schiavi e quindi rendono già abbastanza, degradano fin quasi sulla spiaggia, caricarli sulla stiva di una nave e portarli in giro per il mondo sarebbe una fesseria, un investimento da due lire. Però il principe di Villadorata non vuole una stiva e non vuole una nave che salpi sicura dalle sponde di Eloro e arrivi altrettanto sicura oltreoceano. Vuole dei balconi. Tanti balconi. Una infilata di balconi lunga quanto tutta la strada. Li fa costruire. Ci si impegna tanto, a farli costruire: una nave si fa in sei mesi, per fare i balconi che fa fare il principe di Villadorata ci vogliono quasi trent’anni. Dopo questi trent’anni, i balconi, bisogna riconoscerlo, sono venuti veramente bene, e oltretutto lui e la sua famiglia hanno ancora un bel po’ di soldi, io sono là che mi leggo la monografia sulla borghesia navale inglese e olandese, e mi metto a tifare ad alta voce: Avanti! Adesso che hai i tuo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. / Villette
  4. / Professoresse
  5. / Panettieri
  6. / Caponatina
  7. / Triangoli
  8. / Pesci
  9. / Patenti nautiche
  10. / Cagnoli
  11. / Normanni
  12. / Nonne
  13. / Lidi
  14. / Bigliettai
  15. / Custodi
  16. / Niente fai tu e niente fai fare agli altri
  17. / Finale