Rock encyclopedia e altri scritti
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Nel 1959 sbarca a New York una giovane giornalista australiana. Donna indipendente, scrittrice brillante, osservatrice acuta e affamata di novità: il suo nome è Lillian Roxon, e in dieci anni intensissimi, vissuti gomito a gomito con gli artisti, i musicisti e gli intellettuali più in vista degli anni Sessanta, rivoluzionerà il modo di raccontare la cultura pop e i fenomeni giovanili. Nel 1969, l'anno del festival di Woodstock, esce la sua Rock Encyclopedia, la prima enciclopedia dedicata alla musica rock. Con uno sguardo lucido e appassionato, affilato da una vena ironica e uno stile di scrittura modernissimo, Lillian Roxon tira le somme di un decennio di eccessi e innovazioni, di mode passeggere e profonde trasformazioni dei costumi, dettando lo standard per il nuovo giornalismo musicale che sarebbe esploso – come genere di scrittura e come metodo di interpretazione della contemporaneità – negli anni Settanta. Questo volume presenta per la prima volta ai lettori italiani il testo integrale della Rock Encyclopedia, ed è completato da una selezione di articoli dell'autrice e da un profilo introduttivo firmato dal biografo Robert Milliken.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788875216290

ACID ROCK / All’inizio l’acid rock era la musica che cercava di riprodurre l’ascolto distorto di una persona sotto effetto di acido lisergico dietilamide (LSD). L’idea era usare la musica per ricreare in uno che non si droga l’illusione di un’esperienza LSD (un’illusione amplificata dai light show progettati per riprodurre gli aspetti visivi di un viaggio).
L’LSD è arrivato a San Francisco nel 1965 appena prima che prendesse piede la grande scena dance, una scena partorita dall’esuberanza generale di una comunità che aveva appena scoperto l’estasi chimica. La musica ha semplicemente riprodotto quell’estasi. Era più lenta e più languida dell’hard rock, incorporando molta della musica orientale e delle sue sonorità, che facevano da sottofondo alle esperienze di droghe dell’e­poca. Le performance di solito duravano di più e il tempo nella sua comune accezione perdeva di significato. Note e frasi vacillavano e si distorcevano in un modo che, fino a quel momento, il rock non avrebbe ritenuto accettabile. I testi evocavano immagini un tempo confinate nei versi di poeti come Samuel Taylor Coleridge e William Blake.
L’acid rock e i light show delle sale da ballo di San Francisco hanno regalato a molti un gioioso viaggio al centro della mente senza nessuno degli spiacevoli effetti collaterali e dei costi delle droghe allucinogene. Anche se non ci sono dubbi che gran parte di quel pubblico del 1966-67 più che dell’aiuto della musica avesse bisogno di un adeguato sottofondo musicale per un viaggio già innescato dalla chimica. Così il termine acid rock potrebbe indicare tanto una musica che potenzia quanto una che induce i viaggi psichedelici.
Le canzoni acid rock le scrive chi è sotto LSD o quantomeno ha ancora freschi nella mente i suoi effetti? Per quel che riguarda l’acid rock delle origini, sì. Poi, quando nel 1967 quel sound ha raggiunto le frequenze radio nazionali, c’è stata un’ondata di eccellenti riproduzioni che potevano essere state tranquillamente composte dopo un viaggetto al negozio di dischi più vicino. E oggi sono pochi i gruppi o anche i singoli performer non contaminati dalla musica venuta fuori dalla scoperta degli allucinogeni a San Francisco.
(vedi head music)
DAVID ACKLES / Valido cantante, pianista e bravo compositore, la cui «Road to Cairo» è stata scelta nel 1968 da Julie Driscoll come suo secondo singolo. Vive in California, ha fatto un album e scritto canzoni che sono al tempo stesso gentili e potenti.
THE AMBOY DUKES / Ted Nugent (chitarra solista), Steve Farmer (chitarra ritmica), Dave Palmer (batteria), Greg Arama (basso), Andy Solomon (piano, organo), Rusty Day (voce).
Dopo tre anni di preparazione, con tipo trentacinque cambi tra i membri del gruppo, gli Amboy Dukes nel 1968 infine sono riusciti ad avere una canzone in testa alle classifiche, «Journey to the Center of the Mind».
AMERICAN BREED / Chuck Colbert, Gary Loizzo, Lee Graziano, Al Ciner.
Molto prima che raggiungessero il successo nazionale con la hit «Bend Me, Shape Me», gli American Breed erano celebri nella scena rock dance adolescenziale nel Midwest del 1965. Sono la tipica band hard rock che ha raggiunto la fama locale e poi ha sfondato a livello nazionale e internazionale con un unico singolo valido, dopo il quale non c’è più bisogno di guardarsi indietro perché gli anni di esperienza stanno tutti lì, come un solido puntello. Gli American Breed non erano uno dei gruppi che andavano di moda a fine anni Sessanta – non erano abbastanza psichedelici né mistici.
ERIC ANDERSEN / Allampanato e innocente e forse un po’ troppo belloccio, Eric Andersen è figlio della stessa ristretta scena folk della seconda generazione del Greenwich Village dei primi anni Sessanta che ha regalato al mondo ogni cosa, da Bob Dylan e Phil Ochs a Judy Collins e i Lovin’ Spoonful. (All’epoca non era una scena che alzava molti soldi, e in quei giorni il solo pensare di riuscire a farne avrebbe scatenato grandi risate giù al Gaslight Café o nella cucina del Gerdes.) Eric è stato uno dei primi cantanti folk a scriversi da sé le canzoni invece di interpretare quelle degli altri. E all’inizio degli anni Sessanta ci voleva coraggio nel farlo. Quando Judy Collins ha interpretato la sua «Thirsty Boots», per Andersen è stata la svolta. Da quel momento tutti, dai Robbs ai Blues Project, hanno registrato una cover della sua canzone più famosa, «Violets of Dawn», ma è stata la sua stessa tenera versione a fare di lui un maestro della ballata lirica e romantica. Contrariamente ad alcuni dei suoi contemporanei, Eric non è mai diventato famoso, urlante né elettrico. E non ha mai fatto i famosi, urlanti ed elettrici soldi che ne sarebbero conseguiti. Nel 1967 il manager dei Beatles, Brian Epstein, aveva deciso di scritturarlo ma poi è morto.
ANIMALS (anche eric burdon and the NEW ANIMALS) / Eric Burdon (voce), Andy Somers (chitarra), Barry Jenkins (batteria, tamburello), John Weider (chitarra, violino, basso), Zoot Money (organo).
Membri precedenti: George Bruno, Charles Chandler, John Steel, Dave Rowberry, Hilton Valentine, Alan Price, Vic Briggs, Danny McCulloch.
Era la lunga estate rovente del 1964 e la Beatlemania dilagava quando la dura, roca voce di Eric Burdon raggiunse le onde radio con «The House of the Rising Sun». È stato allora che l’America ha capito che Inghilterra significava affari d’oro. Con Eric in testa alle classifiche, si sono resi conto che la British Invasion era reale, che l’Inghilterra non aveva soltanto i Beatles, che probabilmente ce n’erano a dozzine lì da dove era venuto il piccolo quartetto. Gli Animals, per esempio. Erano di Newcastle, una cittadina grezza come Liverpool. Alan Price, il tastierista (che adesso ha una band sua), prima suonava con un quartetto che si chiamava l’Alan Price Combo e a cui nel 1962 si è unito Eric Burdon. La gente del posto trovava che somigliassero a degli animali, e dunque Animals furono. Eric suonava molto blues, come tanti altri gruppi inglesi emergenti dell’epoca (una reazione al rock pulito e educato delle band del momento tipo gli Shadows, che salivano sul palco in giacca e cravatta e cantavano canzoni adeguate al look). Il sound degli Animals, con la voce incredibilmente nera e blues di Eric e l’organo nero e blues di Alan Price, è stato un gran successo nei diversi tour americani, finendo nelle classifiche degli album più venduti, non solo tra gli adolescenti, ma tra molta gente della comunità nera che trovò Eric e la sua musica così funky da dedicargli pagine intere sulla rivista nazionale Ebony. Poi, nel 1966, Eric Burdon è stato artefice di uno dei più grossi colpi di scena della storia del rock: ha ufficialmente sciolto i vecchi Animals (con orrore dei fan) e li ha trasformati in un nuovo gruppo, con un nuovo sound e un nuovo tariffario. A quel punto Alan Price era già uscito dal gruppo per dare vita al suo Alan Price Set. Eric ha valutato l’ipotesi di continuare da solista, ma alla fine ha messo su una nuova band che ha chiamato Eric Burdon and the Animals.
Insieme ai vecchi Animals se ne sono andate alle ortiche anche le sonorità rhythm’n’blues che avevano reso famoso Burdon. (Barry Jenkins, il nuovo batterista, aveva suonato con Carl Perkins, Bo Diddley e Jerry Lee Lewis, e per un po’ il risultato è stato un suono rock molto alla Chuck Berry.) Ma ad avere la meglio su tutte le contaminazioni esterne che s’era portato dietro il gruppo, più che i nuovi Animals è stato il nuovo Eric. La rinascita è stata una tragedia. L’Eric funky era praticamente morto. Il nuovo Eric aveva perso la testa per una ragazza che si chiamava Sandoz (il nome di una ditta che fabbrica LSD), San Francisco e il Monterey Pop Festival. E i tre singoli del 1967 parlano esattamente di quelle tre cose, e in quell’ordine. Per i vecchi fan di Eric, soprattutto quelli inglesi, è stata un po’ una delusione. Avevano nostalgia della baldoria. Il nuovo Eric era troppo gentile, tranquillo e sdolcinato per loro. Fortuna sua che alla fine si sia assestato su una via di mezzo tra i due estremi e nel dicembre del 1968 abbia prodotto Love Is, uno degli album più belli di quell’anno. Era il suo addio al rock, ha detto, annunciando che avrebbe lasciato la musica per darsi al cinema.
PAUL ANKA / Nel 1958, a quindici anni, Paul Anka aveva conquistato il primo posto in classifica con una canzone scritta da lui che si chiamava «Diana». Era l’epoca dello struggimento adolescenziale applicato alla musica pop americana – se avevi quindici anni e soffrivi per una donna più grande di tipo diciassette anni o giù di lì e riuscivi a scriverci sopra una canzone, era fatta. All’inizio del 1959 Anka, a sedici anni, aveva tre hit conclamate. A diciassette aveva venduto un milione di dischi. A diciotto aveva fatto il suo debutto nei nightclub. Prima dei ventun anni aveva scritto più di duecento canzoni e fatto i milioni, cosa non troppo sorprendente se consideriamo che aveva un enorme seguito in diverse parti del mondo e continua ad avercelo, soprattutto in Europa. Solo in Francia ci sono dodici cantanti che hanno registrato la versione francese di «Diana», anche se quella di Anka continua a vendere di più. Oggi sta facendo più soldi della maggior parte dei ragazzi con cui è cresciuto (Tommy Sands, Avalon, Fabian, ecc.).
ANTHONY AND THE IMPERIALS (già LITTLE ANTHONY AND THE IMPERIALS) / Anthony Gourdine (voce), Ernest Wright (voce), Clarence Collins (voce), Sam Strain (voce), Kenny Seymour (chitarra).
Quando sente dire che la head music è una novità Anthony si stupisce. «È dal 1958 che sconvolgiamo la gente con la nostra musica», dice. Anthony and the Imperials sono un gruppo rhythm’n’blues che Variety ha elogiato per essere «relativamente a modo» e per il loro uso di «nessuna tecnica stravagante» o «buffo travestimento». In compenso hanno cominciato a suonare in posti tipo il Flamboyan Hotel a Puerto Rico, con performance basate su vecchi successi tipo «Going Out of My Head», «Tears on My Pillow» e «Hurt So Bad». Sicuramente non è un brutto modo per sbarcare il lunario.
L’APOLLO è un teatro di Harlem a New York dove si esibiscono esclusivamente artisti neri – di solito a prezzi decisamente contenuti. Da tempo immemore ha visto artisti bianchi (Elvis Presley tra gli altri) intrufolarsi nel pubblico per imparare molto più di qualche utile dritta dai fratelli neri. La maggior parte delle stravaganti mosse di fianchi e gambe dei primi rocker bianchi sembrano essere state copiate, nel loro dimenarsi e spingere, dalle star dell’Apollo. La serata del mercoledì è speciale perché è la notte amatoriale, e di solito c’è più talento lì, serate no incluse, di quanto puoi sperare di vederne in una dozzina di locali tutt’insieme in qualunque parte del mondo. Liceali del South Carolina che cantano meglio delle Supremes, pur con qualche giustificabile insicurezza; magazzinieri del New Jersey in grado di mostrare a Sam and Dave una o due cosette; e per chi è incline al sadismo, falliti quanti ne bastano per dare a un pubblico esigente e sfrenato la possibilità di fischiare e sbeffeggiare tutto ciò che non è il meglio. Dicono che se riesci a sopravvivere al pubblico delle notti amatoriali all’Apollo, allora puoi sopravvivere a tutto. Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Leslie Uggams e Joe Tex hanno esordito lì.
ARS NOVA / Wyatt Day (chitarra ritmica), Jon Pierson (voce solista, trombone basso), Sam Brown (chitarra solista), Jimmy Owens (tromba, cornetta), Art Koenig (basso), Joe Hunt (batteria).
Membri precedenti: Maury Baker, Bill Folwell, Giovanni Papalia, Jonathan Raskin.
Se band di ragazzetti che a stento riescono a suonare uno strumento finiscono in classifica, che cosa può fare un gruppo di musicisti classici con anni di intensa preparazione musicale su ogni aspetto della composizione? Gli Ars Nova sono qui per mostrarcelo. Gente che li ha sentiti provare in un loft di New York nell’autunno del 1967 parla di storie di splendore barbarico ed eleganza medievale con l’aggiunta del ritmo rock. Il loro primo singolo si chiamava «Pavan for My Lady» ed era raffinatissimo. La gamma di strumenti copre un arco di tempo e spazio talmente vasto che potrebbe venire tranquillamente da un museo. E ciononostante non è andata come doveva. La rivista Life, che nel numero dedicato al rock (il 28 giugno 1968) aveva scritto dell’ascesa degli Ars Nova, ha finito per coprirne ascesa, caduta e rinascita in stile araba fenice. Nel luglio del 1968 si sono riformati con nuovi membri per ritornare con quello che potrebbe essere benissimo il primo autentico e notevole sound rock barocco nella storia della musica.
THE ASSOCIATION / Russ Giguere (voce, chitarra), Ted Bluechel Jr. (batteria), Brian Cole (voce basso, basso, clarinetto), Terry Kirkman (voce, 23 strumenti incluso tamburello, flauto dolce, batteria, flicorno), Larry Ramos (al posto di Gary Alexander) (chitarra solista, voce tenore, ukulele, banjo, grancassa, armonica), Jim Yester (chitarra ritmica, voce tenore, organo, piano, armonica).
Il loro primo successo è stato «Along Comes Mary» e, anche se era una bella canzone e meritava di vendere un milione di dischi (cosa che ha fatto), una delle ragioni per cui ha avuto successo è stata che è uscita nel bel mezzo del grosso e caotico dibattito del 1966 sui testi a doppio senso. Alcune delle canzoni che passavano alla radio, a quanto pare, se ne capivi qualcosa di slang di droghe, non erano innocue come si credeva. «Eight Miles High» dei Byrds è stata una delle canzoni immediatamente additate e in alcuni posti di fatto è stata anche bandita. Del titolo di «Rainy Day Women No. 12 & 35» di Dylan si è detto che era un modo alternativo per chiamare le sigarette di marijuana. Anche «Puff the Magic Dragon» è stata smontata frase per frase, con stupore di Peter, Paul and Mary, per rivelare al mondo le allusioni alle droghe. Nel frattempo è apparsa la Mary degli Association che curava traumi e psicodrammi. Ah-ha, ha detto chi se ne intendeva, l’unica Mary in grado di farlo è la Marijuana. E all’istante sono triplicate le vendite.
E anche se non potevano esserci doppi sensi nelle loro hit da milioni di dischi venduti, «Cherish», «Windy» e «Never My Love», il felice equivoco ha dato loro un fausto inizio. Ovviamente gli Association, anche se puliti, integerrimi e per niente ribelli, non erano fessi. Era uno di quei gruppi superprofessionali e ben collaudati, e in particolare nel Midwest la gente faceva chilometri per sballarsi al suono delle loro armonie vocali. Spesso davano l’impressione di essere un potente coro celestiale. Se avessero avuto un aspetto più strambo, probabilmente avrebbero fatto sballare di più il pubblico. Ma quello che hanno perso da una parte lo hanno guadagnato dall’altra, vendendo dischi tra la gente «normale» più della maggior parte dei gruppi della scena rock di oggi.
CHET ATKINS / La magia di un chitarrista rock di oggi arriva in parte dal blues, in parte, tramite Elvis, dal country and western. Chet Atkins, leggendario chitarrista country, star del Grand Ole Opry, personalità di Nashville e vicepresidente della RCA Victor, ha ispirato Elvis, Carl Perkins, Johnny Cash e tutti quei cantanti country diventati ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Indice
  3. Colophon
  4. Frontespizio
  5. Prefazione di Robert Milliken
  6. Rock Encyclopedia e altri scritti
  7. Ringraziamenti
  8. Introduzione all’edizione tascabile (1971)
  9. Nota dell’autrice (1969)
  10. Rock Encyclopedia
  11. APPENDICE
  12. Il successo rovinerà Lillian Roxon?
  13. C’è una tendenza nelle questioni che riguardano le donne
  14. L’altra Germaine Greer: una mano smaltata sulla cerniera
  15. Creedence Clearwater Revival: La band che porta affari