Memorie di un artista della delusione
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Memorie di un artista della delusione

  1. 268 pagine
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Memorie di un artista della delusione

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Informazioni sul libro

Nei brani raccolti in questo volume Lethem commenta e celebra la musica, i film, i libri che lo hanno accompagnato nella sua crescita umana e intellettuale (da Philip K. Dick ai fumetti della Marvel, da John Cassavetes a James Brown, una serie di piccole e grandi ossessioni che spesso, sfumando, lo lasciavano tanto «deluso» quanto ansioso di nuovi stimoli) e al tempo stesso racconta la sua infanzia in una famiglia bohemién, l'adolescenza nella mitica e violenta New York degli anni Settanta, la sua formazione letteraria.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214227

IL PADRONE DEL SOUL*

La statua di James Brown

Ad Augusta, in Georgia, nel maggio di quest’anno, al centro di Broad Street è stata eretta una statua in bronzo di James Brown, il Padrino del Soul. A giugno, dato che mi trovavo lì come inviato della rivista Rolling Stone per incontrare James Brown e assistere alla registrazione di alcuni brani del suo nuovo album in uno studio della città, sono andato a darle un’occhiata. La statua di James Brown è strana sotto diversi aspetti. Tanto per cominciare, è insolito vedere una statua non poggiata su un piedistallo né sopraelevata in qualche modo, ma direttamente con i piedi per terra. Questa, a quanto si dice, è stata una richiesta dello stesso James Brown. Il presupposto è: un figlio del popolo. Il risultato, però: una statua che sembra un po’ finta. Un altro problema è che la statua ha un sorrisone in faccia. Alcuni membri della band di James Brown, presenti al momento in cui è stato fotografato come modello per lo scultore, mi hanno raccontato i tentativi fatti, da loro e dallo scultore stesso, per convincere James Brown a smettere di sorridere. Non si è mai vista una statua con un sorriso a trentadue denti, gli hanno detto. Ma James Brown si è rifiutato di assumere qualunque altra espressione. È il sorriso di un uomo che ha avuto successo nella vita, e dato che la statua da erigere gli sembrava un’attestazione del suo successo, ha deciso che doveva attestarlo con un bel sorriso in faccia. (In effetti, anche se nelle molte centinaia di irresistibili foto scattategli durante i concerti e dietro le quinte, mentre non era in posa – quelle che io e, immagino, quasi tutti i suoi fan preferiamo – James Brown fa lo sguardo torvo, storto, digrigna i denti, assume espressioni che indicano ironia, distacco, ambiguità, sgomento, aggressività e via dicendo, in qualunque immagine che si possa considerare «pubblicitaria» – qualunque foto in posa, per dire, accanto a un presidente, un governatore, un sindaco o qualche altra leggenda dello spettacolo, tipo Aretha Franklin – James Brown immancabilmente dice «cheese». A James Brown la statua di Augusta deve essere sembrata, in sostanza, un’occasione pubblicitaria. Mai chiedere scusa, mai dare spiegazioni, mai lasciare che ti vedano senza quella smorfia in faccia.)
Cosa ancora più strana, il sorriso della statua ha troppi, troppi denti. Se ne accorgerebbe chiunque. Forse lo scultore, mentre lavorava, ha avuto paura di James Brown. Quale che sia il motivo, il James Brown di bronzo – a cui, vi ricordo, passeggiando potete avvicinarvi tranquillamente da pari a pari, per via dell’assenza di piedistallo – ha il triplo dei denti che dovrebbe avere, in file da piraña. A parte questo, la statua è ammirevole: mantello di bronzo svolazzante, casco di capelli bronzei forse non tanto più rigido della chioma reale che rappresenta, microfono di bronzo vecchio stile, con la base inclinata, come se James Brown ci stesse ballando insieme; benché lui non sia in posa danzante, appare agile, brioso, svelto.
Eppure, così come i francobolli, le statue delle persone ancora vive, per qualche motivo, lasciano sempre sconcertati. E pochissime statue sono collocate a un crocevia che abbia un valore simbolico pari a questo (d’altro canto, pochissimi uomini hanno occupato un posto così denso di forze e di significati contrastanti come James Brown). La statua dà le spalle a quello che nel 1991 è stato ribattezzato «James Brown Boulevard», una strada che parte da Broad Street e prosegue per più di un chilometro, inoltrandosi nel quartiere in cui crebbe James Brown dall’età di sei anni in poi, allevato dalle zie in una casa di Twiggs Street che era un covo di ciò che lui stesso definisce «gioco d’azzardo, whisky clandestino e prostituzione». Il quartiere intorno a Twiggs Street, che ho girato a piedi tutte e tre le mattine del mio soggiorno ad Augusta (James Brown sta in piedi tutta la notte a guardare telegiornali e vecchi western, quindi le sedute di registrazione non cominciano mai prima delle tre di pomeriggio), è ancora tristemente immerso nella rovina della povertà. Gli sconvolgenti abissi di miseria da cui James Brown è riuscito a risollevarsi sono ancora intatti, congelati nel tempo, un po’ come... be’, come una statua. Sarebbe difficile per un fotografo realizzare uno scorcio di questo quartiere che non si possa infilare tranquillamente – fatta eccezione per i modelli delle macchine – nella serie di scene dell’Appalachia depressa immortalate da Walker Evans nel suo Sia lode ora a uomini di fama. Soltanto che, ovviamente, nell’Appalachia di Augusta tutti hanno la pelle nera.
E dunque la statua di James Brown sembra aver percorso coi suoi stessi piedi piatti di bronzo il chilometro e mezzo che separa Twiggs Street da Broad Street, alla quale volta le spalle, riservando il proprio sorrisone alla gente perbene di Broad Street sul lato che arriva al fiume: i quartieri bianchi verso cui James Brown, da lustrascarpe, piccolo truffatore, giovanissimo delinquente, forse addirittura pappone minorenne, dirigeva la sua ambizione e la sua astuzia. (Di fatto, la statua si trova quasi perfettamente di fronte a un’altra statua, stavolta dotata di piedistallo, eretta in un bel parco erboso, e non sorridente: quella del generale James Edward Oglethorpe, 1696-1785, «Padre della Georgia, fondatore di Augusta». Oglethorpe, con tanto di parruccone e palandrana da padre fondatore, solleva in aria un pezzo di carta arrotolato, un qualche tipo di documento. Già piazzato di suo a un metro e mezzo da terra, guarda verso il cielo: Oglethorpe e James Brown, insomma, sono su due piani completamente diversi. Se si riuscisse a metterli allo stesso livello e a farli parlare, probabilmente ci si ritroverebbe con un perfetto condensato della storia degli Stati Uniti del Sud.) I poliziotti davano regolarmente la caccia a James Brown lungo quel chilometro e mezzo di strada, respingendolo verso Twiggs Street – una volta racconta di essersi tuffato in un fosso allagato al bordo della strada, poco più di una trincea, e di essere rimasto sott’acqua con un pezzo di canna in bocca per respirare fino a che i poliziotti trafelati non passarono oltre – e, una volta scampato all’inseguimento, lui tornava ad avventurarsi verso Broad Street, dove c’erano le luci e la musica, dove c’era la bella vita, dove si trovavano i soldati di stanza ad Augusta, ansiosi di godersi una notte brava appena intascata la paga mensile. Alla fine le autorità di Augusta misero in galera il ragazzo, lo condannarono a una pena da otto a sedici mesi per quattro effrazioni. Quando ottenne di essere rimesso in libertà prima dei termini, grazie all’aiuto della famiglia del suo amico Bobby Bird (tenete a mente questo nome, perché tornerà più avanti), fu a condizione che non rimettesse più piede ad Augusta. E in effetti nel cuore degli anni Sessanta, diverso tempo dopo l’uscita di «Papa’s Got a Brand New Bag», per esibirsi con il suo gruppo ad Augusta James Brown dovette richiedere un permesso speciale: in buona sostanza, era stato esiliato dalla città per aver avuto il coraggio di attraversare quel chilometro e mezzo dalla Twiggs alla Broad. Adesso la sua statua sta proprio alla fine di quel tragitto, e guarda dalla parte opposta. Con un sorrisone in faccia. Senza risolvere niente. Ma sapete, in realtà James Brown è l’essere umano più diverso da una statua che sia mai venuto al mondo. James Brown è qualcosa di dinamico: un’idea, un problema, un genere musicale, un concetto, un metodo: tutto, insomma, fuorché una statua.

Lo show di James Brown

Una cosa la sappiamo: lo show di James Brown comincia senza James Brown. James Brown, un uomo che è anche un’idea, un problema, un metodo e via dicendo, andrà invocato o evocato, richiamato sul palco da qualche altro posto. L’incontro fra James Brown e il suo pubblico – voi – non è una faccenda semplice. Quando i gruppi spalla hanno finito di suonare e termina l’attesa, per prima cosa ci si ritrova nelle mani della sua band. È la band a cominciare lo show. La band sta lì per aiutarvi, per ricavare uno spazio in cui possiate incontrare James Brown: sta lì, se così si può dire, per portarvi al bridge.1 La band stessa è il mezzo all’interno del quale James Brown verrà evocato, la condizione perché lo si possa invitare a mostrarsi alla vista. E questo intervallo di tempo, prima della comparsa di James Brown, serve ad appurare che non abbiate rimpianti o dubbi, a misurare quanto siete pronti e convinti.
La band di James Brown assume la forma, sul palco, di un fregio o un geroglifico animato, senza tempo come solo certi aspetti leggermente deteriori dello show business riescono a essere, ma con allegria. File di musicisti in tight rosso che ballano sfrenatamente all’unisono e intanto riescono come per miracolo a tirar fuori dagli strumenti un perfetto uragano di musica: le sferraglianti onde intrecciate, ondulatorio-sinuose (alla base) e scintillanti-pepate (in superficie) del groove. (Lasciatemi fare quest’ammissione subito, così mi levo il pensiero: è vero, mi sarà impossibile non ricorrere a parole come groove e funk, ciascuna delle quali è, lo confesso, del tutto fumosa in sé e per sé, e rappresenta una tautologia monoverbale. Come nell’aneddoto su Louis Armstrong, in cui il trombettista replica a chi gli chiede di definire lo swing dicendo: «Se non lo capisci da solo, non te lo posso spiegare io», vorrei raccomandarvi fin da subito, se non riuscite a riportare alla memoria almeno una qualche vaga approssimazione di ciò a cui mi riferisco quando uso certi termini – a ricordare, per esempio, qualche adolescenziale epifania di sculettamento in mezzo alla pista, catalizzata dalla musica di Sly Stone, George Clinton, Prince Rogers Nelson o James Brown stesso – di muovere all’istante le vostre stolte chiappe e collegarvi a iTunes, dove, come ho appena avuto modo di controllare, cercando il nome di James Brown il disco che compare in cima alla lista come top album è, a buon diritto, Make It Funky –The Big Payback 1971-1975. [Un altro valido modo per iniziare potrebbe essere Motherlode o In the Jungle Groove.] Insomma, il punto è che ho centinaia se non migliaia di cose da dirvi su James Brown, ma nessuna di queste potrà mai equivalere anche solo lontanamente alla sensazione che si prova abbandonando le orecchie a questo tipo di musica suonata a tutto volume. Né quando tento di fare l’originale [«onde intrecciate ondulatorio-sinuose e scintillanti-pepate»], né quando ripiego sui cliché, come certamente dovrò fare [«fiati balbettanti», «chitarre punzecchianti» e via dicendo]. Una volta, in un corso di scrittura creativa che tenevo in Ohio, ho avuto un allievo, di diciannove anni, che non aveva mai assaggiato la senape in vita sua. Pazzesco, no? Ecco, io non gliel’ho descritta, l’ho solo portato in una tavola calda e gli ho ordinato un hot dog. Ai fini di questo paragone diciamo soltanto che per me il funk è la senape, senape all’ennesima potenza.)
I musicisti dello show di James Brown sembrano essi stessi gioiosi e stupefatti testimoni del proprio virtuosismo. In un certo senso assomigliano addirittura a degli uscieri o dei portieri, umili ed eleganti, che vi danno il benvenuto nel groove irresistibilmente fisico, trionfante e avvolgente che zampilla dai loro strumenti. È come se vi stessero solo spalancando, grazie alla maniglia delle loro normali e umanissime chitarre, congas, trombe e sax, un titanico portale che dà accesso a un mondo nuovo, un mondo fatto tanto di suoni quanto di movimento, immagini ed emozioni: perché davvero il primo incontro con lo show di James Brown può fare l’effetto di un passaggio corporeo, di un accordo – che la mente dubitava di essere pronta a stipulare – fra il corpo e quei musicisti e i loro strumenti, e la teatralità ridicola, quasi crudelmente anticipatoria, del loro tentativo di far apparire alla vista la star della serata. Sì, perché viene reso evidente al di là di ogni possibile dubbio, nel caso ve lo foste scordati, che questo è solamente un preludio, uno schiarirsi di gola, anche se la band si è già scatenata per tre o quattro pezzi riconoscibili uno di seguito all’altro: siamo in attesa di qualcosa. Questo qualcosa si chiama James Brown. E in effetti vi ritrovate a desiderare voi stessi, disperatamente, la comparsa di quest’uomo, anche se dovesse essere soltanto una delusione. (Come potrebbe essere all’altezza del vostro desiderio? Come potrebbe essere all’altezza della propria fama o dei propri successi, o addirittura, se è per questo, all’altezza di quel personaggio che sale sul palco senza strumenti, di quella figuretta tutta nervi, elegante e attillata, con il ciuffo a banana e una voce rimbombante e comica che suona più familiare di quanto vi sareste aspettati, voce con cui ora sta elencando i titoli dei più grandi successi di James Brown, un elenco che pare infinito? E in fondo come potrebbe James Brown essere all’altezza della sua stessa band, che ha un sound talmente fantastico?) Di fatto si finisce per temere, a dispetto di ogni buonsenso, che ci sia qualcosa che non va: forse non si sente bene, o non ha voglia di esibirsi, o forse gli stiamo sulle palle? Magari c’è stato un errore. Non esiste nessun James Brown, era soltanto una leggenda metropolitana. Grazie a Dio, qualcuno vi ha detto cosa fare: intonare, lietamente, un coro di «James Brown! James Brown!» L’ometto elegante con il ciuffo a banana vi chiede se Siete Pronti per la Star, e voi vi ritrovate a confessare di Sì.
Come ci siete finiti qui? Forse, come il critico musicale Nelson George, eravate sull’A-train, la linea A della metropolitana di New York, diretti all’Apollo Theater in compagnia di vostra madre, nel 1967. Forse, come lo scrittore David Gates, eravate a Boston nel 1968, il giorno dopo l’assassinio di Martin Luther King, a sentire un concerto trasmesso in diretta televisiva per ragioni di emergenza nazionale, al fine di impedire probabili sommosse: un momento cruciale nella Leggenda di James Brown. Magari, come il giornalista Peter Guralnick, eravate alla Providence Arena nel 1965, un fan incredulo. O forse siete il trombonista Fred Wesley nel 1966, e assistete per la prima volta allo show di James Brown allo stadio di Orlando, in Florida, perché Pee Wee Ellis, all’epoca arrangiatore di James Brown, vi ha telefonato e vi ha convinti a prendere in considerazione l’ipotesi di un ingaggio con questa band, ipotesi che in effetti state prendendo in considerazione, nonostante il vostro retroterra jazzistico e l’impressione che la musica di James Brown sia solo dello stupido pop, perché quei soldi vi farebbero proprio comodo. O forse siete me, il che significherebbe che insieme al vostro amico di infanzia Luke avete preso un pullman Greyhound in partenza da Boston, nel 1986,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Memorie di un artista della delusione
  3. Storie metropolitane
  4. L'artista della delusione
  5. Il ritorno del re
  6. Voi non conoscete Dick
  7. Le vite dei bohémien
  8. Due o tre cose che non so
  9. Le barbe
  10. Il padrone del soul
  11. Bonus track
  12. Nota biografica dell'autore