Libia anno zero
eBook - ePub

Libia anno zero

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Libia anno zero

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Cosa sta accadendo in Libia? Una rivoluzione democratica sorella di quelle tunisina e egiziana? Oppure una guerra imperialista che maschera con l'ipocrisia dei diritti umani gli interessi per il petrolio? Oppure ancora un conflitto fra etnie diverse sul modello balcanico? Mentre gli opinionisti di mezzo mondo discettano sull'opportunità o meno dell'intervento dell'Onu, mentre i nostri politici gridano all'emergenza evocando un'invasione biblica di migranti, un giornalista esperto di Maghreb come Stefano Liberti decide, come al solito, di fidarsi dei suoi occhi: e per capire l'insurrezione degli shabab – i giovani che hanno detto "basta" al regime quarantennale di Gheddafi – vola a Bengasi e racconta in presa diretta un mese di guerra. Non troverà delle risposte, ma riconoscerà ancora una volta la necessità di essere sul posto per conoscere le storie degli uomini che fanno la storia. In Libia anno zero troverete il diario di un inviato al fronte di una guerra che non si dice tale: nelle sue corrispondenze riconoscerete una voce che cambia ogni giorno, riverberando l'eco di quello che accade intorno. Ci sono le truppe lealiste che avanzano, le bombe francesi che cominciano a cadere, una società civile che con grande fatica sta nascendo. E noi, come lui, non sappiamo come andrà a finire.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Libia anno zero di Stefano Liberti in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a History e Military & Maritime History. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788875213152
20 marzo 2011
L’ANGOSCIA DI BENGASI
Le esplosioni cominciano alle prime luci dell’alba. Botti in lontananza, dalla parte ovest della città. Continui, martellanti. Fumo nero che si alza. E poi i colpi, secchi, della contraerea. Bengasi si sveglia sotto assedio. Le truppe di Gheddafi sono subito fuori città. Nonostante il cessate-il-fuoco dichiarato urbi et orbi dal ministro degli esteri Moussa Koussa, i soldati lealisti sono avanzati e hanno cominciato a colpire con i razzi dalla parte sud-ovest. Sono arrivati da Ajdabiya, avanzando velocemente sulla strada della costa. «Non abbiamo intenzione di entrare a Bengasi», avevano affermato vari alti papaveri del regime solo l’altroieri.
Eccoli invece in città. Si avvicinano. L’esercito dei rivoluzionari del 17 febbraio alza le barricate. Risponde al fuoco. Fischiano razzi e contraerea. Andiamo a vedere. Facciamo un paio di chilometri. Vicino al fronte un miliziano ci fa segno di no. L’autista fa marcia indietro. Subito dopo si sente un colpo secco di razzo, vicinissimo. Scatta la contraerea. Fuggiamo sgommando a tutta velocità.
Nel cielo volteggia un aereo. Vola dalla stessa parte del mare. Le mitragliatrici entrano in azione. Lo colpiscono. Il velivolo va a fuoco e precipita. Il pilota si lancia con il paracadute. Dalla strada si levano grida di giubilo: «Allah Akbar», Dio è grande. Più tardi si scoprirà che era un mezzo dei ribelli di ritorno da una ricognizione. Secondo fonti del Consiglio nazionale transitorio, nel corso della giornata due aerei dei «giovani rivoluzionari» sono precipitati: uno è quello che abbiamo visto, colpito da fuoco amico, un altro sarebbe invece caduto per un problema al motore.
Le strade si riempiono di gente che fugge a est, verso la frontiera egiziana. Scappano come possono. In macchina, con i bagagli accatastati sul tetto. In furgoncino. In taxi. Vanno a casa di amici o di familiari. Alcuni dicono che vanno in Egitto. Il prezzo di un taxi collettivo per Tobruk, l’ultima città prima della frontiera egiziana, è schizzato da 70 a 250 dinari (da 35 a 125 euro). La città si svuota: i negozi chiudono. È difficile anche trovare da mangiare.
Gli insorti si preparano alla battaglia finale: si schierano dietro trincee improvvisate. Preparano bottiglie molotov. Si fanno forza a vicenda. Ma il morale è basso. Solo verso mezzogiorno c’è una fiammata di entusiasmo. I combattenti cominciano a girare per le strade strombazzando. «Li abbiamo respinti. Sono andati via». «Si sono ritirati a trenta chilometri dalla città». «No, a cinquanta». «Cosa dici? Si sono stabilizzati a dodici chilometri». Le notizie e le smentite si rincorrono. Non si capisce più nulla. I «giovani rivoluzionari» festeggiano inseguendo le voci di una vittoria che nessuno in realtà è in grado di confermare. Sparano in aria con il kalashnikov. Dicono di aver catturato due carri armati dell’esercito lealista e di averne bruciati altri tre. Ma l’impressione è esattamente opposta: il regime sta tornando. Gheddafi lo aveva detto: «Saremo spietati». «Vi troveremo». «Zenga, zenga, dar, dar», strada per strada, casa per casa. I rivoluzionari dicono che stanno vincendo. Ma gli abitanti di Bengasi se ne vanno, temendo la repressione del Colonnello.
All’ospedale Jala, vicino al centro, ci sono decine di morti stesi per terra. «Sono ventisei», dice un infermiere. «E centinaia di feriti». Durante la battaglia di Bengasi, nei tre ospedali della città sono arrivati settanta morti. Tre cadaveri carbonizzati giacciono al suolo. Un uomo ha il dito alzato, l’espressione sospesa, quasi fosse stato investito improvvisamente da una grande fiammata. Un altro è un ammasso di carne e interiora, non ha più fattezze umane. È chiuso in un sacco. In una stanza accanto, i cadaveri in condizioni migliori vengono lavati e messi in un lenzuolo, come prevede il rito musulmano. Un ragazzo ha un enorme buco dove prima c’era l’occhio sinistro. Un altro ha una ferita sul petto, con schizzi di sangue dappertutto che un ragazzo pulisce con una precisione certosina. C’è una confusione incredibile. «Ma che fanno gli occidentali. Quando arrivano?», grida un uomo sulla quarantina, appena entrato all’ospedale.
Un infermiere apre una cella frigorifera. Un lezzo nauseante si sparge per la stanza. L’odore acre della morte vecchia di almeno tre giorni. Dentro, ci sono quattro uomini. «Sono i miliziani di Gheddafi. Sono africani». Hanno effettivamente la pelle nera e i tratti dei sub-sahariani, anche se è difficile stabilire con certezza che non siano libici del sud. Li tengono lì per mostrarli ai pochissimi giornalisti rimasti in città. Per dimostrare che Gheddafi è isolato e che per sparare sul suo popolo può solo usare mercenari.
I cadaveri nel lenzuolo vengono portati fuori. Sono messi in bare di legno e portati via su diversi pick-up. Vengono sparati colpi di kalashnikov in onore di ogni shahid, ogni martire della battaglia di Bengasi. All’interno dell’ospedale ci sono decine di uomini armati. Arrivano ambulanze e feriti in macchina.
Un medico egiziano che è stato nei quartieri bombardati descrive scene raccapriccianti. I morti sono perlopiù civili colpiti nelle loro case. In piccole bare, giacciono due bambini di circa dieci anni. Un uomo con il mitra piange in un angolo. «È il padre?» Non risponde e va via. «Se entrano qui, faranno come ad Ajdabiya», dice sempre il medico egiziano. «Hanno sparato ovunque, senza pietà. Cecchini e soldati. Sono andati strada per strada, casa per casa. Zenga zenga, dar dar». Il bilancio del macello di Ajdabiya, secondo il dottore, sarebbe di ottocento morti.
Alla piazza del Tribunale il morale è in caduta libera. Pochissime persone. Solo gli irriducibili. L’atmosfera festosa che c’era ventiquattr’ore prima si è trasformata in puro terrore. Dentro il palazzo non c’è anima viva. I membri del Consiglio nazionale transitorio non ci sono. Sono tutti in località protette. Dalla facciata dell’edificio è scomparsa l’enorme bandiera della Francia che campeggiava fino all’altroieri. «Che fine ha fatto?» «Fra un po’ la rimettiamo», dicono alcuni uomini riuniti in piazza. «La Francia è nostra amica». Ma intanto l’hanno levata. Aspettano i bombardamenti. Se non dovessero arrivare, gli amati francesi – e la comunità internazionale tutta – saranno i principali traditori del popolo libico, quelli che hanno abbandonato Bengasi al suo destino e alla vendetta spietata promessa dal colonnello Gheddafi.
Ashor Zgogo, uno studente di ingegneria che nei giorni scorsi passava le sue giornate al tribunale, è solo di fronte al palazzo. Ha lo sguardo spento. «Tutto andrà per il meglio», dice con voce afona, gli occhi pietrificati. «La situazione sul terreno è a nostro vantaggio. Li abbiamo scacciati», ripete in modo meccanico, visibilmente sotto shock per quello che è successo nella mattina e per quello che potrebbe succedere nelle prossime ore. «Ci vediamo domani, ma stai attento», dice con un guizzo di vitalità, prima di ripiombare nel suo stato catatonico.
La televisione di stato libica annuncia che l’ex ministro degli interni di Tripoli, Abdel Fattah Younis, passato con i ribelli dopo il 17 febbraio, è tornato all’ovile e ha ripreso le sue funzioni. Al Arabiya e Al Jazeera mandano in onda un’intervista telefonica in cui l’interessato smentisce. Accanto alla guerra sul terreno, sempre più vicina e sempre più pesante, continua a combattersi la guerra dell’informazione. Secondo notizie non confermate, un giornalista della tv irachena Al Hurriya sarebbe stato ucciso da un cecchino. «Era un libico. Lo hanno colpito apposta perché diffondeva la verità», dicono in piazza. Nulla si può verificare. I telefoni sono completamente fuori uso ormai da due giorni.
Nel pomeriggio la città è vuota. Le truppe di Gheddafi hanno interrotto l’attacco. Forse si sono ritirate, come sostengono gli insorti. Forse hanno ripiegato per colpire di nuovo più tardi, magari nel corso della notte. Ci sono barricate ovunque. Ognuno sembra rispondere per sé. Alcuni miliziani sono amichevoli. Altri un po’ più aggressivi. Si sentono ogni tanto spari di kalashnikov, da tutte le parti. Si sparge la voce che uomini di Gheddafi in città, quelli della Lijan Thauria, i cosiddetti «comitati della rivoluzione» creati dal Colonnello in tutta la Libia, siano in strada e sparino all’impazzata sui passanti. Si diffonde il panico. Chi è rimasto, guarda la tv e ascolta la radio. Molti chiedono: «Che ora è a Parigi?» «Quando arrivano?» Il tramonto cala su una Bengasi deserta e spettral...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nota dell’autore
  5. «Arriveremo a Tripoli», l'urlo delle ragazze di Bengasi
  6. Una rivolta tutta in salita
  7. Ad Ajdabiya, sotto le bombe
  8. «Possibile che voi italiani ci lasciate morire qui?»
  9. «Arrendetevi». Bengasi resiste
  10. La festa dei ribelli. «Il futuro è nostro»
  11. L'angoscia di Bengasi
  12. Senza i bombardieri di Srkozy i lealisti avrebbero sfondato gli insorti di Bengasi: «Grazie Francia». E ora?
  13. Ajdabiya città morta. Razzi su Misurata
  14. Bengasi anno zero
  15. Ripresa Ajdabiya. Morte e macerie
  16. Misurata, città-prigione sotto assedio
  17. Nota biografica dell'autore