L'uccello dipinto
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L'uccello dipinto

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Ambientato durante la seconda guerra mondiale in un paese dell'Europa dell'Est, L'uccello dipinto è la storia di un bambino ebreo e della sua miracolosa ricerca della salvezza. Allo scoppio del conflitto la famiglia lo nasconde in un villaggio di campagna e lo affida alle cure di un'anziana bambinaia, sperando di risparmiargli le violenze dell'esercito invasore; ma dopo la morte della donna inizia per lui un solitario vagabondare nel tentativo di ricongiungersi ai genitori. Tra le atrocità dei soldati tedeschi e quelle dei contadini – che lo credono un ebreo o uno zingaro in possesso di poteri malefici – il bambino scoprirà sulla natura umana molto più di quanto la sua giovane età avrebbe dovuto consentirgli. Fin dalla sua uscita, nel 1965, L'uccello dipinto destò scalpore su entrambi i lati della Cortina di Ferro, divenendo uno dei libri più controversi nell'era della guerra fredda. Cinquant'anni dopo, caduto il velo delle ideologie, questo romanzo insieme autobiografico e universale continua a parlarci, con il coraggio e l'eloquenzadei grandi classici, del problema della libertà individuale e della violenza della società.Con una introduzione dell'autore.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788875216658
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

L’UCCELLO DIPINTO

1

Nelle prime settimane della seconda guerra mondiale, nell’autunno del 1939, un bambino di sei anni di una grande città dell’Europa orientale fu mandato dai genitori, come migliaia di altri bambini, a rifugiarsi in un remoto villaggio.
Un uomo che stava per mettersi in viaggio verso est accettò, per un sostanzioso compenso, di trovare al bambino due genitori adottivi provvisori. Non avendo molta scelta, i genitori glielo affidarono.
Allontanando il figlio, i genitori credevano che quello fosse il modo migliore per assicurargli la sopravvivenza durante la guerra. A causa dell’attività antinazista prebellica del padre del bambino, essi stessi dovevano nascondersi per evitare i lavori forzati in Germania o la prigionia in un campo di concentramento. Volevano risparmiare questi pericoli al figlio e speravano di ritrovarlo alla fine della guerra.
Ma gli avvenimenti sconvolsero i loro piani. Nella confusione della guerra e dell’occupazione, con i continui trasferimenti della popolazione, i genitori persero i contatti con l’uomo che aveva portato il bambino nel villaggio e dovettero rassegnarsi alla possibilità di non ritrovarlo mai più.
Intanto, la madre adottiva era morta due mesi dopo l’arrivo del bambino, e lui, rimasto solo, era stato lasciato libero di vagabondare da un villaggio all’altro, a volte ospitato e protetto, a volte cacciato via.
I villaggi in cui avrebbe passato i quattro anni seguenti erano etnicamente diversi dalla regione dov’era nato. I contadini del posto, isolati e incestuosi, avevano carnagione chiara, capelli biondi e occhi azzurri o grigi. Il bambino era olivastro e aveva capelli e occhi neri. Parlava la lingua della classe colta, una lingua quasi incomprensibile per i contadini delle province orientali.
Era considerato un piccolo vagabondo zingaro o ebreo, e dare asilo a zingari o ebrei, il cui posto era nei ghetti o nei campi di sterminio, esponeva individui e comunità alle sanzioni più severe da parte dei tedeschi.
I villaggi di quella regione erano stati trascurati per secoli. Inaccessibili e lontani da ogni centro urbano, si trovavano nelle zone più arretrate dell’Europa orientale. Non c’erano né scuole né ospedali, pochi i ponti e le strade asfaltate, e mancava l’elettricità. La gente viveva in piccoli insediamenti, alla maniera degli antenati. Gli abitanti dei villaggi litigavano per i diritti sui fiumi, sui boschi e sui laghi. L’unica legge era il diritto tradizionale del più forte e più ricco sul più debole e povero. Divisa tra la religione cattolica romana e l’ortodossa, la popolazione era unita solo dall’estrema superstizione e dalle innumerevoli malattie che affliggevano in egual misura uomini e animali.
Erano ignoranti e brutali, ma non per libera scelta. La terra era povera e rigido il clima. I fiumi, dove i pesci si erano molto diradati, spesso allagavano pascoli e campi, trasformandoli in acquitrini. La regione era ricca di torbiere e terreni paludosi, mentre fitte foreste offrivano da sempre rifugio a bande di ribelli e fuorilegge.
L’occupazione tedesca di quella parte del paese non fece altro che aumentarne la miseria e l’arretratezza. I contadini dovevano consegnare gran parte dei loro magri raccolti da un lato alle truppe regolari e dall’altro ai partigiani. Rifiutarsi di obbedire poteva portare a spedizioni punitive nei villaggi, che venivano abbandonati dopo essere stati ridotti a distese di rovine fumanti.
Abitavo nella capanna di Marta, in attesa che da un giorno all’altro, da un momento all’altro, i miei genitori venissero a prendermi. Piangere non serviva a niente, e Marta non prestava la minima attenzione al mio frignare.
Era vecchia e sempre piegata in avanti, come se volesse spezzarsi in due senza riuscirvi. I capelli lunghi, che non pettinava mai, si erano aggrovigliati in un numero incalcolabile di grosse trecce che sarebbe stato impossibile sciogliere. Trecce che lei chiamava «riccioli fatati». Forze malefiche si annidavano nei suoi riccioli fatati, attorcigliandoli e portando piano piano alla senilità.
Zoppicava qua e là, appoggiandosi a un bastone nodoso, borbottando tra sé in una lingua che non riuscivo assolutamente a capire. Il suo visetto avvizzito era coperto da una rete di rughe, e la pelle aveva un colore tra il rosso e il bruno come quello di una mela al forno troppo cotta. Il corpo rinsecchito fremeva continuamente, come scosso da un vento interiore, e le dita delle mani ossute con le giunture deformate dalla malattia non smettevano mai di tremare, mentre la testa sul collo lungo e scheletrico annuiva in tutte le direzioni.
La sua vista era debole. Puntava lo sguardo verso la luce attraverso due piccole fessure incastonate sotto le sopracciglia folte. Le palpebre erano come solchi in un terreno profondamente arato. Lacrime scendevano di continuo dagli angoli dei suoi occhi, scorrendole sul viso entro canali ben scavati fino a raggiungere i fili appiccicosi che le penzolavano dal naso e la saliva gorgogliante che traboccava dalle sue labbra. Sembrava una vecchia vescia grigioverde, completamente marcita e in attesa che un’ultima folata di vento disperdesse nell’aria la secca polvere nera dell’interno.
In principio avevo paura di lei e chiudevo gli occhi ogni volta che si avvicinava. La sola cosa che riuscissi a sentire in quei momenti era il fetido odore del suo corpo. Dormiva sempre vestita. I vestiti erano, secondo lei, la migliore difesa dal pericolo delle numerose malattie che l’aria fresca poteva diffondere nella stanza.
Per mantenersi in buona salute, sosteneva, una persona non doveva lavarsi più di due volte l’anno, a Natale e Pasqua, e anche allora assai poco e senza spogliarsi. Usava l’acqua calda solo per avere un po’ di sollievo dagli innumerevoli calli e duroni, e dalle unghie incarnite dei piedi nodosi. Ecco perché li metteva a mollo una o due volte la settimana.
Spesso mi carezzava i capelli con quelle mani vecchie e tremanti che tanto somigliavano a rastrelli da giardino. Mi incoraggiava a giocare nella corte e a fare amicizia con gli animali domestici.
Alla fine mi resi conto che erano meno pericolosi di quanto sembrassero. Mi vennero in mente le storie che la bambinaia mi leggeva da un libro illustrato. Questi animali avevano la loro vita, i loro amori e i loro dissensi, e facevano discussioni in una lingua tutta loro.
Le galline affollavano il pollaio, spintonandosi per arrivare alle granaglie che gli gettavo. Alcune passeggiavano a coppie, altre beccavano le più deboli e facevano bagni solitari nelle pozzanghere dopo la pioggia o arruffavano vanitosamente le penne sopra le uova che covavano e poi si addormentavano di colpo.
Strane cose accadevano nella corte. Le uova si schiudevano e ne uscivano pulcini gialli e neri, simili essi stessi a piccole uova saltellanti su esili zampette. Una volta si unì al gruppo un piccione solitario. Chiaramente, fu poco gradito. Quando atterrò tra le galline, in un turbine di ali e di polvere, esse scapparono via, spaventate. Quando prese a corteggiarle, emettendo versi gutturali mentre si avvicinava a passettini affettati, si tennero a distanza e lo guardarono sdegnosamente. Invariabilmente, appena si avvicinava, fuggivano chiocciando.
Un giorno, mentre il piccione cercava come al solito di farsi accettare dalle galline e dai pulcini, una piccola ombra nera si staccò dalle nubi. Le galline corsero verso la stalla e il pollaio, schiamazzando. La palla nera cadde su di loro come un sasso. Solo il piccione non sapeva dove nascondersi. Ancor prima che avesse il tempo di stendere le ali, un uccello vigoroso col becco uncinato e tagliente lo inchiodò al suolo e colpì. Le penne del piccione si macchiarono di sangue. Marta uscì di corsa dalla capanna impugnando un bastone, ma lo sparviero volò via senza intoppi, portando nel becco il corpo inerte del piccione.
In un apposito giardinetto roccioso, cintato con cura, Marta teneva un serpente. Il serpente scivolava sinuosamente tra le foglie, facendo ondeggiare la lingua biforcuta come un vessillo a una parata militare. Sembrava del tutto indifferente al mondo che lo circondava; non ho mai capito se si accorgeva di me.
In un’occasione il serpente si nascose in profondità sotto il muschio nel suo alloggio privato, rimanendovi per moltissimo tempo senza cibo né acqua, partecipando a strani misteri di cui anche Marta preferì non dire nulla. Quando infine riemerse, la sua testa splendeva come una prugna lucidata. Dopodiché si svolse un incredibile spettacolo. Il serpente rimase immobile, mentre il suo corpo acciambellato era scosso da lentissimi brividi. Poi, con calma, uscì dalla sua pelle, mostrandosi improvvisamente più magro e più giovane. Non faceva più ondeggiare la lingua, ma sembrava attendere che la nuova pelle s’indurisse. Su quella vecchia e semitrasparente che era stata completamente scartata camminavano mosche irriverenti. Mar­ta la sollevò rispettosamente e la nascose in un posto segreto. Una pelle come quella aveva preziose proprietà curative, ma lei disse che ero troppo piccolo per comprenderne la natura.
Marta e io avevamo assistito con grande stupore a questa trasformazione. Mi disse che l’anima dell’uomo scarta il corpo in modo analogo per poi volare via fino a trovarsi ai piedi di Dio. Dopo il lungo viaggio Dio la prende tra le Sue mani calde, la rianima col Suo fiato e la trasforma in un angelo del cielo o la getta nell’inferno dove sarà torturata eternamente dal fuoco.
La capanna era spesso visitata da uno scoiattolino rosso. Dopo il pasto esso ballava una giga nella corte, battendo la coda, emettendo brevi squittii, rotolandosi per terra, spiccando salti e terrorizzando galline e piccioni.
Lo scoiattolo veniva a trovarmi ogni giorno, si sedeva sulla mia spalla, mi baciava le orecchie, il collo e le guance, e mi scompigliava i capelli col suo tocco leggero. Dopo questi giochi spariva, tornando nel bosco al di là del campo.
Un giorno udii delle voci e mi arrampicai di corsa su un’altura vicina. Nascosto tra i cespugli, rimasi inorridito alla vista di alcuni ragazzi del villaggio che stavano dando la caccia al mio scoiattolo attraverso il campo. Correndo freneticamente, esso cercava di raggiungere la salvezza della foresta. Per impedirglielo, i ragazzi tiravano sassi davanti a lui. La bestiola s’indebolì, i suoi balzi si fecero più corti e più lenti. Infine i ragazzi lo catturarono, ma esso continuò coraggiosamente a lottare e mordere. Allora i ragazzi, chinandosi sull’animale, gli versarono addosso il liquido di un recipiente. Intuendo che stavano per fare qualcosa di orribile, cercai disperatamente di pensare a come salvare il mio piccolo amico. Ma era troppo tardi.
Uno dei ragazzi prese da una lattina che aveva a tracolla un pezzo di legno che ardeva senza fiamma e con quello toccò l’animale. Poi gettò lo scoiattolo per terra, dove esso fu immediatamente avvolto dalle fiamme. Con uno strido che mi tolse il respiro saltò su come per sfuggire al fuoco. Era coperto di fiamme; solo il pennacchio della coda si mosse ancora qua e là per un secondo. Il corpicino fumante si rotolò sull’erba e presto rimase immobile. I ragazzi stavano a guardare, ridendo e punzecchiandolo con un bastone.
Morto il mio amico, non avevo più nessuno da aspettare la mattina. Riferii a Marta l’accaduto, ma lei non parve capire. Borbottò qualcosa tra sé, pregò, e gettò il suo incantesimo segreto sulla casa per allontanarne la morte, che, asseriva, era in agguato lì vicino e cercava di entrare.
Marta si ammalò. Si lamentava di un dolore acuto sotto le costole, dove palpita il cuore ingabbiato per sempre. Mi disse che Dio o il Diavolo avevano mandato lì una malattia per distruggere un altro essere umano e così porre fine alla sua permanenza sulla terra. Non riuscivo a capire perché Marta non scartasse la propria pelle come faceva il serpente e ricominciasse a vivere da capo.
Quando glielo suggerii si arrabbiò e mi maledisse dandomi dello zingaro bastardo e blasfemo, parente del Demonio. Mi spiegò che la malattia entra in una persona quando meno se l’aspetta. Potrebbe essere seduta alle tue spalle, su un carro, saltarti addosso mentre ti chini a raccogliere bacche in un bosco o uscire strisciando dall’acqua mentre attraversi il fiume in barca. La malattia ti s’insinua nel corpo senza farsi vedere, astutamente, attraverso l’aria, l’acqua, o per contatto con un animale o un’altra persona o persino – e qui mi rivolse un’occhiata guardinga – da un paio di occhi neri vicini a un naso aquilino. Questi occhi, noti come «occhi di zingaro» o «di strega», potevano causare infermità, la peste o la morte. Ecco perché mi proibì di guardarla negli occhi e persino di guardare negli occhi degli animali domestici. Mi ordinò di sputare in fretta per tre volte e di farmi il segno della croce se avessi mai guardato per caso negli occhi di un animale o nei suoi.
Spesso si arrabbiava quando la pasta che lavorava per fare il pane inacidiva. Mi accusava di aver gettato un incantesimo e mi diceva che per punizione sarei rimasto due giorni senza pane. Cercando di accontentare Marta e di non guardarla negli occhi, mi muovevo nella capanna con gli occhi chiusi, inciampando nei mobili, rovesciando secchi e, fuori, calpestando i fiori delle aiuole e andando a sbattere contro ogni ostacolo come una falena accecata da una luce improvvisa. Intanto Marta raccoglieva un po’ di piuma d’oca e la spargeva sopra i carboni ardenti. Poi soffiava sul fumo che se ne sprigionava per diffonderlo in tutta la stanza accompagnandosi con formule magiche destinate a esorcizzare il malocchio.
Alla fine annunciava che l’incantesimo era stato spezzato. E aveva ragione, perché dall’infornata seguente usciva sempre buon pane.
Marta non si arrese alla malattia e al dolore. Ingaggiò contro di loro una battaglia incessante e astuta. Quando i dolori cominciavano a tormentarla, prendeva un pezzo di carne cruda, la tagliava a fettine e la metteva in un vaso di terracotta. Poi vi versava dell’acqua attinta al pozzo poco prima dell’aurora. Il vaso veniva seppellito in un angolo della capanna. Questo, diceva, le dava sollievo per qualche giorno, finché la carne non si era decomposta. Ma poi, quando tornavano i dolori, era costretta a ripetere tutta quella diligente procedura.
Marta non beveva mai nulla in mia presenza, e non sorrideva mai. Credeva, facendo così, che mi avrebbe offerto la possibilità di contarle i denti, e che ogni dente così contato le avrebbe tolto un anno di vita. È vero che non ne aveva molti. Ma mi rendevo conto che alla sua età ogni anno era prezioso.
Io cercavo di bere e mangiare senza mostrare i denti, e mi esercitavo guardando la mia immagine riflessa nello specchio nerazzurro del pozzo, sorridendomi con la bocca chiusa.
Non ebbi mai il permesso di raccogliere dal pavimento uno solo dei capelli che perdeva. Era ben noto che anche un solo capello, se colpito dal malocchio, poteva essere la causa di gravi disturbi alla gola.
La sera Marta sedeva accanto alla stufa, abbassando il mento sul petto e borbottando preghiere. Io sedevo lì vicino pensando ai miei genitori. Mi venivano in mente i miei giocattoli, che ora probabilmente appartenevano ad altri bambini. Il grande orsacchiotto con gli occhi di vetro, l’aeroplano con le eliche che giravano e le facce dei passeggeri visibili attraverso i finestrini, il piccolo e agile carro armato, e il carro dei pompieri con la scala che si allungava.
Di colpo la capanna di Marta diventava più calda, mentre le immagini si facevano più nitide, più vere. Vedevo mia madre seduta al piano. Udivo le parole delle sue canzoni. Mi ricordai della paura che avevo avuto prima di un’operazione di appendicite quando avevo solo quattro anni, dei pavimenti lucidi dell’ospedale, della maschera per l’anestesia che i dottori mi avevano messo sul viso e che mi aveva impedito di contare fino a dieci.
Ma questo mio passato stava rapidamente trasformandosi in un’illusione simile a una delle favole incredibili della mia vecchia bambinaia. Mi chiedevo se i miei genitori mi avrebbero mai ritrovato. Sapevano che non dovevano mai bere né sorridere alla presenza di persone che potevano contargli i denti e gettare il malocchio su di loro? Ricordavo il sorriso calmo e rilassato di mio padre e cominciai a preoccuparmi; mostrava tanti di quei denti che se qualcuno glieli avesse contati gettandogli il malocchio sarebbe morto sicuramente molto presto.
Un mattino, quando mi svegliai, nella capanna faceva freddo. Il fuoco nella stufa era spento e Marta era ancora seduta in mezzo alla stanza con le sue molte sottane rimboccate e i piedi nudi in un secchio pieno d’acqua.
Provai a rivolgerle la parola, ma non rispose. Le sfiorai la mano fredda e irrigidita, ma le dita nodose non si mossero. La mano penzolava dal bracciolo della sedia come un panno bagnato dalla corda del bucato in un gi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. Successivamente | di Jerzy Kosinski
  5. Profilo bio-bibliografico
  6. Bibliografia
  7. L’ucello dipinto