Guida ragionevole al frastuono più atroce
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Guida ragionevole al frastuono più atroce

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Guida ragionevole al frastuono più atroce

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Quello che avete fra le mani è uno dei libri rock più famosi di tutti i tempi. Lester Bangs è stato uno dei critici musicali di culto degli anni Settanta, e più in generale una figura cardine della controcultura americana (come tale è stato immortalato, ad esempio, nel film Almost Famous); questa antologia raccoglie i suoi scritti migliori, in cui la critica vera e propria si mescola di volta in volta con il reportage da dietro il palco, i ricordi personali, la confessione intima, la lettaratura visionaria, il delirio lisergico. Dai Clash a Lou Reed, da Van Morrison ai Kraftwerk, dai Jethro Tull a James Taylor, passando per i movimenti giovanili, la drug culture, la stampa, i media, la politica, il Vietnam, i saggi di Bangs disegnano l'affresco sovversivo di un'epoca leggendaria della musica (e della cultura) contemporanea.

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Informazioni

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PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
DI WU MING 1

A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così, anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: «Pensi che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una celebrità?», e lui ha risposto: «Non lo so». Capisci, io me ne sto qui e mi chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba. Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime, perché, come ho detto prima, so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante altre cose, quindi non dovrei fare pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solo perché non gli viene offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente comincerà a dire: «No! Mi rifiuto, non ne voglio più!»
Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980
Santo beatnik, Lester. Critico maudit, pazzo genio della scrittura gonzo, visse veloce d’arte e d’amore, incarnò lo spirito del rock’n’roll, morì giovane e povero ecc. ecc.
Di là dall’Atlantico, dopo anni di ’sti cliché, c’è chi riflette su Lester in modo nuovo. Qui da noi tocca invece attraversare quella fase, da zero come fosse appena morto, ché ben poca gente sa chi sia ’sto Lester Bangs.
Sfortunato, Lester, in Italia. Articoli in oscure fanzine che li conti sulle dita d’una mano, e poche traduzioni cagnesche, che dico, ringhianti in faccia al lettore tant’erano brutte. Niente di più.
Urge dunque un po’ di lavoro sporco. Cliché rigorosamente tra virgolette: Leslie Conway Bangs detto «Lester» (1948-1982), il critico rock più influente («seminale») «di tutti i tempi» (non c’è gara, non c’è mai stata). Scrittura influenzata da Kerouac e Burroughs. Sul finire dei Sixties, con Richard Meltzer e Nick Tosches («the Noise Boys») si mette di gran lena a «gettare le basi» della critica rock «militante» («in anticipo di ben quattro mesi e mezzo su chiunque altro», dirà Meltzer).
In pochi anni, Lester entra nell’empireo del New Journalism, per capirci: Tom Wolfe, Gay Talese, George Plimpton, ancorché più giovane di tutti costoro e in posizione defilata, nel «sottogenere» gonzo (narrazioni picaresche imbottite di sostanze psicotrope), capostipite Hunter S. Thompson, e nel gonzo dentro un ulteriore sottogenere, lo scrivere rock (che non è semplicemente lo scrivere di rock).
Grafomane panatlantico, viene pubblicato su Rolling Stone, Creem, NME e il Village Voice. Canta in diverse band e incide qualche disco (mentre scrivo ascolto Juke Savages on the Brazos, Lester Bangs and the Delinquents, mp3 a 128k trovati su una scarna pagina web).
Nel mondo di favella inglese è una «leggenda», Lester, canonizzata nell’antologia postuma che avete tra le mani (1987, a cura di Greil Marcus), nel film Almost Famous di Cameron Crowe (2000, Lester interpretato da Philip Seymour Hoffman), nella biografia Let It Blurt scritta da Jim DeRogatis (2000) e in un’antologia più recente, Mainlines, Blood Feasts and Bad Taste (2003, a cura di John Morthland).1
Ultimi trivia. Lester figura in una canzone dei REM: «It’s the End of the World ecc.» È menzionato accanto a Leonard Bernstein, Leonid Breznev e Lenny Bruce, lo scenario è una festa di compleanno. Poi ci sono i Ramones di «It’s Not My Place». Lester è nominato accanto a Phil Spector, Jack Nicholson e Clint Eastwood.
Curioso che entrambe le band chiamino in causa Lester per parlare del mondo e del mondano, in versi composti di nomi di vip. Non è mica un vip, Lester, è anzi l’outsider perenne, ostile a qualunque door policy e buttafuori. Piuttosto che entrare nel club «esclusivo» s’unisce agli esclusi sul marciapiede, fraternizza coi respinti dal dress code.
Lester ha/incarna un’idea del rock’n’roll comunitaria, democratica, solidaristica. Nemico d’ogni pretenziosità e solipsismo, fa a pugni con lo zeitgeist degli anni Settanta, negli Stati Uniti (e nel rock) periodo di Restaurazione come dopo il Congresso di Vienna: parrucconi incipriati, verticismo, culto della celebrità, virtuosismo «progressivo» fine a se stesso... «Peccato che ti sei perso il rock», dice Lester a William Miller all’inizio di Almost Famous.
Lester contrasta la Restaurazione esplorando, procedendo a tentoni, vagando nella notte in cui tutto il rock è grigio. Propugna «altri concetti di bellezza», glorifica «il frastuono atroce» fin quasi a condividere l’hobby di Stan Murch, personaggio dei romanzi di Donald E. Westlake. Murch compra e ascolta solo dischi con rumori di auto in corsa: accelerano, scalano di marcia, rallentano, arrivano vicino, di nuovo s’allontanano. È nel mood più oscuro dell’epoca sentire sinfonie dentro Metal Machine Music. Perlomeno, Lou Reed è convinto di avercele messe.
Sa scrivere, Lester. Da piccolo scrive sequel alle storie di Verne, Stevenson, Dumas. Prima adolescenza, si tuffa nella letteratura di genere, fantascienza soprattutto, space operas, roba osteggiata dalla madre testimone di Geova: la Bibbia non parla di vita su altri pianeti, quindi non ce n’è, fine del dibattito.
La scoperta della Beat Generation ha il prevedibile effetto disinibente. Intendiamoci, le solite cose: scrittura automatica, fame d’esperienza, tendenza a «innamorarsi all’istante» (del mondo, di una donna, di una canzone), voglia di scrivere «come un danzatore che agita il culo», tristezza quando il mondo delude le aspettative. Ma comprimete tutto questo nella recensione di un lp, massimo tre cartelle, e avrete una cosa diversa, lo stile che apre a Lester le porte di Rolling Stone. Su quelle pagine scriverà il necrologio di Kerouac, e il cerchio potrebbe anche chiudersi.
Ma non si chiude. Dopo un po’ Rolling Stone gli va stretta, inoltre il direttore Jann Wenner lo caccia (non parla bene dei dischi dei vip), rieccolo a Detroit, la città di Creem, rivista più free-form con cui può andare a briglia sciolta. Da quelle pagine impone l’uso delle espressioni «punk rock» e «heavy metal». Scrive di Mingus e di free jazz: Albert Ayler, l’ultimo Coltrane. Recupera la British Invasion versante «duro» (Troggs e Yardbirds) e il garage rock più oscuro modello Count Five. Analizza il rock-blues malarico e sghembo alla Captain Beefheart. Idolatra i Velvet Underground, o meglio, Lou Reed: acquitrini d’inchiostro sul loro «rapporto di amore/odio». Fa di Stooges e MC5 due cavalli di battaglia. S’addormenta ogni notte ubriaco con Iggy o i Black Sabbath in cuffia.
La metà dei Seventies lo trova non poco scoglionato, c’è siccità nel mondo del rock. Si sposta a New York in cerca di una fonte, e la trova: pianta le tende nell’oasi del CBGB’s: Ramones, Television, Voidoids, Patti Smith Group.
Pian piano si scosta dalla scrittura spontanea, s’avvicina di più al modello dello scrittore stone cutter, che lima, cancella, riscrive, cesella. Non proprio la «fatica nera» d’un Fenoglio, ma nemmeno il rotolo di carta di On the Road. Non è il solo: Richard Meltzer afferma di scrivere ormai «più lento della merda ghiacciata».
La «grande truffa rock’n’roll» è l’ennesima ustione all’anima. «Ogni decennio un auto-raggiro», così Lester riassume la propria vita. Gemebondo, batte le vie di Manhattan e indaga sulle morti di Sid & Nancy. Scopre di far parte della schiera dei carnefici.
Prova a trasferirsi in Texas ma cambia idea. Vuole disintossicarsi da alcol, speed e Romilar. Alle serate degli Alcolisti Anonimi c’è anche Lou Reed. L’età della fattanza da ribelle/«maledetto» è finita, o almeno dovrebbe. Certe cose divertono se le scrive Bukowski (a volte, nemmeno sempre), ma scritte da uno qualunque dei millanta epigoni sparsi per l’Orbe... Il mercato dell’attenzione è saturo e farcito di déjà entendus. Il ribelle/«maledetto» è animale da sacrificio per i fighetti, che gli caricano la molla e vivono, tramite lui, trasgressioni vicarie. Infine il punkabbestia torna da papà, ed è pure questo un cliché nauseabondo, tanto che fa schifo enunciarlo.
«Basta con le stronzate sull’amare la morte, una persona ha il dovere di trarre il meglio dalla vita», scrive Lester. C’è chi lo liquida con la parola tabù: moralista. Sempre più sovente fanno capolino nella sua prosa parole come decenza e integrità.
Il «nichilismo» è il nemico ed è bello avere un cuore, ma iniziano gli anni Ottanta, decennio antisociale anzichenò. Comincia l’era del videoclip e di MTV, trafficante di celebrità immeritate. «Il videotape è freddo», dice Lester. Come lui la pensa Jack Horner in Boogie Nights: «Se si vede di merda, e si sente di merda, allora dev’essere merda».
Parla di andare in Messico a scrivere «il suo romanzo», Lester, e pare non poterne più del rock. Eppure durante un incendio, fuggito di casa in mutande, ci ripensa e di corsa rientra. Per salvare che? La sua copia di Metal Box dei PIL.
Poi muore.
Non nell’incendio, s’intenda. Per cause sconosciute. Si dice sia colpa del Darvon, un tranquillante. Boh. Molti anni dopo Jim DeRogatis mostrerà a un luminare il referto dell’autopsia. «Frettoloso e superficiale», è il referto sul referto.
La critica al «culto di Lester» inizia ben presto. «All’indomani della sua morte, molti cercarono di mostrare che abbaiava ma non mordeva» (Meltzer). Si confonde lo stile di Lester con le sbrodolate d’inchiostro dei molti epigoni, che di lui non hanno capito niente. «Non imitate me», consigliava agli aspiranti critici rock. Difatti, non è quella l’eredità di Lester. E qual è, di grazia?
Alcuni anni fa un personaggio della bohème bolognese utilizzava a scopo intorto una frase d’apertura: «Parlami un po’ di me. Puoi anche esprimerti con parole tue». Che ricorda un po’ una celebre battuta, forse di Cochi Ponzoni: «Ma lo sa che lei è sempre stato un mio grande ammiratore?»
La «rockstar», il «divo», la «celebrità», ci ordinano di parlare di loro, lo fanno con la loro telepresenza e propaganda mercantile (quello hype che secondo Lester era «il nemico n.1»). L’industria culturale rende l’opera secondaria rispetto al personaggio, vende quest’ultimo e in subordine la prima. L’Autore diventa Autorità, la quale appunto dà ordini.
Lester combatté una guerriglia incessante per riportare al centro della riflessione la musica, l’opus, e ridimensionare chi la suonava. A ragione, considerava l’artista un tramite, un intermediario, latore di una testimonianza, uno che svolge una funzione sociale. L’immagine della «rockstar» è l’esito dell’autonomizzazione del testimone rispetto alla testimonianza che reca. Il culto della celebrità è un «feticismo dell’intermediario».
Parlando dei Led Zeppelin, degli Stones, di Elvis, Lester cartografava (talvolta letteralmente) i gradi di separazione tra artista e pubblico. I vari Presley, Jagger o Plant vedevano la comunità umana allontanarsi sugli orli di cerchi concentrici sempre più larghi.
Svariate volte, negli scritti bangsiani, ricorre la metafora della rockstar come colui o colei che si costruisce il proprio campo di concentramento. È quello che ha cercato di dire Roger Waters in The Wall: c’è qualcosa di fascista, nel rock. Il concerto rock come comizio nazi («In the Flesh») e l’impossibilità di uscire dal meccanismo: «Stop! / Voglio andare a casa, / togliermi quest’uniforme e mollare lo show / Ma sto aspettando in questa cella perché devo sapere: / sono stato colpevole per tutto questo tempo?»
Non a caso Lester usava espressioni come «fascismo edonista» e «divertimento forzoso». L’obbligo a sembrare felici è tipico delle società totalitarie, quella dei consumi lo è fuor di ogni dubbio e, quanto ai consumi giovanili, non c’è ambito in cui il totalitarismo sia più denso e colloidale.
Lester sottoscriverebbe senz’altro le osservazioni del filosofo e psicanalista Miguel Benasayag:
Quando seguiamo le istruzioni e facciamo di tutto per arrivare a quello che ci è stato proposto come modello di felicità, siamo doppiamente infelici, perché il risultato atteso non si produce. La famosa frase: «ha tutto per essere felice» non significa nulla. Non esiste un tutto oggettivo da cui può emergere la felicità. Non va dimenticato che le immagini iden...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Prefazione all’edizione italiana di Wu Ming 1
  4. Nota della traduttrice
  5. Introduzione di Greil Marcus
  6. Prima parte. Due testamenti
  7. / Psychotic Reactions and Carburetor Dung. Una storia di questi tempi
  8. / Astral Weeks
  9. Seconda parte. La montatura
  10. / Pop, torte e divertimento. Programma per la liberazione delle masse sotto forma di recensione degli Stooges ovvero «Chi è l’idiota?»
  11. / James Taylor deve morire
  12. / I Godz parlano esperanto?
  13. Terza parte. Gli anni di Creem: fregature, fallimenti e fantasie
  14. / Chicago at Carnegie Hall, volumi I, II, III e IV
  15. / Black Oak Arkansas: Keep the Faith
  16. / White Witch
  17. / John Coltrane è vivo e lotta insieme a noi
  18. / I Guess Who: Live at the Paramount
  19. / James Taylor: One Man Dog
  20. / Le stranissime creature che hanno smesso di vivere e sono diventate zombie confusi. Ovvero il giorno in cui le onde radio sono esplose
  21. / I Jethro Tull in Vietnam
  22. / Fottere il sistema con Dick Clark
  23. / Slade: Sladest
  24. / La mia serata di estasi con la J. Geils Band
  25. / Johnny Ray e la vasca per idromassaggio
  26. / Barry White: Just Another way to Say I Love You
  27. / Kraftwerkservizio
  28. / David Bowie: Station to Station
  29. Quarta parte. Uccidi il padre
  30. / Dagli Appunti senza titolo su Lou Reed, 1980
  31. / E ora rendiamo lode a famosi Nani della Morte. Ovvero come mi sono scontrato con Lou Reed e sono riuscito a restare sveglio
  32. / Come riuscire a torturare qualcuno senza nemmeno provarci. Ovvero «Lou, tesoro, torna a casa, ti abbiamo perdonato»
  33. / Il più grande disco mai inciso
  34. / Dagli Appunti senza titolo su Lou Reed, 1980
  35. Quinta parte. Uccidi i figli, seppellisci i morti, segnali di vita
  36. / Iggy Pop: una fiamma ossidrica in versione sadomaso
  37. / Ho visto Dio e/o i Tangerine Dream
  38. / Dove eravate quando è morto Elvis?
  39. / Peter Laughner
  40. / I Clash
  41. / Richard Hell: morire significa non dover mai dire che sei incompleto
  42. / Crescere sinceri è davvero difficile
  43. / I fautori della supremazia del rumore bianco
  44. / Gli Sham 69 sono innocenti!
  45. / L’ultimo dell’anno
  46. / Otis Rush aggredito da un iceberg
  47. / Pensare l’impensabile su John Lennon
  48. / Guida ragionevole al frastuono atroce
  49. Sesta parte. Senza titolo
  50. / Dagli Appunti senza titolo, 1981