Perdersi
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Perdersi è un libro che ci regala qualcosa di prezioso: la libertà di esplorare, il piacere di abbandonare le idee precostituite e abbracciare l'incertezza. D'Ambrosio instaura infatti un dialogo intimo con il lettore e, attraverso una prosa armoniosa ed equilibrata e uno stile geniale e frizzante, lo coinvolge in una conversazione continua con se stesso. La raccolta – che si colloca nella tradizione del New Journalism di Joan Didion e Hunter Thompson – si apre con due saggi mozzafiato ambientati a Seattle, luogo natale dell'autore, dissertazioni ironiche e decisamente folli sulla città prima che diventasse di moda, passando poi a un brillante scritto su Il giovane Holden in cui si esplora la perdita di identità. Ma che parli di una città, un personaggio o la sua stessa storia familiare, è l'isolamento il grande soggetto di D'Ambrosio che in Perdersi, attraverso il linguaggio del saggio narrativo, sfida le convinzioni mettendosi in discussione in un modo che una storia o un racconto breve non avrebbero permesso. Un esempio lucido e spettacolare di moderno romanzo.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788875217891
Argomento
Letteratura

TERZA PARTE
VITA DA LETTORE

SALINGER E SINGHIOZZI

Nei giorni subito successivi al suicidio di mio fratello, avevo preso l’abitudine di uscire nel cortile dietro casa, sdraiarmi sul tavolo da picnic e guardare il vento di novembre che piegava i rami di un altissimo abete dall’altro lato della strada. Le raffiche più forti mettevano in movimento un gruppo chiassoso di corvi neri, che si alzavano in volo e cominciavano a girare nel cielo. Gracchiavano, schiamazzavano e volavano in tondo, si posavano e poi si alzavano di nuovo, facendo rumorosamente il verso, direi, al branco di sconosciuti vestiti di nero funebre che si erano presentati alla sepoltura di mio fratello. Circa una settimana dopo che Danny si era puntato una pistola alla testa e aveva premuto il grilletto, e un paio di giorni dopo il suo stupido funerale ortodosso nella chiesa della nostra infanzia, feci una passeggiata lungo una strada di buche rattoppate alla meglio che costeggia il Lake Union (vicino al punto in cui, più o meno un anno nel futuro, futuro che ero certo si fosse tragicamente interrotto la sera in cui Danny si era sparato, Mike, l’altro mio fratello, avrebbe fatto un numero simile, buttandosi dall’Aurora Bridge e sopravvivendo, rivelandomi così il lato comico, vaudevilliano del suicidio) e vidi un corvo che affondava il becco nel petto di un pettirosso ferito. Probabilmente il pettirosso era stato investito da una macchina. Era adagiato sul dorso e gravemente mutilato, ma non era ancora inanimato. Aveva un’ala inchiodata al petto e l’altra la dibatteva furiosamente in un inutile tentativo di fuga, e così facendo, ancora in preda alla furia dell’istinto, riusciva soltanto a girare su se stesso come la freccetta che si fa ruotare con un colpo delle dita in certi giochi da tavola. Il pettirosso era pienamente in vita ma prigioniero di una futile speranza, e io lo sapevo, e lo sapeva il corvo, e mentre il corvo tormentava l’uccello, saltando giù da una staccionata lì vicino su cui era appollaiato, dandogli qualche beccata, tornando poi al suo posto, aspettando, rituffandosi giù e attaccandolo di nuovo, io mi fermai sul bordo della strada a guardarli.
Poco più avanti vi racconterò l’esito finale di quella lotta impari, ma per il momento la tiro fuori solo perché, a distanza di qualche anno, ora che abito pienamente il mio futuro abortito, mi pongo spesso una domanda riguardo mio fratello, simile a un koan zen, che fa più o meno così: se potessi intervenire e cambiare la mia storia personale modificherei gli eventi del passato in modo da riportare Danny in vita? Rimetterei quell’unica cartuccia a percussione anulare nella sua tranquilla camera di scoppio all’interno della pistola, e lascerei che la sera del 26 novembre 19__ passasse immersa nel sonno, nei sogni, nell’alcol o nella tv, o in ciò che l’anonima massa della storia riserva a quasi tutti noi? Staccherei le dita dall’impugnatura, gli toglierei la sofferenza, cancellerei quel biglietto e rimetterei il foglio bianco nella risma e ritrasformerei la risma di fogli in pasta di legno, ecc., sostituirei il mio mostruoso padre con un minchione gentile nella tradizione delle sitcom, farei qualcuna di queste cose, la farei? E dove sarei in quel momento? Sarei lì, nella stanza? Avrei il ruolo di un eroe? E da dove comincerei esattamente a scavare nel passato, a correggerlo, a emendarlo? Quanto indietro nel tempo devo risalire per smantellare tutta la tragica baracca? Cioè, dal mio attuale punto di vista immagino tutta un’immensa, sordida storia che raggiunge infine il penultimo stadio del suo disfacimento nel giardino dell’Eden, all’ombra dell’albero della conoscenza, facendomi domandare se avrei fermato o no la mano innocente, lasciando la mela intatta, non scalfita dal morso.
Diffido un po’ delle elucubrazioni sullo stato dell’uomo prima della Caduta, più o meno come diffido delle teorie del complotto, perché entrambe mi sembrano descrivere soltanto i limiti, come il guscio di noce di Amleto, della mente di chi le formula. Non vogliamo davvero far crollare l’intero universo solo per placare il nostro momentaneo disagio o la nostra incapacità di vedere il quadro più ampio della situazione, no? Non vogliamo una vita fondata sulla nostra incapacità di comprendere la vita, giusto? Se potessi impedire la morte di Danny, vorrebbe dire che anche il tentativo di suicidio di Mike non avverrebbe mai, o significherebbe invece che Mike troverebbe un modo diverso, più infallibilmente letale per togliersi la vita piuttosto che saltare oltre il parapetto del più famoso luogo di suicidi a Seattle, un luogo che ha funzionato a meraviglia per centinaia di altre persone? O l’unico fratello che mi resta morirebbe affogato o per le lesioni interne, invece di, come è successo, impattare sull’acqua, rompersi il bacino, distruggersi la vescica, slogarsi una spalla eppure, così malridotto (ah, dimenticavo di accennare alla sua schizofrenia), avere comunque la presenza di spirito di togliersi le scarpe, nuotare verso riva, tirar fuori una moneta dalla tasca e chiamarsi un’ambulanza, con la facilità con cui si prende un taxi? Quel piccolo miracolo non succederebbe, in questa mia storia riscritta? Mi sarei solo tenuto un fratello al posto di un altro? E anche: le starei scrivendo queste righe, o sulla mia vita senza incidenti regnerebbe un delizioso silenzio, lasciandomi libero di considerare altri, più felici destini?
Non avevo mai letto J.D. Salinger o John Knowles, entrambi capisaldi dei curriculum scolastici, perché non so come, nel perenne fermentare della cultura circostante, da quegli autori mi era arrivata una zaffata di East Coast, di privilegio sociale e puzza sotto il naso, e dunque ipso facto, almeno per quanto mi riguardava, di irrilevanza, irrilevanza condita con una dose difensiva di contro-snobismo tipica della West Coast. Non potevo identificarmi con l’ambiente delle scuole private per figli di papà. Lo consideravo socialmente arretrato, un’idea stupida inventata in Inghilterra. E così, invece delle esperienze dei collegiali di Salinger o Knowles leggevo Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, attratto esclusivamente dal suo inquietante milieu gesuita e dal modo in cui Stephen Dedalus usa la diversità e lo snobismo per fuggirne. La lettura del Ritratto era già in sé un gesto di snobberia alla Dedalus da parte mia, una posa che speravo facesse incazzare i compagni che nella mia scuola maschile gesuita avevano in testa solo lo sport. Perché? Perché anch’io ero stato uno di loro, ma di recente avevo mollato tutti gli sport per dedicarmi a tempo pieno alla gestione della mia infelicità. A quell’età, sedici-diciassette anni, leggevo letteratura perché mi servivano consigli di vita, e volevo che fossero del tutto privi di giudizi nei miei confronti. Volevo capire come vivevano le altre persone. Mi ero esiliato dall’ordine che vigeva sui campi sportivi, e le alternative più ovvie che mi si presentavano a scuola erano diventare un tossico o uno studioso. Provai entrambe le strade e la passione per i libri mi rimase. Leggendo speravo di allontanarmi il più possibile dall’omiletica cattolica, e scoprii in fretta che la miglior fonte di consigli senza la morale era la buona letteratura. Capii subito che certe storie osservavano le vite umane in maniera diretta e coraggiosa, senza criticarle o condannarle. Certo, volerne trarre consigli pratici significa avere un’idea piuttosto rozza delle vere qualità di un libro, ma quello era il mio modo di intendere la letteratura: trattavo romanzi e racconti come fossero i manuali di autoaiuto che tornano ciclicamente di moda da un decennio all’altro, reinventandosi la propria rilevanza. Non sapevo fare di meglio, e probabilmente non so fare di meglio neanche ora. Comunque sia, al Giovane Holden ci arrivai tardi, da adulto, e pensavo che mi avrebbe lasciato freddino.
Mi sbagliavo. Fin dall’inizio la mia lettura dell’opera di Salinger è stata sbilenca, eccentrica, ossessionata dal leggendario silenzio dello scrittore recluso e dal tema del suicidio che sembra cucire insieme tutto ciò che ha scritto. Come succede sempre, forse inevitabilmente, il peso sbilanciato che la mia esperienza di vita caricava sul testo gli ha impresso un’orbita eccentrica, traballante, e ancora oggi mi sembra di non riuscire a leggere quel romanzo in maniera diversa. È un libro tutto sul Suicidio e sul Silenzio. Al suicidio si accenna per la prima volta quando Holden, in piedi su una collina che s’affaccia sul campo da football, dice che la partita con il Saxon Hall era «l’ultima dell’anno, se la vecchia Pencey non vinceva sembrava dovessi come minimo suicidarti». Altri accenni diretti al suicidio, o minacce poco velate, punteggiano tutta la storia. La parola stessa ha una presenza disinvolta e significativa nel vocabolario di Holden. Si offre volontario per sedersi sulla prossima bomba atomica. E poi c’è il punto in cui racconta la storia di James Castle, il ragazzo che si butta dalla finestra, uccidendosi, con indosso un maglione nero a collo alto che gli aveva prestato lui. Nella letteratura scientifica sul suicidio è ormai dato per assodato che ogni tentativo è combattuto, che in ogni progetto si lascia spazio per un capriccio della sorte, si sceglie un potenziale salvatore, si dà un’opportunità di soccorso, si nasconde una tormentata speranza che sta al cuore dell’universo in rapida contrazione del suicida. Per esempio, i suicidi tendono a muoversi verso la società – e verso il suo possibile intervento – man mano che si avvicinano a formulare e mettere in pratica piani concreti. E chiaramente Il giovane Holden trae il suo titolo originale, The Catcher in the Rye, proprio da questo tipo di ambiguità, e la storia stessa, che in un certo senso non è altro che una lunga serie di variazioni sul tema del salvare e dell’essere salvati, è piena di strategie specifiche volte al soccorso, con Holden che alterna nervosamente punto di vista, oscillando fra il salvatore e il salvato.
Il brano che segue dà il titolo al libro ed è ovviamente non solo una fantasticheria di Holden riguardo al salvare gli altri, ma anche un’espressione della speranza che nutre per se stesso.
Io mi immagino sempre tutti questi bambini che giocano a qualcosa in un grande campo di segale e via dicendo. Migliaia di bambini, e in giro non c’è nessun altro – nessuno di grande, intendo – tranne me, che me ne sto fermo sull’orlo di un precipizio pazzesco. Il mio compito è acchiapparli al volo se si avvicinano troppo, nel senso che se loro si mettono a correre senza guardare dove vanno, io a un certo punto devo saltar fuori e acchiapparli. Non farei altro tutto il giorno. Sarei l’acchiappabambini del campo di segale...
In genere non leggo i pettegolezzi sulla vita degli scrittori, e non so nulla, niente di niente, della vita di Salinger (silenzio a parte), ma il tema del suicidio a me sembra molto sentito, così come il tema ricorrente della famiglia numerosa: due elementi che ho in comune con... con chi? Con Salinger o con i suoi vari narratori, o con entrambi, o con nessuno dei due? Non lo so. Come i Glass (diciamo), anche noi eravamo sette figli, e un fenomeno più frequente nelle famiglie grandi che in quelle piccole è il fiorire dei soprannomi, anche perché c’è sempre in giro un bambino che non sa dire il vero nome dei fratelli più grandi. Nel pronunciare le loro prime sillabe, i bambini quei nomi li deformano, e le deformazioni restano perché sono tenere o buffe o qualcosa del genere. La famiglia Glass di Salinger sembra composta tutta di soprannomi, eccezion fatta per Seymour. In quanto figlio maggiore, anche io ne ero abbastanza immune – di nomi ne davo, più che riceverne – ma un buon esempio di questo processo, nella nostra famiglia, sarebbe quello di mia sorella Patricia, che passò rapidamente da «Tricia» a «Trish» e poi deviò lateralmente verso «Didya» per arrivare infine a «Did». E le sorelle di Did erano Mugs, Gith e Bean, e Did chiamava mio fratello Danny «Mr. Sobs»12 o anche solo «Sobs», perché quando giocavano alla famiglia lui era sempre il bimbo piccolo. Questi nomi scemi, da filastrocca, ricordano Franny, Zooey, Boo Boo e via dicendo. C’è anche il fatto che, nelle famiglie numerose, i bambini formano una nutrita società tutta loro, separata da quella dei genitori, e i soprannomi diventano una specie di argot, una lingua segreta, laddove nelle famiglie più piccole immagino che prevalga il contatto verticale e diretto con gli adulti. Ad ogni modo, l’uso che Salinger fa dei soprannomi, la loro proliferazione, e il fatto che il figlio maggiore, Seymour, non ne abbia, è sempre stato un dettaglio importante nella mia lettura della sua opera.
Nell’opera di Salinger c’è una continua incapacità da parte dei vari narratori in primo piano, l’incapacità di trovare un’identità separata e distinta dall’idea corporativa di famiglia. Holden è anche un po’ D.B. e Allie e Phoebe, e Buddy è Seymour e Zooey, e via dicendo. I membri delle famiglie numerose tendono ad avere questa forte identità di gruppo. Non so come mai, anche se, per esempio, quando mi chiedono del mio passato mi capita facilmente di passare alla prima persona plurale. Mi viene istintivo, guardandomi indietro, usare il «noi». Sono solo le dimensioni che spiegano questo sfumare dell’identità personale all’interno di una grande famiglia? Il fatto che si cresce ammassati nello stesso bagno, lavandosi i denti di fronte a uno specchio che ti riflette in faccia altri tre o quattro sorrisoni bianchi di schiuma: è questo? O il fatto che si finisce sempre per portare i vestiti di qualche altro bambino, o per trovare uno dei propri indumenti preferiti, anni dopo averlo indossato l’ultima volta, nel cassetto di un fratello, come se lui fosse un’altra, più recente versione di te: è questo? Forse. Anche la privacy è un problema. È raro passare del tempo da soli. E con così tante parti in causa, occorre negoziare costantemente un armistizio se si vuole sperare di tirare avanti, e anche per le cose più semplici, per usare la macchina il venerdì sera o scegliere un canale alla tv, si finisce per lavorare a stretto contatto, e di concerto, con gli altri ragazzini. A casa nostra, facendo fare un salto di qualità a questa vicinanza, avevamo istituzionalizzato un sistema di tutoraggio, un’organizzazione permanente in base alla quale a ogni figlio più grande ne veniva assegnato uno più piccolo, e si aveva la totale responsabilità dei suoi attraversamenti sulle strisce nonché delle sue scorribande fra gli scaffali del supermercato e del suo buonumore durante la lunga attesa per comprare le scarpe nuove da J.C. Penney’s. Dato che ero il più grande, alle mie cure era affidato Danny, il più piccolo e il più scapestrato.
I narratori di Salinger non sono mai abbastanza separati dalla loro famiglia, o almeno da quel senso di famiglia definito orizzontalmente dal rapporto coi fratelli. Holden vuole bene davvero solo a D.B., al fratello morto Allie e alla sorella Phoebe, e diffida di chiunque altro. Nessuno, al di fuori della cerchia familiare, gli sembra una persona sensata, o quantomeno Holden non gli accorda lo stesso ampio grado di tolleranza delle stranezze che concede a fratelli e sorelle. Gli altri semplicemente non gli sembrano reali, non nel modo solido e rassicurante in cui lo è la famiglia. Il mio intento, qui, nel parlare di identità e famiglia, non è avvicinarmi a una lettura psicologica del romanzo. Anzi, mi sembra che il decennio degli anni Cinquanta, che vide esplodere per la prima volta l’analisi psicologica di massa dei fenomeni della vita, trovi fin da subito in Holden Caulfield il suo più strenuo oppositore. (In Seymour. Introduzione, Salinger scrive, a proposito della professione psichiatrica: «Sono una banda di sordi. E con un equipaggiamento così difettoso, con quelle loro orecchie che non sentono, come potranno dall’intensità dell’urlo risalire all’origine del dolore? Con mezzi uditivi così limitati il meglio che si può fare è, credo, percepire e, forse, verificare qualche suono marginale – lo si potrebbe quasi chiamare il contrappunto – derivante da un’infanzia infelice o da una sfrenata libido».) Non sembra che Holden abbia davvero qualcosa che non va, eppure la sua vita è un gran casino. L’idea di base del romanzo è che Holden racconti la sua storia dall’interno di un ospedale psichiatrico, e si può immaginare, lo si sente nei toni carichi e nervosi della prosa, che si stia rivolgendo direttamente al lettore, scavalcando una serie di dottori, infermiere ed esperti vari che non capiscono nulla.
Il tema della famiglia numerosa può sembrare marginale ma mi conduce all’idea dell’autenticità, che è un principio organizzatore del romanzo. È una questione fondamentale di tutta l’opera di Salinger. Cos’è reale? Cos’è attendibile? Holden, com’è noto, sta sempre in guardia contro gli ipocriti, attento a smascherare la gente insincera o in malafede, quella che dà una falsa impressione, i pretenziosi, gli impostori e i pervertiti. In «Un giorno perfetto per i pescibanana» la trita conversazione telefonica – la falsa narrazione – fra la moglie e la suocera di Seymour dà un’idea brutalmente sbagliata di lui. È un discorso menzognero, che non dice nulla di vero o di esatto sul mondo. E Buddy Glass, il narratore di Seymour. Introduzione, dice: «Una delle più elementari [delle mie presunzioni letterarie] è la sicurezza di sapere dire se un poeta o un prosatore sta attingendo a un’esperienza di prima, seconda o decima mano, o cosa ci sta rifilando con quella che vorrebbe far passare per pura invenzione». Non è tanto il contenuto di questa affermazione ma il tema dell’autenticità in sé che stimola il mio interesse. Saper riconoscere l’autenticità è una facoltà critica, che tutti grosso modo sviluppiamo. Si può peccare in un senso o nell’altro, si può essere ingenui, lasciarsi ingannare facilmente, o si può essere troppo scettici e non credere in niente. Nel caso di Holden, per esempio, è abbastanza chiaro che c’è qualcosa, un dubbio vorace, che lo spinge a mettere in discussione anche le più semplici interazioni con gli esseri umani. Per Holden non c’è nulla di autentico, e il suo problema non è tanto fare una cernita superficiale fra il vero e il falso: non riesce proprio a capire come si arriva a sapere davvero qualcosa. È questo il rumore di fondo che disturba spaventosamente tutta la storia, e cessa solo quando Holden trova qualcosa di autentico, il vero (che cosa?), o quando è troppo stanco per continuare.
Su cosa può contare Holden, di cosa si fida, cos’è reale per lui? La sua reazione nei confronti della vita è, come quella di un corpo traumatizzato, di ritrarsi nel nucleo più profondo dell’identità, nel suo caso la famiglia, per mantenere il proprio io funzionante e vivo. C’è un senso di amore, di calore, di sicurezza nel modo in cui Salinger scrive della famiglia, una sorta di intimità trincerata a cui ben pochi lettori restano indifferenti, che fa da contrasto al mondo falso, ostile, lupesco che soffia con violenza fuori dalla porta. Leggendo Salinger avverto una potenza emotiva che nasce dalla radicata fede dello scrittore nel valore e nell’integrità della famiglia, in particolare dell’idea di famiglia come nucleo di fratelli. Sulla famiglia s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. UNA SORTA DI PREFAZIONE
  3. PRIMA PARTE. A OCCIDENTE DELL’OCCIDENTE
  4. SECONDA PARTE. STRATEGIE CONTRO L’ESTINZIONE
  5. TERZA PARTE. VITA DA LETTORE
  6. Nota della traduttrice