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Dall'aborto al velo, donne nel nuovo millennio

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Dall'aborto al velo, donne nel nuovo millennio

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Il femminismo del Novecento ha prodotto un cambiamento irreversibile, ma nel nuovo millennio le lotte delle donne non sono finite. La libertà femminile vive nel mondo, ma si scontra con resistenze e paternalismi di ogni sorta. Come riconoscere, difendere e promuovere l'autodeterminazione in un tempo in cui l'avanzata di forze conservatrici e integraliste mira a controllare la sessualità delle donne e la riproduzione, mentre il mercato cerca di trarne profitto? C'è ancora bisogno di femminismo. Questa parola, che alcuni hanno archiviato troppo presto, ritrova oggi il suo significato di battaglia per la libertà. Per tutte le donne. E per tutti gli uomini che vogliono camminare con loro.«L'emergenza pandemica ha illuminato la sfera privata nelle sue contraddizioni, ha fatto risaltare il rimosso del lavoro domestico e riproduttivo, ha mostrato quanto lungo sia ancora il cammino della "rivoluzione antropologica" che il femminismo ha innescato. Siamo di fronte al rischio che la crisi apra le porte a involuzioni autoritarie, ma anche all'opportunità di costruire nuovi modelli di solidarietà, inclusione e libertà. Nessun esito è scontato. Il futuro è nelle nostre mani».

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788875218218

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LA LIBERTÀ DELLE DONNE E I SUOI NEMICI

All’inizio del terzo millennio la terra è devastata da disastri nucleari e ambientali, gran parte della popolazione soffre di sterilità e in Nord America si insedia un regime teocratico-militare che, dall’oggi al domani, priva le donne di ogni bene, ogni diritto, ogni libertà, condannandole al solo destino voluto da Dio e dalla Natura: riprodurre la specie umana. Non è cronaca, ovviamente, è fantascienza. È Il racconto dell’ancella della scrittrice femminista Margaret Atwood, del 1985. Siamo nel bel mezzo del decennio di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, delle ideo­logie neoconservatrici, e di quello che la giornalista americana Susan Faludi, in un fortunato libro, ha chiamato il backlash, il «contrattacco». La cultura degli anni Ottanta, sostiene Faludi (1992), ha condotto una «guerra non dichiarata» contro le donne, attraverso i giornali, la televisione, il cinema, i discorsi politici.
Dopo i decenni della liberazione sessuale, della critica all’autoritarismo e al patriarcato, della conquista di nuovi diritti, la rivoluzione conservatrice traduce le domande di libertà che si erano espresse in quegli anni in una nuova ideologia del mercato. «La società non esiste», sostiene Margaret Thatcher, prima donna a capo di un governo di un paese europeo, immagine vivente di quel mix di conservatorismo morale e liberismo economico che segna la svolta degli anni Ottanta, e della rivincita dell’individualismo e degli interessi personali sulle spinte sociali e politiche degli anni Sessanta e Settanta.
Sull’onda di questa rivoluzione, in Italia, le parole «nessuno mi può giudicare», con cui Caterina Caselli nel 1966 cantava la rivendicazione di libertà di una giovane donna, diventano la weltanschauung di Silvio Berlusconi, la visione del mondo dell’uomo che ha segnato la storia italiana del ventennio a cavallo del cambio di secolo. È ciò che sostiene il sociologo Franco Cassano, che tuttavia segnala la differenza tra le due «ribellioni»: «Quella della Caselli era il segno dell’emergere di una generazione che, rompendo con i costumi tradizionali dell’Italia rurale, si affacciava sul mondo dei consumi e delle libertà. Ancora di più: era l’orgogliosa rivendicazione di autonomia di una donna che rifiutava che altri decidesse al posto suo il presente e il futuro» (Cassano, 2004, p. 35). Quella incarnata da Berlusconi è invece la declinazione italiana della rivoluzione conservatrice e del neoliberismo, più che il ritorno al mercato «la continua erosione dell’autorità di ogni soggetto capace di rappresentare gli interessi collettivi e quindi di dettare le regole comuni a tutti» (Ivi, p. 33). Lo slittamento di senso di quelle parole traduce bene come la libertà sia stata declinata nel mezzo secolo che ci separa dagli esordi del «caschetto d’oro» della canzone italiana. Anni segnati dall’ideologia del consumo, dall’attacco allo Stato sociale e dalla privatizzazione delle esistenze.
Prima di essere capo del governo Silvio Berlusconi è stato l’uomo della televisione commerciale – la sua prima emittente viene aperta nel 1978 – il più potente fattore di trasformazione dell’immaginario, dei consumi culturali e dello stile di vita degli italiani.
Di questa trasformazione un tratto essenziale sarà la sovrapposizione tra fiction e realtà, e la riduzione delle donne a oggetti di consumo, corpi seriali e di plastica. L’individualismo di quegli anni parla però anche ai desideri di successo delle donne, per le quali la sessualità sfacciata è segno di modernità e potere: «Ho un cervello per gli affari, e un corpo per il peccato. Ci trovi qualcosa da ridire?», dice Melanie Griffith nel film simbolo delle ambizioni di carriera delle ragazze americane degli anni Ottanta, Working Girl, uscito in italiano con il titolo Una donna in carriera. Ognuno è imprenditore di se stesso, insegna la nuova religione della libertà, che così facendo promette un’inedita mobilità sociale, di cui gli yuppies (young urban professional) diventano protagonisti. La libertà neoliberale si afferma esattamente in questa capacità di valorizzazione di sé, che si traduce nell’essere perennemente dediti alla produzione, al consumo, al godimento e alla competizione con gli altri. «Diversamente dai regimi autoritari, il neoliberalismo governa non contro, ma attraverso la libertà: non la sopprime né la reprime ma la usa, la incrementa e la consuma, nella forma dell’autoaffermazione individuale che convalida e rilancia il dispositivo che la produce» (Dominijanni, 2014, p. 47).
Nella repubblica di Galaad immaginata da Atwood, alle donne è vietata ogni attività che non sia domestica (o, clandestinamente, di prostituzione), l’aborto è punito con la morte, e le poche donne che hanno mantenuto il prezioso dono della fertilità, le Ancelle, sono assegnate ai Comandanti e alle Mogli perché diano loro un figlio, come la serva Bilha fece con Giacobbe e Rachele nel Libro della Genesi. Se falliscono, saranno dichiarate «Nondonne», ed eliminate. «Noi abbiamo dato loro più di quanto abbiamo tolto», dice il Comandante a Difred, l’Ancella che narra la storia.
Pensate alla situazione in cui si trovavano prima, pensate ai bar per donne sole, all’indegnità degli appuntamenti a sorpresa. Era il mercato della carne. Non ricordate il temibile divario tra coloro che potevano avere un uomo facilmente e quelle per le quali era impossibile? Alcune di loro, prese dalla disperazione, deperivano per dimagrire, altre si gonfiavano i seni col silicone, altre ancora si facevano tagliare il naso. Quanta infelicità! [...] Se si sposavano, spesso restavano sole, con un figlio o due perché il marito, stanco di loro, scompariva, così che si trovavano costrette ad affidarsi alla pubblica assistenza. Oppure, se avevano un lavoro, dovevano lasciare i figli al doposcuola o affidarli a qualche donna ignorante e brutale, che dovevano pagare loro stesse, sottraendo il denaro alle loro misere buste paga. Il denaro era l’unica misura del valore, per tutte, l’essere madri non dava diritto al rispetto. Non c’è da meravigliarsi quindi che stessero rinunciando alla maternità. Ora, invece, sono protette, possono adempiere in pace ai loro destini biologici, con pieno sostegno e incoraggiamento.
Il racconto dunque mette in scena l’ideologia del ritorno alla maternità come luogo sicuro e riposante rispetto allo stress della società competitiva e rampante in cui ogni working girl degli anni Ottanta rischiava di alienarsi. Ma quanto appare familiare anche a noi questo quadro? Quanto è concreto il pericolo che nuovi poteri convincano o costringano le donne a barattare pezzo a pezzo la loro autonomia per un po’ di sicurezza e protezione? Quanto è bella, ma anche fragile e faticosa, la libertà delle donne? Quanto può essere mascherata in nuove e potenti forme di sfruttamento?
Le cose, per fortuna, non sono andate come figurava la terribile distopia della scrittrice canadese, e neppure si può dire che il contrattacco di cui parla Susan Faludi abbia avuto la meglio sulla libertà femminile. Il quadro è meno univoco e il processo storico che ci ha condotto ai giorni nostri non può definirsi semplice e conseguente.
Gli anni Sessanta e Settanta sono stati quelli dell’esplosione del desiderio di libertà nella «seconda ondata» femminista, così chiamata per distinguerla dalla «prima ondata», quel movimento collocabile a cavallo tra Ottocento e inizio Novecento, legato alla richiesta del voto e dei diritti politici per le donne, ma anche alla rivendicazione della loro autonomia (Rossi-Doria, 1989).2
Della seconda ondata furono protagoniste, come vedremo, soprattutto donne emancipate. Questo femminismo nasce proprio come disagio dell’emancipazione, conflitto tra il senso di sé e il destino di madre e moglie che ancora veniva proposto come modello di realizzazione femminile, tra l’uguaglianza formale raggiunta nella sfera pubblica e la subordinazione che ancora regnava nella sfera privata, nella vita familiare e sessuale. Il movimento, nelle sue molte declinazioni, cambierà così profondamente la vita delle donne e la relazione uomo donna da far parlare di una «mutazione antropologica» (Kristeva, 2008, p. 9).
Gli stessi anni Ottanta, però, non sono solo il decennio della rivoluzione neoconservatrice. Nel femminismo italiano, per esempio, in questo periodo inizia una nuova fase.3 Dopo la fine delle manifestazioni di massa e la crisi al termine degli anni Settanta, determinata anche dalla ferita del terrorismo, si apre una stagione segnata dalla nascita di librerie, università, riviste, centri studio delle donne. Rispondendo a un bisogno che è proprio della presa di parola delle donne, «andava raccolta la sfida di fondare un soggetto che riflette su di sé e si dà significato in una cultura e un linguaggio che non lo hanno mai espresso» (Marcuzzo e Rossi-Doria, 1987, p. 35).
Eppure il contrattacco, lo vedremo nei capitoli di questo libro, è stato forte. Tanto quanto è stata potente la trasmissione di donna in donna del desiderio femminile di libertà. Questo desiderio si dispiega anche nei decenni del neoliberalismo, e nel contesto di quello che è oggi è definito «post-patriarcato»: un «cambio di mondo», in cui il vecchio ordine sociale, politico e sessuale agonizza (Stazzeri, 2014), una «nuova configurazione del conflitto tra i sessi che si gioca prevalentemente non più sul terreno dell’oppressione ma su quello della libertà» (Dominijanni, 2014, p. 206)
Il quadro è appunto quello di un conflitto aperto sul senso della libertà, i cui esiti non sono scontati. Come nel road movie femminile Thelma & Louise, film cult del 1991. Thelma è una giovane casalinga che parte per un weekend con la sua amica Louise, che fa la cameriera. Lungo la strada Thelma, un po’ brilla, in un bar balla con un uomo, che la seguirà nel parcheggio dove è uscita per prendere aria e tenterà di stuprarla. Arriva Louise a salvarla, puntando la pistola alla tempia del violento. Mentre le due donne stanno andando via, l’uomo non rinuncia all’ultima parola, e lancia l’offesa: «Dovevo farmi fare un pompino». Louise si gira e spara, ammazzandolo. Inizia la fuga delle due donne verso il Messico. «La loro fuga è una progressiva ma inesorabile rottura con l’ordine costituito, una rottura con la legge, con gli uomini, con i costumi, con la loro vita precedente» (Biasini e Nielsen, 1991, p. 26). Le due donne «hanno dei desideri: li sanno riconoscere e li vogliono realizzare» (Ibidem). Ma la libertà femminile non è semplice: «Oltre alla rottura con il mondo maschile [...] implica un alto prezzo da pagare: l’assenza di modelli di riferimento che una donna possa seguire per essere libera comporta che tutto questo si risolva in un insuccesso» (Ibidem).
Davanti al Grand Canyon, Thelma e Louise sono costrette a fermarsi. Alle spalle innumerevoli macchine della polizia, di fronte il vuoto. Si guardano, sorridono, intrecciano le loro mani e le protendono verso l’alto, spingendo sull’acceleratore. L’ultima immagine è quella di loro due nell’auto sospesa nel vuoto. Moriranno, eppure il finale «lascia un sentimento di forza, non di sconfitta» (Ibidem). Muoiono perché quello che è mancato alla loro libertà è la costruzione di un nuovo ordine simbolico, una volta girate le spalle a quello maschile.

Una storia non lineare

Così si entra negli anni Novanta. Nonostante il contrattacco, la sensazione è quella di una marcia inarrestabile. Non lineare, come abbiamo detto, ma le donne hanno rotto l’argine che separava sfera privata e sfera pubblica, esigendo il controllo sul proprio corpo e sulla propria vita. Sarà questo un tema rilevante anche nelle istituzioni internazionali, attraversate dai cambiamenti prodotti dalle donne, proprio mentre si disgregava il vecchio ordine mondiale, segnato dalla divisione in blocchi determinatasi nel secondo dopoguerra. Nel 1995 si tiene la Quarta conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, a Pechino e, come in altre occasioni, si riunisce parallelamente il Forum mondiale delle donne e delle associazioni. Era già successo, ma a Città del Messico (1975) le donne erano 4000, a Copenaghen (1980) 8000, a Nairobi (1985) 14.000, a Pechino sono ben 30.000. In queste tappe «si possono rintracciare i dati più significativi di quello che potremmo definire un lungo percorso di presa di parola delle donne sul mondo» (Pomeranzi, 1995, p. 39).4 Questo prendere parola farà incontrare a Pechino donne rappresentanti delle istituzioni e militanti delle associazioni che si battono per la parità, con altre più attente al protagonismo femminile nel mondo. «Il problema non è conoscere le statistiche, ma piuttosto riuscire a indagare cosa le donne sono state capaci di esprimere e soprattutto se e quanto e come riescono a far valere il loro desiderio sul mondo» (Ibidem). E si può dire che così è stato. La Conferenza smise di essere per le donne, e cominciò a essere delle donne.
Dal punto di vista istituzionale a Pechino vengono rafforzati due criteri guida, che si erano già visti a Nairobi: l’empowerment e il gender mainstreaming. Il primo indica «l’aumento del potere e dell’autorità delle donne» (Rossi-Doria, 2007, p. 230), il secondo che «il criterio della differenza di genere, sia nell’analisi che nei rimedi deve essere inserito in tutte le iniziative e le verifiche nel campo dei diritti umani» (Ibidem). A Pechino viene riconosciuto il diritto delle donne al controllo sulla propria fecondità, contro coloro che avrebbero voluto mantenere le politiche per la salute sessuale e riproduttiva soggette alle leggi nazionali. È un tema cruciale che, come vedremo più avanti, si è riproposto anche nelle istituzioni europee. Nella Piattaforma d’Azione di Pechino, inoltre, si fa riferimento alle organizzazioni delle donne e ai gruppi femministi come fattori fondamentali di cambiamento. La Conferenza fu infatti anche occasione di una migliore interlocuzione tra rappresentanze governative e Ong e il Forum vide uno scambio maggiore tra movimenti delle donne del Sud e del Nord del mondo.
Il percorso che portò alla Conferenza di Pechino, con la straordinaria partecipazione delle associazioni e dei movimenti di donne, l’ha resa un evento che va ben oltre le pur importanti dichiarazioni programmatiche. «È diventato chiaro che la fine del patriarcato sta coinvolgendo tutti i paesi del mondo, un mondo attraversato, quasi di colpo e insieme, da enormi cambiamenti, fra i quali c’è la fine del patriarcato. Vuol dire che è finito, o comincia a finire, il controllo del corpo femminile fecondo e dei suoi frutti da parte dell’altro sesso»: così scrivono le autrici del Sottosopra rosso,5 pubblicato nel gennaio 1996. Il testo inizia con un annuncio: «Il patriarcato è finito, non ha più il credito femminile ed è finito. È durato quanto la sua capacità di significare qualcosa per la mente femminile. Adesso che l’ha perduta, ci accorgiamo che senza non può durare». Guardando agli appuntamenti internazionali e all’esperienza di Pechino, si registra la presenza «anche nel vasto mondo fuori l’occidente» di autonomia femminile e di relazione tra donne. Il testo legge la differenza sessuale all’opera in uno scenario di mutamenti epocale. Siamo infatti nel pieno di una crisi di sistema, determinatasi dalla caduta del Muro di Berlino, venti di guerra hanno soffiato di nuovo nel mondo.
Quello che ci sembra utile per la lettura dei moderni conflitti attorno alla libertà delle donne è però soprattutto la presa d’atto della fine dell’ordine simbolico patriarcale, determinata dal venir meno del credito femminile nei suoi riguardi. Non a caso la battaglia sul rapporto tra i sessi e sulle donne si conduce ancora oggi soprattutto sull’immaginario e sul simbolico, prima che sulle condizioni materiali. Basti pensare alla «continua produzione di definizioni del femminile e della Donna, destinate a espropriare le donne dalla parola su se stesse e a ridurle da esseri reali a creature immaginarie, stereotipi modernizzati o neo­tradizionalisti, a trend di comportamenti o a sintomi della crisi sociale. Attaccando così la conquista vera del femminismo, la quale non sta nella parità ma nella facoltà delle donne di definirsi da sole» (Dominijanni, 1992).
Il crollo dell’ordine simbolico patriarcale genera disordine, non è la fine dei conflitti e degli attacchi alla libertà femminile. Ma qualcosa di potente è avvenuto nelle menti delle donne. E questo cambia il modo in cui i conflitti vanno letti, chiede di uscire da una lettura che continui a vedere le donne solo come vittime, anche quando soccombono, come Thelma e Louise. Nel secolo scorso, non a caso spesso definito il «secolo delle donne» è avvenuto qualcosa di irreversibile, e non si torna indietro.

La nostra marcia non è finita

Non si torna indietro nonostante le sconfitte e i richiami all’ordine. Nonostante l’elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America di un uomo apertamente misogino e antiabortista. Nonostante la minaccia integralista e la violenza dell’Isis e di altri gruppi fondamentalisti che hanno posto il controllo del corpo delle donne al centro della propria ideologia politica. Nonostante l’avanzata delle destre xenofobe e il ritorno delle piccole patrie anche nel cuore dell’Europa. Alla guida dei nuovi nazionalismi, che interpretano il fallimento del sogno europeo di pace e giustizia sociale, appassito nei tecnicismi dell’economia di mercato, troviamo anche donne, come Marine Le Pen in Francia, Frauke Petry in Germania, Theresa May nella Gran Bretagna della Brexit. Leader populiste come Le Pen e Petry, così come già la loro «madrina» d’oltreo­ceano Sarah Palin e – almeno in parte – l’italiana Giorgia Meloni, fanno breccia nell’elettorato con temi ormai canonici del populismo, come il no all’«invasione dei migranti» e al «buonismo», il rifiuto dell’intellettualismo e del politicamente corretto, ma, scrive Annalisa Terranova, risultano più convincenti perché rappresentano il nuovo in politica, e perché risultano più «rassicuranti» degli omologhi maschi, declinando la mentalità conservatrice al femminile: «Il linguaggio populista incarnato dalle donne è quello della “grande madre” che mette in guardia i congiunti, che anziché dedicarsi alla famiglia privata si mette a disposizione della grande famiglia costituita dalla nazione» (Terranova, 2016).
Un fenomeno per alcuni aspetti nuovo, in questo contesto, è l’uso di strumentari concettuali e argomenti femministi da parte di donne di potere pronte a coniugare questa identità con ideologie neoconservatrici. Si pensi al caso di Ivanka Trump, figlia del presidente Usa, che si presenta come una figura simbolo della moderna donna statunitense, capace di conciliare al meglio i ruoli di moglie, madre e donna lavoratrice, tanto da aver dedicato al lavoro femminile il libro Women who work. In realtà il suo viene definito «falso femminismo» da Jill Filipovic sul New York Times (13 gennaio 2017) perché sarebbe nient’altro che un modello neotradizionale di femminilità che mescola elementi moderni con ve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prefazione alla seconda edizione
  4. 1 / La libertà delle donne e i suoi nemici
  5. 2 / Essere e non essere madri
  6. 3 / Aspettando la cicogna
  7. 4 / E vissero felici e contenti
  8. 5 / Per piacere, per amore, per denaro
  9. 6 / Bikini, burkini e scontri di civiltà
  10. Ringraziamenti
  11. Bibliografia