Il pieno di felicità
eBook - ePub

Il pieno di felicità

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il pieno di felicità

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Cosa accade quando, a trent'anni circa, non si riesce a trasformare, per responsabilità personali e destini generali, l'educazione, l'affetto e il supporto ricevuti in un lavoro stabile, in un'identità compiuta? Cecilia ha studiato quel che le andava, si è laureata e poi ha continuato a studiare. Insieme al fidanzato è finita a Coventry, una cittadina inglese dove si barcamena tra lavoretti e tentativi di proseguire la carriera universitaria. Ma non ci vive sul serio a Coventry, perché non perde occasione di spostarsi, tornare con un volo low cost a Bologna, la città degli studi e delle passioni, e nella provincia padana, a lungo rifiutata ma divenuta, a distanza, desiderabile. O anche di andare a Londra, per un lavoro di tre mesi e poi per un dottorato di tre anni, e dai molti amici (o Airbnb) che la accolgono e le fanno intravedere per qualche giorno la possibilità di una vita parallela – a Barcellona come a Helsinki e Berlino, in un'Europa alle soglie della Brexit ma per lei ancora senza muri.Il polo magnetico di questo girare tra incontri, piazze, concerti è quel «pieno di felicità» di una vecchia canzone dello Zecchino d'Oro che la protagonista aveva creduto raggiungibile, perché i suoi desideri le erano sembrati realistici, e che deve invece imparare a ridimensionare, adattare ai tempi della «classe disagiata» e di una inquieta lotta quotidiana. Cecilia, infatti, non si limita a subire il presente ma lo interpreta con ironia, e lo vive pienamente nelle incertezze che talvolta si trasformano in occasioni. E grazie a questa capacità di leggere il mondo ci regala un libro prezioso: intimo come un memoir, acuto come un saggio, ostinato e sincero come un romanzo generazionale.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il pieno di felicità di Cecilia Ghidotti in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Social Sciences e Cultural & Social Anthropology. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788833890357

1
immagine barra obliqua

SORROW, THEY PUT ME ON THE PILL

Il volto di Francesca illumina lo schermo del telefono mentre aspetto l’inizio del concerto, appoggiata a una transenna di fronte al palco. Sono anni che non faccio queste cose: le ore di attesa ai cancelli, la corsa fino alla transenna, le manovre per mantenere la posizione, le altre ore di attesa. I concerti ho imparato a vederli dal fondo, tanto i locali sono spesso di piccole dimensioni, oppure dal mixer che si sente meglio; ma questo è speciale e voglio stare davanti.
La band è una di quelle che adesso compare nella library Spotify di genitori coi bimbi piccoli mentre i fan della prima ora lamentano le proporzioni troppo massicce dei tour attuali e ricordano malinconici date intime in club di provincia. Otto, dieci anni fa, quando valeva davvero la pena ascoltarli.
«Ma dove sei?», chiede Francesca sorridendo attraverso il telefono. «Sì, ma come mai proprio Santiago de Compostela?» Le spiego che ho organizzato apposta un viaggio per venire a questo concerto, bisogna celebrare la fine del dottorato. Francesca ride. «Fai bene», dice, «anch’io ho deciso di celebrare».
«Dai?»
«Io e Massimo ci sposiamo! Dillo anche a Simone. Non sappiamo ancora quando. Venite? Manca ancora un sacco di tempo, ma volevo avvertirvi subito». Le assicuro che non mancheremo. Facciamo ancora qualche battuta su Massimo che finalmente ha capitolato. «Allora ci vediamo presto!»
Presto è già troppo tempo: io non sono sicura di sopravvivere ai prossimi centoventi minuti. Un applauso poco convinto accoglie il primo dei gruppi spalla; mi abbandono completamente alla transenna. Domani avrò lividi blu simmetrici, sulle braccia e sulle anche, ma adesso ho bisogno di un sostegno per stare in piedi. Chiedo a Simone di ripetermelo ancora: Non stai morendo!, urla per sovrastare la musica. Ogni volta che lo dice la frase diventa meno potente, è una formula magica che perde efficacia a ogni ripetizione e di cui, proprio per questo, non bisognerebbe abusare.
Nel corso delle ultime settimane l’ho costretto a un’infinità di scrutini microscopici, prove fisiche minime atte a verificare se i miei arti e i suoi, sottoposti al medesimo sforzo, rispondono allo stesso modo: ruotare un piede per provare che il mio tremito nel compiere il movimento al rallentatore corrisponda al suo; passare la punta di una matita sotto la pianta del piede per sincerarsi, come spiegano i tutorial su YouTube per gli studenti di neurologia, che le dita non si aprano involontariamente a ventaglio, segnalando così l’insorgere di una malattia neurodegenerativa. E ancora, stare in piedi con gli occhi chiusi, le braccia tese avanti al corpo per un minuto e mezzo, qualche volta pure di più, per essere sicuri che queste non cedano verso il basso in un movimento involontario, anch’esso campanello di allarme di malattie di cui leggo avidamente nei forum online.
Simone si è prestato a tutte queste prove con crescente irritazione e ora devo stare attenta a non farmi vedere quando, dopo aver appoggiato una mano perpendicolare a una superficie piana, muovo l’indice su e giù e osservo il movimento, quindi ripeto con l’altra, per verificare che proceda fluido e non a scatti; o mentre ruoto lentamente i polsi cercando di capire quali sono i gradi di inclinazione in cui la mano trema di più.
Sono stanca ma non riesco a dormire, da settimane va così; non credo minimamente al fatto che tutta questa spossatezza dipenda da uno scompenso chimico. Il dottore dell’ambulatorio inglese è stato molto delicato nel tentare di persuadermi che la diagnosi del suo collega italiano era sensata e dunque era proprio il caso di prendere le pillole prescritte. Io continuo a rifiutarmi, perché voglio che «Sorrow, they put me on the pill» sia solo un verso di una canzone dei National.
Che ora sono lì sul palco, vicinissimi a me, oltre la transenna. Posso quasi toccarli.
Sul treno che dall’aeroporto ci riporta a Coventry incontriamo Paula, una collega di Simone. Ha la frangia tagliata a scalini e indossa molti strati di vestiti di colori diversi, con l’etichetta interna a garantire che i lavoratori non sono stati sfruttati nel corso della produzione e le famiglie hanno avuto accesso al microcredito. Paula è portoghese e parla un inglese piano, senza alcun accento ma privo di quelle esagerazioni british così diffuse tra quegli stranieri che, per qualche predisposizione genetica o grazie a un durissimo inconfessabile allenamento, hanno perfettamente assimilato l’intonazione locale. Con Simone si scambia gossip di dipartimento, o meglio lei parla a valanga di questo e di quello, sembra avere opinioni precisissime su chiunque, però non prende mai davvero posizione. Passa in rassegna tutto il personale docente e ricercatore, snocciola una serie di nomi che ignoro; ognuno di loro pare aver fatto qualcosa di memorabile. Ogni tanto mi guarda come se fosse scontato che io sappia a chi si sta riferendo. Simone, che ha una borsa di post dottorato e in dipartimento ci sta poco, non mi ha mai parlato di queste persone.
Quando siamo dalle parti di Rugby, Paula esaurisce l’organico e allora mi dice: «So, you don’t work at Warwick’s Uni, don’t you?» Inizio a rispondere che no, in effetti no, ma lei non mi lascia finire e aggiunge: «How long are you planning to stay here?»
«Well, actually vivo qui da due anni», e prima di lasciarle infilare un’altra domanda aggiungo che ho appena discusso la mia PhD thesis. Mi sommerge di complimenti, ma vuole precisazioni, non capisce dove ho fatto il dottorato; allora spiego che ho fatto il PhD a Bologna, ma ho trascorso un anno qui as a visiting student and another year here writing my thesis e poi sono tornata a Bologna per discuterla.
Paula ha fatto la triennale in Portogallo, si è trasferita qui per il master, subito dopo ha fatto un dottorato in Media Studies e ora è lecturer. Paula non ha capito bene il mio itinerario accademico, vuole altri dettagli; così le spiego pure che il mio dottorato in Italia era senza borsa e al terzo anno mi sono spostata a Coventry, dove Simone stava per finire il suo. Per il periodo di studio all’estero era infatti previsto un contributo ed ero riuscita a prolungarlo di vari mesi, arrivando a ottenere quasi un anno di finanziamenti da Bologna. Paula si complimenta moltissimo per l’astuzia e l’abilità. Poi passa a chiedermi dei miei piani per la pubblicazione della tesi come monografia. Io studio da troppo tempo romanzi italiani che affrontano il tema della violenza politica e del terrorismo degli anni Settanta; le mie idee sull’argomento mi sembrano ormai del tutto irrilevanti e ne sono nauseata, così le dico che intendo prendermi una pausa. Paula ascolta corrucciata, mi suggerisce di non aspettare tanto, anzi sarebbe ancora meglio – e qui si apre in un sorriso grandissimo – pubblicarla subito in inglese la tesi! Come ha fatto Simone! Annuisco, mi predispongo ad ascoltare la rassegna delle case editrici universitarie, ma per fortuna siamo ormai in stazione. Paula saluta assicurando che presto ci inviterà a cena.
La prima volta che sono arrivata qui, in realtà, è stato quasi cinque anni fa. Era settembre, Bologna grondava ancora di un caldo estivo e appiccicoso; avevo mandato avanti Simone in esplorazione, lui doveva trasferirsi subito per iniziare quel dottorato che in Italia non era riuscito a trovare. Intanto io mi occupavo di far vedere la nostra casa a matricole diciannovenni che si presentavano insieme a genitori iperprotettivi. Non mancavo mai di farli affacciare dalla finestra di quella che di lì a poco non sarebbe più stata la nostra stanza e spiegavo come puntare lo sguardo nello spazio tra i cardini della persiana e il muro e, in quello spazio esatto, vedere proprio vicinissime le due torri.
Simone mi è venuto a prendere in stazione e sul taxi mi ha anticipato che a Coventry non c’aspettavano angoli carini e accoglienti, le brutte foto viste su internet corrispondevano in pieno alla realtà. Il giorno dopo scoprivo che la realtà era ancora peggiore: qui avremmo proprio dovuto abbandonare l’idea di «centro città»; perché a Coventry il centro non esiste, o meglio è esistito fino al 14 novembre 1940, quando l’aviazione nazista scaricò sulla città uno dei più devastanti bombardamenti della seconda guerra mondiale. Da quell’attacco riemerse solo lo scheletro della cattedrale, rimasta lì scoperchiata, con le sue pietre innaturalmente lisce che raccontano del fuoco cui sono sopravvissute.
Gli artefici della pianificazione postbellica scelsero poi di ricostruire Coventry come si immaginavano il tempo a venire: un tempo razionale, forte e ottimista, fatto di cemento, torri, passerelle sopraelevate brutaliste; e intorno una rete di circonvallazioni e rotonde, in attesa delle automobili volanti, che sarebbero arrivate presto. A un certo punto qualcosa dev’essere andato storto, tanto storto che, alla fine degli anni Zero, in quello che dovrebbe essere il centro di Coventry rimase spazio sufficiente per piazzarci il gigantesco cubo blu dell’Ikea. Ora che mi ci sono abituata, lo uso come punto di riferimento per orientarmi e sentirmi a casa.
In quella che dovrebbe essere la piazza principale, ma è in realtà l’emanazione di un centro commerciale, ci sono soprattutto mamme molto giovani coi bambini in carrozzina che entrano da Primark e ne escono con grosse buste marroni strabordanti di capi a basso prezzo della linea Atmosphere, e poi personaggi variamente rovinati che ciondolano di fronte al centro per l’impiego pomposamente ribattezzato The Job Shop. Eppure dev’esserci stato un momento in cui questi edifici che ora sembrano vuoti, queste vetrine di negozi Tuttuneuro/Poundland erano nuovi e moderni. Come il bar-rotonda-panopticon che permette di guardare a trecentosessanta gradi attraverso i vetri il panorama di gallerie commerciali e negozi; o il mercato coperto che cartelloni sbiaditi pubblicizzano come «2004 Award Winning Market».
Attraversiamo le barriere automatiche e lasciamo che Paula prenda il primo taxi. Io e Simone ci accomodiamo nella macchina successiva, il conducente mi sta simpatico, sceglie il percorso più corto, nonostante il modo in cui pronunciamo l’indirizzo. A casa tiro fuori dallo zaino due enormi panini col chorizo che ci siamo fatti fare dal salumiere a Santiago e costavano talmente poco che ero tornata indietro a chiedergli se fosse sicuro del prezzo. Lui aveva aggiunto un ulteriore salamino di cortesia, mangiato in aereo, nonostante le turbolenze dell’Atlantico facessero sballottare più del solito il volo Ryanair. Il comandante aveva tenuto molto a precisare che stavamo facendo il giro largo per via di un’esercitazione militare sullo spazio aereo francese. Simone mi passa una bottiglia di vino, svito il tappo, annuso e vado a svuotarla nel lavandino.
Il primo a offrirci del vino da una bottiglia con il tappo che si svita è stato Bill. L’abbiamo conosciuto pochi giorni dopo essere arrivati qui per la prima volta, mentre giravamo in cerca di una stanza per Simone. Per trovare la casa di Bill ci siamo persi in un sobborgo di casette dai giardini curati, chiusi da cancelli bassi a decorazioni floreali e con grosse automobili parcheggiate sul vialetto. La porta era aperta. Il permesso? deciso che avremmo detto in italiano si trasformava in un hello? dal suono poco convinto. Bill di Tile Hill è sbucato da una porticina, ci ha guidato lungo una scala ripida e stretta, coperta di moquette – uguale a tutte le scale di tutte le case di Coventry, scomoda come le finestre che si aprono solo per metà, quasi che il ricambio d’aria non fosse davvero desiderabile.
Bill ha illustrato i vantaggi della sistemazione, la stanza, l’armadio a muro, il bagnetto del piano di sopra, il giardino ben tenuto con un tappeto elastico per intrattenere i nipotini in visita. Ha voluto a tutti costi che ispezionassimo anche lo stanzino dove la caldaia riposava avvolta con cura in una specie di cappottino termico. Ci ha fatto accomodare sul divano, lui si è seduto sulla poltrona. Nella luce del pomeriggio, la tappezzeria, i mobili, le tendine del bow window perdevano la loro lotta contro il tempo.
«Are you his girlfriend or his wife?», ha chiesto Bill.
«Yes I am», ho risposto a voce bassissima.
La sua, di moglie, is gone.
Where did she go?, ho pensato, ma mi sono fermata appena in tempo.
Bill ha fatto una pausa, poi, visto che noi restavamo zitti come nipotini in visita a un parente lontano, ci ha spiegato che l’inquilino dovrebbe andarsene nei periodi di sospensione delle lezioni del campus perché lui, as a tenant, non voleva pagare la council tax. Annuivo senza capire e fissavo le foto che parlavano di vacanze al mare e comitive al ristorante che brindano a testimoniare l’ottimo servizio. Bill si è versato un bicchiere di vino, ce lo ha offerto ma abbiamo rifiutato.
«I have been made redundant at job». Ha bevuto ancora. Forse temeva che non avessimo afferrato, quindi ha semplificato: «I lost my job last year and then my wife is gone». Continuavo a chiedermi dov’era andata la moglie o se Bill ci stava dicendo che era morta. «So I started renting the room upstairs. Last year a French student lived here. We had fun. We used to sit here and relax together in the night. She used to sit here».
Bill ha modellato il posto di lei sul divano, proprio al suo fianco. Sarà, ma io la ce la vedo poco la studentessa francese a bere vinaccio con lui il sabato sera. Quando siamo usciti Simone, mezzo serio mezzo ironico, si è messo a canticchiare «This town is coming like a ghost town / All the clubs have been closed down»: Bill il triste gli ha ricordato il vecchio successo degli Specials, che sono di qui e forse non esageravano troppo.
Poi sono tornata in Italia e Simone ha preso una stanza che non era quella di Bill. Ho lasciato la nostra casa con vista sulle due torri. Ho abitato per un po’ a Torino e poi di nuovo a Bologna. Alla fine ho trovato delle motivazioni almeno superficialmente razionali per raggiungere Simone a Coventry: la città con l’Ikea in pieno centro.

2
immagine barra obliqua

DELLE SOLIDE MOTIVAZIONI PER RESTARE

Al giorno cinque odio tutti.
Quasi tutti. Gli unici che ancora sopporto sono quelli che indossano le scarpe antinfortunistiche e i gilet gialli con le strisce catarifrangenti e le signore delle pulizie. Queste sono anche le uniche persone che mi salutano, soprattutto la signora che alle nove del giorno uno mi ha visto fare una pantomima esagerata al di là di una porta a vetri che la mia card non permetteva di aprire. La porta è aperta, mi ha fatto capire. «Sorry, it’s monday morning», le ho detto e lei ha riso. Al mattino presto il campus dell’Università di Warwick, quattro chilometri a sud di Coventry, mi sembra un posto sconosciuto. Non c’ero mai stata prima delle nove e questo perché sono una che dorme.
Qualche settimana fa ero seduta fuori da un bar di Ferrara in compagnia della mia amica Bianca e di uno di quei personaggi che in città conoscono tutti, che ha fatto il fotografo e mille altri mestieri in ogni posto del mondo e ci tiene a raccontarli tutti, con quell’epica trombona e insieme tenera tipica della sua generazione. A un certo punto mi chiede quanti anni ho, capisce ventuno. «Trentuno», ripeto, scandendo per bene le sillabe. Poi si volta verso Bianca e le domanda stupito: «Pure tu?» Ammettiamo che ci danno spesso, se non dieci, dai cinque ai sette anni in meno. Allora il tizio si apre in un sorriso. «Ma è una cosa bellissima. Vuol dire che avete dormito abbastanza, che avete mangiato bene, che non avete dovuto lavorare troppo. Mia madre alla vostra età sembrava ne avesse cinquanta».
Il giorno uno sono contenta. Ho la mia cartellina in mano e, per la prima volta da mesi, una risposta precisa alla domanda «Cosa stai facendo qui?»
Il pomeriggio precedente io e Simone eravamo a una specie di merenda indetta da Paula. Nell’invito aveva specificato che l’evento era aperto anche ai partner e ai figli, solitamente esclusi da questi incontri a metà tra svago e lavoro. La casa di Paula è diventata subito la mia preferita del quartiere, una delle poche a tre piani e con le finestre grandi, di quelle da cui entra Peter Pan. Le ho subito detto quanto mi piacesse e quanto fossi felice di esserci potuta entrare; lei mi è parsa contenta ma anche un po’ sospettosa, come se quell’apprezzamento nascondesse la volontà di fare mia la sua dimora con il parquet liscio e i muri b...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prima parte
  4. 1 / Sorrow, they put me on the pill
  5. 2 / Delle solide motivazioni per restare
  6. 3 / L’ultimo anello del percorso di mobilità sociale
  7. 4 / When I talk about home
  8. 5 / Job descriptions
  9. 6 / Non è compito mio scusare le loro nonne
  10. 7 / Le amiche della sposa
  11. 8 / Noise princess dress
  12. 9 / Le foto in Piazza Maggiore
  13. Cosa racconteremo
  14. / Shutter Box
  15. Seconda parte
  16. 1 / I caused Hackney Wick to became gentrified
  17. 2 / Barbie Antigone
  18. 3 / Cosa farai tu quando succede?
  19. 4 / Sette matitine
  20. 5 / Congegni inutili
  21. 6 / Primavera, quasi estate
  22. 7 / Totally awesome
  23. 8 / Il pieno di felicità
  24. Ringraziamenti