Satchmo. La mia vita a New Orleans
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Satchmo. La mia vita a New Orleans

  1. 183 pagine
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Satchmo. La mia vita a New Orleans

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Louis Armstrong è il jazz, così esordisce Enrico Rava nella prefazione a questa autobiografia del grande musicista americano. E insieme al jazz Armstrong è cresciuto nei bassifondi di quella città leggendaria che era la New Orleans d'inizio Novecento, quando le brass band si sfidavano a duelli musicali per le strade, e durante i funerali si potevano ascoltare le marce e i primi ragtime suonati da Kid Ory e King Oliver. La prima volta che Satchmo suona la tromba è in riformatorio, quando è ancora un bambino, e da allora lo strumento non lo abbandona più: anche quando di giorno Louis vende carbone e scarica caschi di banane, la tromba sarà lì ad attendere di essere suonata, la sera, per un pubblico di prostitute, magnaccia e giocatori d'azzardo.

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Informazioni

Anno
2010
ISBN
9788875213114

CAPITOLO 1

Nel 1900, quando nacqui io, mio padre Willie Armstrong e mia madre May Ann – o Mayann, come veniva più comunemente chiamata – abitavano in un vicoletto che si chiamava James Alley. Lunga appena un isolato, la strada si trovava in quel popoloso quartiere di New Orleans noto come Back o’Town, che costituisce uno dei quattro grandi settori in cui è divisa la città. Gli altri tre sono Uptown, Downtown, e Front o’Town; ognuno di questi quartieri ha una personalità tutta sua.
James Alley – e non Jane Alley come lo chiamano alcuni – si trova nel cuore della zona soprannominata il “Campo di Battaglia” per via dei suoi rissosissimi abitanti che si azzuffavano e sparavano in continuazione. In quell’unico isolato stretto fra Gravier e Perdido Street viveva stipata più gente di quanta ne possiate vedere mai in vita vostra. C’erano uomini di chiesa, biscazzieri, imbroglioni, ladruncoli, papponi, prostitute e sciami di bambini. C’erano bar, honky tonk e saloon e un sacco di donne che battevano il marciapiede a caccia di clienti da portarsi nella “tana”, come chiamavano la loro stanza.
Mayann mi raccontò che la notte in cui nacqui io ci fu una sparatoria furibonda nel vicolo e i due si ammazzarono a vicenda. Era il quattro di luglio, festa grossa per New Orleans, un giorno in cui può succedere di tutto. Quasi tutti festeggiano la ricorrenza con pistole, fucili o qualunque arma ci fosse a portata di mano.
Quando venni al mondo i miei genitori vivevano con la nonna, Josephine Armstrong – che Dio l’abbia in gloria! – ma non rimasero a lungo in quella casa. Litigavano in modo orribile e alla fine scoppiarono: mia madre un bel giorno se ne andò, lasciandomi con la nonna, e mio padre a sua volta tagliò la corda per andare a vivere con un’altra donna. Mia madre si trasferì in una casa fra Liberty e Perdido Street, in un quartiere pieno di prostitute da due soldi, che guadagnavano molto meno delle puttane di Storyville, il famoso quartiere a luci rosse.
Non so se mia madre battesse. Ma se batteva di sicuro non l’ha mai fatto sotto i miei occhi. Una cosa è certa: tutti nel quartiere, dai timorati di Dio ai delinquenti, la trattavano con il massimo rispetto, e lei salutava tutti volentieri e girava sempre a testa alta. Non provò mai invidia per nessuno e io credo di aver ereditato da lei questo dono.
Quando avevo un anno mio padre andò a lavorare in uno stabilimento dove si produceva trementina non lontano da James Alley, dove rimase fino alla sua morte, nel 1933. Ci restò tanto da diventare una sorta di istituzione, in fabbrica, e la sua posizione gli consentiva di assumere e licenziare a suo piacimento gli operai di colore che erano sotto la sua supervisione. Dopo che si separò da mia madre non lo vidi fino a quando non fui grandicello, né rividi Mayann per molto tempo.
La nonna mi fece frequentare la scuola. Era lavandaia e stiratrice, e quando l’aiutavo a consegnare i vestiti ai signori bianchi mi dava un nichelino. Mamma mia! Mi sentivo ricchissimo! I giorni che non dovevo andare a scuola mi portava con sé nelle case dei clienti bianchi dove faceva il bucato e altre faccende domestiche. Mentre lei lavorava io stavo in giardino a giocare con i bambini bianchi. Giocavamo per lo più a nascondino, e quasi sempre ero io che stavo sotto. E tutte le volte che mi nascondevo quei ragazzini bianchi erano così in gamba che mi scovavano subito. Questa cosa mi faceva imbestialire. Sia a casa che alla scuola materna, non aspettavo altro che la nonna andasse in casa di qualche cliente e mi portasse con sé: così sarei finalmente riuscito a trovare un nascondiglio dove non mi avrebbero mai trovato.
Un caldissimo giorno d’estate stavo giocando a nascondino con dei bambini bianchi e naturalmente toccava a me nascondermi. Mi stavo spremendo il cervello per trovare un nascondiglio sicuro, quando l’occhio mi cadde sulla nonna, che stava china su una tinozza a sgobbare come un mulo. Il lembo posteriore del suo scamiciato era aperto e sventolava. Fu così che mi venne l’idea. Prima che gli altri potessero vedermi, feci una bella corsa e andai a infilarmi sotto il vestito della nonna. Per un bel po’ rimasi ad ascoltare quei ragazzini che correvano in giro dicendo: “Ma che fine ha fatto?” Poi, quando stavano per abbandonare le ricerche, feci capolino da sotto la gonna e fischiai.
“Ah, eccoti!”, urlarono. “Ti abbiamo trovato!”
“No no”, dissi io. “Non mi trovavate mica se non tiravo fuori la testa”.
Sempre, fin da piccolissimo, sono stato molto affezionato a mia nonna. Passò giorni e giorni a occuparsi di me e a insegnarmi a distinguere fra il bene e il male. Quando pensava che meritassi una punizione per qualcosa che avevo fatto, mi mandava in giardino a staccare un ramoscello dal grande albero del sapone.
“Hai fatto il cattivo”, diceva, “e ora te le do”.
Io andavo in cortile piangendo calde lacrime e tornavo con il ramoscello più piccolo e sottile che riuscivo a trovare. Di solito la nonna si metteva a ridere e mi lasciava andare, ma quando era arrabbiata sul serio me le dava di santa ragione anche per tutte le altre volte che mi aveva risparmiato. Mayann doveva aver imparato da lei questo sistema, dato che più tardi, quando andai ad abitare con lei, me le dava nello stesso identico modo in cui me le dava la nonna.
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Ricordo bene anche la mia bisnonna, che visse oltre novant’anni. Probabilmente è da lei che ho ereditato la mia energia: oggi, a cinquantaquattro anni, mi sento ancora come un ragazzino che ha appena finito la scuola e non vede l’ora di fare la vita che sogna, suonando la tromba.
All’epoca, s’intende, non distinguevo una tromba da un pettine. Andavo regolarmente in chiesa perché la nonna e la bisnonna erano credenti e mi facevano andare a scuola, in chiesa e al catechismo. Fu lì, penso, che facendo parte del coro acquisii la mia tecnica vocale.
A scuola prendevo parte a tutte le attività. Ero simpatico sia ai compagni che agli insegnanti, ma non feci mai nulla per arruffianarmi gli insegnanti. Comunque, fin da piccolissimo, sono sempre stato coscienzioso in tutto quello che ho fatto. In chiesa ci mettevo veramente il cuore quando cantavo gli inni e sono ancora molto credente, e ancora oggi vado in chiesa tutte le volte che mi è possibile.
Dopo due anni di convivenza, mio padre lasciò la donna con cui stava e tornò con Mayann. Il risultato fu mia sorella Beatrice, in seguito soprannominata “Mama Lucy”. Quando nacque, io abitavo ancora con mia nonna e la vidi per la prima volta quando avevo cinque anni.
Un’estate ci fu una terribile siccità: erano mesi e mesi che non pioveva e in giro non c’era neanche una goccia d’acqua. All’epoca la gente aveva in giardino delle grandi cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Quando le cisterne si riempivano era facile prendere tutta l’acqua che si voleva. Ma questa volta le cisterne erano vuote e gli abitanti di James Alley erano fuori di sé. Le scuderie del penitenziario, all’angolo tra James Street e Gravier Street, salvarono la situazione. Lì acqua ce n’era e i cocchieri ci permettevano di andare lì con i nostri barili da birra vuoti per riempirli d’acqua.
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Di fronte alle scuderie c’era il penitenziario vero e proprio che occupava un intero isolato e ospitava detenuti condannati a scontare “da trenta giorni a sei mesi”. I carcerati venivano impiegati per pulire i vari mercati della città e venivano portati avanti e indietro dai posti di lavoro su grossi carri. Quelli che accettavano di lavorare nei mercati avevano la pena ridotta da trenta a diciannove giorni. Aquei tempi, a New Orleans, i carri e i cellulari della polizia venivano trainati da bei cavalli robusti. Io guardavo quei grossi animali e desideravo tanto cavalcarne uno. E poi finalmente lo feci. Mamma che emozione!
Un giorno, a James Alley, mentre facevo rifornimento di acqua insieme ai vicini, una signora anziana, amica di Mayann, andò dalla nonna per dirle che Mayann stava malissimo e che lei e mio padre si erano lasciati un’altra volta. Mia madre non sapeva dove fosse papà e tanto meno se sarebbe tornato. Era rimasta sola con la bimba piccola – mia sorella Beatrice (o Mama Lucy) – e senza nessuno che le desse una mano. La signora chiese alla nonna di lasciarmi andare da Mayann per aiutarla un po’. Lei, essendo una donna eccezionale, acconsentì immediatamente e, con le lacrime agli occhi, cominciò a vestirmi.
“Mi dispiace tanto lasciarti andare via”, disse. “Ormai mi ero così abituata ad averti con me”.
“Anche a me dispiace molto lasciarti, nonna”, risposi con un nodo in gola, “ma spero di tornare presto. Ti voglio troppo bene. Sei stata sempre così buona e gentile con me e mi hai insegnato tutto quello che so: ad aver cura di me stesso, a lavarmi e a pulirmi i denti, a mettere a posto i vestiti e a rispettare le persone più grandi”.
Mi diede una pacca sulla schiena, si asciugò gli occhi e asciugò anche i miei, poi mi spinse gentilmente verso la porta per salutarmi. Non sapeva quando sarei tornato. Neppure io lo sapevo, ma siccome mia madre era malata, le sembrava giusto che io andassi ad assisterla.
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La signora mi prese per mano e lentamente ci allontanammo. Per strada scoppiai in lacrime. Mentre percorrevamo James Alley potevo vedere nonna Josephine che mi salutava con la mano; poi voltammo l’angolo per prendere il tram su Tulane Avenue, proprio davanti al penitenziario. Continuavo a singhiozzare, e allora la signora mi prese e mi girò per farmi vedere l’enorme costruzione.
“Ascolta bene, Louis, se non la smetti subito di piangere ti faccio rinchiudere in quella prigione dove c’è la gente cattiva. Ma tu non ci vuoi andare, vero?”
“Oh, no, signora!”
Vedendo quanto era grande quell’edificio, mi dissi: “Forse è meglio smettere di piangere. In fondo io non conosco questa signora e magari è capace di fare sul serio quello che dice. Non si sa mai”.
Smisi di piangere immediatamente. Il tram arrivò e noi salimmo.
Qui ebbi la mia prima esperienza di discriminazione razziale. Avevo appena cinque anni e non ero mai salito su un tram. Salii per primo e mi precipitai a occupare i posti in testa alla carrozza senza notare la scritta “RISERVATO AI PASSEGGERI DI COLORE” sullo schienale dei sedili ai due lati. Sicuro che la signora mi venisse dietro, occupai uno dei posti davanti, ma quando mi voltai non la vidi vicino a me. La scorsi invece sul fondo che agitava freneticamente le braccia.
“Ragazzino, vieni qua”, gridava, “vieni a sederti al posto tuo”.
Pensavo che mi stesse prendendo in giro e credendo di fare il furbo rimasi imperterrito al mio posto. Che m’importava di dove si sedeva lei? Non l’avessi mai fatto! Si precipitò su di me e, dopo avermi strappato dal sedile, con la velocità del lampo mi trascinò in fondo alla carrozza spingendomi a sedere su uno dei posti più indietro. Soltanto allora mi accorsi che sullo schienale dei sedili posteriori c’era scritto: “RISERVATO AI PASSEGGERI DI COLORE”.
“Cosa c’è scritto?”, chiesi.
“Smettila di fare tutte queste domande. Sta’ zitto, stupidello!”
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Quelle scritte sui tram di New Orleans avevano un che di ridicolo, in realtà. Noi neri ci divertivamo da matti, specialmente quando prendevamo il tram per fare delle scampagnate oppure la domenica sera a Canal Street e succedeva che eravamo più numerosi dei bianchi. Automaticamente occupavamo l’intera carrozza spingendoci il più avanti possibile. Era bello sedersi là davanti, una volta tanto. Ci sentivamo un po’ più importanti del solito. Non saprei spiegare con esattezza il perché, ma forse derivava dal fatto che era una cosa proibita.
Quando il tram si fermò all’angolo fra Tulane e Liberty Street, la signora disse: “Bene, Louis, è qui che dobbiamo scendere”.
Mentre scendevamo guardai verso Liberty Street. Fin dove arrivava il mio sguardo c’era una gran quantità di gente che andava su e giù. Mi ricordava un po’James Alley, pensavo, e se non fosse stato per la nonna non avrei sentito una gran nostalgia di quella strada. Ad ogni modo tenni per me questi pensieri mentre percorrevamo i due isolati che ci separavano dalla casa di Mayann: un’unica stanza, in fondo a un cortiletto, dove lei doveva cucinare, lavare, stirare e occuparsi della mia sorellina. La prima impressione fu così forte che la ricordo come fosse ieri. Non sapevo cosa pensare. Sapevo solo che mi trovavo con la mamma e che le volevo tanto bene, tanto quanto ne volevo alla nonna. La mia povera mamma era distesa lì davanti a me, molto molto malata... Oh Dio, incominciai a provare una strana sensazione e mi venne un’altra volta da piangere.
“Allora ci sei venuto a trovare tua madre!”, disse.
“Sì, mamma”.
“Avevo paura che la nonna non ti lasciasse venire. Dopotutto mi rendo conto che non ho fatto per te quanto avrei dovuto. Ma, figlio mio, la mamma rimedierà. Se non fosse stato per quel buono a nulla di tuo padre, le cose sarebbero andate meglio. Io faccio tutto quello che posso, ma sono sola con la piccolina. Sei ancora un bimbo, figliolo, e hai davanti a te ancora molta strada. Non dimenticare mai che quando si è malati nessuno ti dà nulla, quindi cerca di stare in buona salute. Vale più la salute del denaro. Mi devi promettere di prendere una purga almeno una volta alla settimana finché campi. Me lo prometti?”
“Sì, mamma”, risposi.
“Bene! Allora dammi quelle pillole che sono nel primo cassetto del comò, nella scatola con su scritto Coal Roller Pills. Sono pilloline nere”.
Le pillole assomigliavano alle pillole per il fegato, soltanto erano molto molto più nere. Quando ebbi mandato giù le tre che mi aveva dato mia madre, la signora che mi aveva accompagnato disse che doveva andar via. “Ora che ti ho portato tuo figlio devo andare a casa a preparare la cena a mio marito”.
Dopo che se ne fu andata, domandai alla mamma se potevo fare qualcosa per lei.
“Sì”, disse. “Guarda sotto il tappeto e prendi quei cinquanta cents. Va’ da Zattermann a Rampart Street e fatti dare una fetta di carne, mezzo chilo di fagioli rossi e mezzo chilo di riso. Passa poi dal fornaio Stahle e compra due pagnotte da un nichelino. Torna presto, figliolo”.
Era la prima volta che uscivo senza essere accompagnato da mia nonna ed ero molto fiero del fatto che mia madre si fidasse di me tanto da mandarmi da solo fino a Rampart Street. Ero deciso a fare esattamente quello che mi aveva detto.
Uscito dal cortiletto, vidi sul marciapiede davanti alla casa cinque o sei mocciosi vestiti di stracci, e li salutai amichevolmente.
Dopotutto venivo da James Alley, quartiere assai turbolento, dove avevo conosciuto tipi piuttosto violenti, ma per lo meno i ragazzini della mia zona erano stati educati a comportarsi come si deve e a rispettare gli altri. Tutti salutavano sempre, recitavano le preghiere prima dei pasti e prima di andare a dormire. Naturalmente io credevo che ovunque i bambini ricevessero la stessa educazione.
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Quando mi videro così pulito e ben vestito si affollarono intorno a me.
“Ehi, tu. Ma che sei un cocco di mamma?”, fece uno di loro.
“Un cocco di mamma? Che cosa vuol dire?”, domandai.
“Ecco, appunto, sei proprio un cocco di mamma!”
“Non capisco. Che cosa vuol dire?”
Uno di quei bulletti, soprannominato One Eye Bud, si era avvicinato per esaminare il mio completino alla piccolo lord, con il collettone bianco.
“Ah non capisci, eh? Male, molto male”.
Dopodiché raccolse una manciata di fango e me la scagliò su quell’abito che mi piaceva così tanto. Ne avevo soltanto due. Gli altri ragazzini, tutti sporchi in faccia e con le gambe piene di croste, scoppiarono a ridere, e io rimasi lì tutto inzaccherato senza sapere come comportarmi. Ero piccolo, sì, ma ero in grado di capire che si stava mettendo male e che se mi fossi messo a litigare le avrei prese di santa ragione.
“Che c’è, cocco di mamma, non ti sta bene?”, chiese One Eye Bud.
“No, non mi sta bene”.
Poi, prima di rendermi conto di quello che facevo e prima che gli altri potessero disporsi all’attacco, balzai contro il mocciosetto e gli sferrai un pugno sul muso. Ero spaventato e lo colpii con tutte le mie forze. Gli feci uscire tantissimo sangue dalla bocca e dal naso. Quei ragazzini rimasero così spiazzati che se la diedero a gambe con One Eye Bud in testa. Ero troppo confuso per rincorrerli, e poi, in realtà, non mi andava neanche.
Avevo paura che Mayann, sentendo tutto quel trambusto, si facesse male nello sforzo di alzarsi dal letto. Per fortuna non lo fece e io andai a sbrigare le mie commissioni.
Al mio ritorno trovai la stanza di mia madre piena di visitatori: un sacco di cugini che non avevo mai visto. Isaac Miles, Aaron Miles, Jerry Miles, Willie Miles, Louisa Miles, Sarah Ann Miles, Flora Miles (che era una neonata) e lo zio Ike Miles erano tutti in attesa di poter conoscere il nuovo cuginetto, come dicevano loro.
“Louis”, disse mia madre, “ti presento dei nuovi parenti”. Caspita, pensai, tutti questi sono proprio miei cugini?
Lo zio Ike Miles era il padre di tutti quei ragazzini. Sua moglie, morendo, glieli aveva affidati e lui se la stava cavando bene. Per sostentarli, lavorava sul molo allo scarico dei battelli. Guadagnava poco e in modo discontinuo, ma comunque riusciva quasi sempre a sfamarli e a vestirli in modo decente. Abitava in una sola stanza con tutti quei figli, ma in un modo o nell’altro riusciva a farceli entrare. Ne metteva a letto più che poteva e gli altri dormivano sul pavimento. Dio benedica lo zio Ike! Se non fosse stato per lui non so che fine avremmo fatto io e Mama Lucy, perché ogni volta che a Mayann veniva l’impulso di andarsene a fare baldoria stavamo anche giorni e giorni senza vederla. Quando questo accadeva, ci scaricava regolarmente in braccio allo zio Ike.
In quell’unica stanza io dormivo tra Aaron e Isaac e Mama Lucy dormiva tra Flora e Louisa. Mangiavamo in scodelline di latta che lo zio Ike aveva comprato per sostituire i piatti di porcellana, perché i bambini erano così pigri che li rompevano pur di non doverli lavare.
Certo lo zio Ike aveva un bel da fare con tutti quei ragazzini, buoni a nulla come mai ne avevo visti, ma nonostante tutto crescemmo insieme.
Come ho già detto, mia madre somministrava regolarmente una purga a me e a Mama Lucy.
“Una purghetta o due la settimana”, diceva, “serve a cacciare via molti di quei mali o germi che non si riesce a capire perché vadano a cacciarsi nello stomaco. Non possiamo spendere cinquanta cents o un dollaro per pagare un dottore”.
Con quel denaro invece poteva cucinare pentole e pentole di riso e fagioli rossi, e con quel regime non stavamo mai male. D’altra parte, poiché tutti i bambini che abitavano in quel quartiere di New Orleans andavano in giro quasi sempre scalzi, succedeva che ci facevamo male con chiodi, schegge e pezzi di vetro. Ma eravamo giovani, sani e robusti come torelli e non ci spaventavamo di certo per una robetta come il tetano.
Mia madre andava con alcune sue vicine lungo gli argini della ferrovia a raccogliere intere ceste di crescioni. Li faceva bollire fino a ridurli in una poltiglia da applicare sulle ferite. Con questo rimedio, noi bambini, dopo due o tre ore, saltavamo fuori dal letto per andare a giocare in strada come se niente fosse.
Quello che dice il proverbio: “Il Signore protegge i pazzi” è proprio vero se si pensa a tutti i pericoli che incombevano su noi bambini. Nella nostra zona c’erano sempre case in demolizione o in costruzione, e nei pressi trovavamo ogni sorta di rifiuti, come vecchie scatole di latta, chiodi, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prefazione
  3. Nota al testo
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14