Il nostro desiderio è senza nome
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Scritti politici. k-punk/1

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Scritti politici. k-punk/1

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l nostro desiderio è senza nome è il primo dei volumi che minimum fax dedica agli scritti di Mark Fisher apparsi sul suo leggendario blog k-punk e su diversi giornali e riviste. In questo volume sono raccolti gli scritti politici, tra cui anche «Comunismo acido», la fulminante e incompiuta introduzione a quello che avrebbe dovuto essere il suo nuovo progetto. Senza lacrimosa nostalgia Fisher guarda agli anni Settanta del secolo scorso per parlare agli anni Dieci: il disappunto nei confronti della «nuova» sinistra che, sempre più impantanata nelle logiche neoliberiste, ha ormai tragicamente interiorizzato il principio tatcheriano per cui «non c'è alternativa» al capitalismo; il nuovo assetto del mondo del lavoro, sempre più atomizzato, pervasivo e precario, che ha privato i lavoratori del tempo e delle prospettive; la piaga dilagante della malattia mentale; il progressivo smantellamento del welfare; la Brexit; la minaccia del terrorismo. In un fosco panorama cybergotico e postapocalittico, Fisher non concede nulla alla rassegnazione, e anzi cerca instancabilmente una via d'uscita da quel «realismo capitalista» che rende impossibile anche solo sognare una condizione migliore: una rivolta contro la mancanza di alternative economiche, sociali ed esistenziali che sembra il segno più forte del nostro presente. Si tratta di rifiutare l'atteggiamento depressivo a cui le logiche di mercato ci hanno educati, e «valutare in modo responsabile e pragmatico le risorse a nostra disposizione qui e ora, e riflettere su come utilizzarle al meglio e incrementarle. Di muovere – magari lentamente, ma con assoluta determinazione – da dove ci troviamo oggi a un luogo molto diverso».

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833891514
Argomento
Letteratura

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COMUNISMO ACIDO
INTRODUZIONE INCOMPIUTA274

«Lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero»

Quanto più vicina è la possibilità reale di liberare l’individuo dalle costrizioni giustificate a suo tempo dalla penuria e dall’immaturità, tanto più grande diventa il bisogno di mantenere e di organizzare razionalmente queste condizioni per evitare che l’ordine del potere istituito si dissolva. La civiltà deve difendersi contro lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero.
In cambio delle merci che arricchiscono la loro vita, gli individui non vendono soltanto il loro lavoro ma anche le loro ore libere. [...] La gente alloggia in concentrazioni di appartamenti, e possiede automobili private con le quali non può più fuggire in un mondo diverso. Si possiedono enormi frigoriferi carichi di cibi congelati. Si comperano dozzine di giornali e di riviste che divulgano tutte gli stessi ideali. Tutti hanno innumerevoli scelte, innumerevoli marchi di fabbrica, che sono tutti della stessa qualità e li tengono occupati e fanno divergere la loro attenzione da quella che dovrebbe essere l’unica vera conclusione: rendersi conto che potrebbero lavorare meno e determinare i loro bisogni e le loro soddisfazioni da sé.
Herbert Marcuse, Eros e civiltà275
L’ipotesi di questo libro è che gli ultimi quarant’anni siano stati dedicati a esorcizzare «lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero». L’adozione del punto di vista di quel mondo ci consente di capovolgere la prospettiva di molte delle recenti battaglie della sinistra. Invece di cercare di sconfiggere il capitale, faremmo meglio a concentrare lo sguardo su ciò che il capitale tenta costantemente di ostacolare: la capacità di produrre, di prenderci cura di cose e persone e di godere collettivamente. Noi gente di sinistra non l’abbiamo capito per un po’: il problema non è che noi siamo anticapitalisti, ma che il capitalismo, con i suoi poliziotti in tenuta antisommossa, i suoi lacrimogeni e le sottigliezze teologiche delle sue teorie economiche, è concepito per impedire l’emergere dell’Abbondanza Rossa.276 La nostra vittoria in pratica dev’essere fondata sulla semplice consapevolezza che, piuttosto che «creare ricchezza», il capitale impedisce sempre e necessariamente la produzione di ricchezza comune.
Il principale agente, anche se non certo l’unico, impegnato a esorcizzare lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero è il progetto politico denominato neoliberismo. Il vero bersaglio del neoliberismo non erano però i suoi nemici dichiarati, ovvero il decadente monolite del blocco sovietico e i patti in disfacimento della socialdemocrazia e del New Deal, che all’epoca già stavano crollando sotto il peso delle loro contraddizioni. Il neoliberismo va considerato piuttosto come un progetto concepito per distruggere, fino a renderli inconcepibili, gli esperimenti di socialismo democratico e comunismo libertario che stavano sbocciando alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta.
La conseguenza estrema della cancellazione di tali possibilità è la condizione che ho definito «realismo capitalista», l’acquiescenza fatalistica all’idea che non esiste alternativa possibile al capitalismo. Se dovessimo individuare un evento fondante del realismo capitalista, potremmo indicare il violento rovesciamento del governo Allende nel Cile degli anni Settanta da parte del generale Pinochet, per mezzo di un golpe sostenuto dagli Stati Uniti. Allende stava allora sperimentando una forma di socialismo democratico che forniva un’alternativa reale sia al capitalismo che allo stalinismo. La distruzione militare del regime di Allende, e le conseguenti incarcerazioni e torture di massa, sono soltanto l’esempio più brutale e drammatico per illustrare fino a che punto ha dovuto spingersi il capitale per presentarsi come l’unica alternativa «realistica» di organizzazione della società. Il Cile di Pinochet non soltanto ha assistito alla violenta conclusione di una nuova forma di socialismo, ma si è al contempo trasformato in un laboratorio di sperimentazione delle misure che poi sarebbero state adottate da altri centri del neoliberismo (deregulation finanziaria, apertura dell’economia al capitale straniero, privatizzazioni). In paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna l’implementazione del realismo capitalista è avvenuta molto più gradualmente, alternando la repressione a lusinghe e seduzioni. L’effetto finale è stato però identico: il completo sradicamento dell’idea di socialismo democratico e di comunismo libertario.
L’esorcizzazione dello «spettro di un mondo che potrebbe essere libero» è stata una questione culturale, oltre che strettamente politica: poiché quello spettro, e la possibilità di un mondo che vada oltre la fatica del lavoro, è stato evocato nel modo più potente dalla cultura – persino, o forse soprattutto, dalla cultura che non concepiva se stessa come politicamente orientata.
Marcuse spiega come ciò si verifichi, e il declino dell’influenza della sua opera negli anni recenti la dice lunga. Se L’uomo a una dimensione, il libro che mette in evidenza il lato più cupo della sua produzione, è rimasto un punto di riferimento, Eros e civiltà è ormai fuori commercio da tempo, come numerose altre opere del pensatore tedesco. La critica di Marcuse al controllo completo della vita e della soggettività da parte del capitalismo continua a risuonare, mentre la sua affermazione che l’arte costituisca un «Grande Rifiuto, la protesta contro ciò che è»277 viene oggi vista come una forma di romanticismo antiquato, eccentrica e irrilevante nell’era del realismo capitalista. Eppure Marcuse aveva già anticipato quel genere di giudizi, e la critica espressa nell’Uomo a una dimensione ha presa proprio perché proviene da uno spazio secondo, da una «dimensione estetica» radicalmente incompatibile con la vita quotidiana sotto il capitalismo. Marcuse affermava che le «immagini tradizionali dell’alienazione artistica», associate al romanticismo, in realtà non appartengono al passato. Piuttosto, sosteneva, «ciò che esse richiamano e conservano nella memoria appartiene al futuro: sono immagini di una gratificazione capace di dissolvere la società che la sopprime».278
Il Grande Rifiuto respingeva non soltanto il realismo capitalista, ma anche il «realismo» puro e semplice. Esiste, scriveva Marcuse, un «conflitto inerente tra arte e realismo politico».279 L’arte è un’alienazione positiva, una «negazione razionale» dello stato di cose esistente. Il predecessore di Marcuse nella Scuola di Francoforte, Theodor Adorno, aveva assegnato un valore simile all’alterità intrinseca dell’arte sperimentale. L’opera di Adorno, tuttavia, ci invita di continuo a esaminare le ferite di un’esistenza sotto il giogo del capitale: l’idea di un mondo oltre il capitale viene rinviata a un aldilà utopico. L’arte si limita a marcare la nostra distanza da tale utopia. Marcuse, al contrario, evoca in maniera vivida la prospettiva imminente di un mondo completamente trasformato. È stato senza dubbio quest’aspetto della sua opera a permettere che Marcuse venisse ripreso con tanto entusiasmo da alcuni elementi della controcultura degli anni Sessanta. Il pensatore tedesco in realtà aveva anticipato la sfida lanciata dalla controcultura a un mondo dominato dall’insensatezza del lavoro. Le figure politicamente più significative della letteratura, sostiene Marcuse nell’Uomo a una dimensione, erano «coloro che non lavorano per vivere, almeno non in un modo ordinato e normale».280 Simili personaggi, e le forme di vita loro associate, sarebbero balzati alla ribalta nella controcultura.
Per quanto la sua opera presentasse numerose affinità con la controcultura, a dire il vero, l’analisi dello studioso tedesco ne pronosticava anche il fallimento e l’istituzionalizzazione finale. Uno dei temi principali dell’Uomo a una dimensione riguardava la neutralizzazione della sfida estetica. Marcuse era preoccupato dalla volgarizzazione dell’avanguardia, non per il timore elitario che la democratizzazione della cultura avrebbe corrotto la purezza dell’arte, ma perché l’assorbimento dell’arte all’interno degli spazi amministrati del commercio capitalista avrebbe dissimulato l’incompatibilità dell’arte con la cultura capitalistica. Lo studioso tedesco aveva già visto questa cultura convertire le figure del gangster, del beatnik e della vamp da «immagini di un altro modello di vita» a freak, «o tipi usciti dalla solita vita».281 Lo stesso sarebbe accaduto con la controcultura, molti dei cui esponenti preferivano per l’appunto farsi chiamare «freak».
In ogni caso, Marcuse ci consente di capire perché gli Anni Sessanta continuano a ossessionare il presente. Nei tempi recenti la nostra percezione degli anni Sessanta è diventata quella di un passato talmente esotico e remoto da sembrare difficile anche solo immaginare di viverci, e al tempo stesso molto più vivido dell’attuale presente: un’epoca in cui la gente viveva davvero, in cui le cose succedevano davvero. Eppure quel decennio continua a perseguitarci non per una confluenza irrecuperabile e irripetibile di particolari fattori, ma perché tutte le possibilità che aveva concretizzato e iniziato a democratizzare – la prospettiva di una vita liberata dalla fatica del lavoro – devono venire soppresse di continuo. Per capire come mai un mondo al di là del lavoro non si sia mai materializzato dobbiamo dirigere lo sguardo su un ampio progetto sociale, politico e culturale che aveva come obiettivo la creazione della penuria. Capitalismo: un sistema che genera penuria artificiale per produrre penuria reale; un sistema che produce penuria reale per poter generare penuria artificiale. La penuria effettiva (penuria di risorse naturali) oggi perseguita il capitale, in quanto Reale che la sua fantasia di espansione infinita deve sforzarsi di reprimere di continuo. La penuria artificiale, che è essenzialmente una penuria di tempo, è necessaria, sostiene Marcuse, per distrarci dalla possibilità immanente di libertà. (La vittoria del neoliberismo, naturalmente, si fonda sulla cooptazione del concetto di libertà; una libertà neoliberista che senza dubbio non è libertà dal lavoro, ma libertà attraverso il lavoro.)
Proprio come previsto da Marcuse, la maggiore disponibilità di beni di consumo e apparecchiature nel Nord globale ha oscurato il processo tramite il quale questi stessi beni hanno progressivamente generato penuria di tempo. Ma forse neppure Marcuse avrebbe potuto prevedere la capacità del capitale del ventunesimo secolo di generare superlavoro e amministrare il tempo al di fuori del lavoro salariato. Forse soltanto un futurologo corrosivo come Philip K. Dick sarebbe riuscito a prevedere la banale ubiquità del linguaggio imprenditoriale di oggi, la sua quasi totale penetrazione in ogni area della coscienza e della vita quotidiana.
«Il passato dà sicurezza», osserva uno dei protagonisti della satira distopica di Margaret Atwood Per ultimo il cuore, «perché tutto quello che contiene è già successo. Non si può cambiarlo; quindi, in un certo senso, non c’è nulla da temere».282 Ma, nonostante l’opinione del personaggio della Atwood, il passato non è «già successo». Il passato dev’essere continuamente ri-raccontato, e l’obiettivo politico delle narrazioni reazionarie è sopprimere le possibilità che ancora attendono di realizzarsi, pronte per essere risvegliate, racchiuse nel passato. La controcultura degli anni Sessanta è oggi inseparabile dalla sua simulazione, e la riduzione di quel decennio a immagini «iconiche», a brani «classici» e reminiscenze nostalgiche ha neutralizzato le promesse reali esplose allora. Ogni aspetto della controcultura che poteva essere assimilato è stato riconvertito in precursore del «nuovo spirito del capitalismo», mentre tutti gli aspetti incompatibili con un mondo di superlavoro sono stati bollati come massa di inutili fantasticherie, che la logica contraddittoria della reazione considera al tempo stesso pericolose e inefficaci.
L’asservimento della controcultura ha in apparenza confermato la validità dello scetticismo e dell’ostilità al genere di posizioni sostenute da Marcuse. Se fosse vero che «la controcultura ha aperto la strada al neoliberismo», allora sarebbe stato meglio che non fosse mai esistita. In realtà sembra più convincente l’argomentazione opposta: cioè che il fallimento della sinistra dopo gli anni Sessanta è dipeso in buona parte dal suo ripudio delle fantasie generate dalla controcultura, o dal suo rifiuto di affrontarle. L’appropriazione di tali correnti innovative da parte della nuova destra e la loro messa al servizio del proprio progetto di individualizzazione e superlavoro obbligatori non erano affatto inevitabili.
E se la controcultura avesse rappresentato soltanto un inizio confuso, anziché il massimo cui era possibile aspirare? Se il successo del neoliberismo non fosse stato una prova dell’inevitabilità del capitalismo, ma un testamento alle dimensioni della minaccia costituita da una società che potrebbe essere libera?
È nello spirito di tali quesiti che questo libro riprenderà in esame gli anni Sessanta e Settanta. L’ascesa del realismo capitalista non avrebbe potuto verificarsi senza le narrazioni costruite su quei due decenni dalle forze reazionarie. Tornare a quel periodo ci permetterà di procedere nella decostruzione delle narrazioni che il neoliberismo ha lentamente edificato intorno a esso. E, fatto più rilevante, ci consentirà di edificarne di nuove.
Da molti punti di vista, ripensare gli anni Settanta è più importante che rivisitare il decennio precedente. Negli anni Settan...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Nota all’edizione italiana
  4. Prefazione di Simon Reynolds
  5. / Perché K?
  6. / Non votate, non incoraggiateli
  7. / 6 ottobre 1979. Capitalismo e disturbo bipolare
  8. / E se organizzassero una protesta e ci andassimo tutti?
  9. / Sconfiggere l’idra
  10. / Il volto del terrorismo senza volto
  11. / Esibizione di forza e deumanizzazione
  12. / La mia carta, la mia vita. Commenti alla campagna pubblicitaria Red Card/American Express
  13. / La grande truffa del Bullingdon Club
  14. / La privatizzazione dello stress
  15. / Strategia di contenimento
  16. / Inverno del malcontento 2.0. Note su un mese di militanza
  17. / Calcio / realismo capitalista / utopia
  18. / Il gioco è cambiato
  19. / Capitalismo creativo
  20. / Gestione della realtà
  21. / Tabloid britannici
  22. / Il futuro ci appartiene ancora. Autonomia e post-capitalismo
  23. / Povertà estetica
  24. / La morte e il capitale sono l’unica cosa certa
  25. / Perché la salute mentale è un problema politico
  26. / Gli Hunger Games londinesi
  27. / Guerre del tempo. Verso un’alternativa all’era neocapitalista
  28. / Lottare per la vittoria, non crogiolarsi nel fallimento
  29. / La felicità di Margaret Thatcher
  30. / Soffrire con il sorriso sulle labbra
  31. / Come uccidere uno zombie. Strategie per la fine del neoliberismo
  32. / Uccidere e farla franca
  33. / Nessuno è annoiato, tutto è noioso
  34. / Un tempo per le ombre
  35. / Fine del limbo
  36. / Realismo comunista
  37. / Sofferenza subito
  38. / Abbandonate le speranze (Summer is coming)
  39. / In questo momento il nostro desiderio è senza nome
  40. / Anti-terapia
  41. / La democrazia è gioia
  42. / Cybergotico vs steampunk
  43. / Mannequin challenge
  44. / Comunismo acido. Introduzione incompiuta