Come sono diventata scrittrice
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Come sono diventata scrittrice

  1. 167 pagine
  2. Italian
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Come sono diventata scrittrice

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Quali sono i dettagli nella vita di uno scrittore che formano la materia prima delle sue narrazioni? Quali suoni, colori, volti sono destinati a fissarsi sulla pagina scritta per trovare lì il loro significato più vero? Qual è, in altre parole, il rapporto che lega il vissuto, l'esperienza, la memoria con l'arte del raccontare? Eudora Welty fatto amare i suoi romanzi, prova a rispondere a questi interrogativi in un libro a metà strada fra l'autobiografia letteraria e il manuale di scrittura creativa. Ripercorrendo le tappe più luminose dell'infanzia e della giovinezza - la vita familiare e la scuola, i libri e la scoperta del mondo, fino ai primi tentativi di scrivere racconti - la Welty ricostruisce la propria formazione intellettuale e ci offre una riflessione inedita su come anche eventi apparentemente marginali possano imprimersi nella coscienza di uno scrittore, contribuendo a plasmare il suo stile e il suo immaginario; perché, come scrive l'autrice, "il nostro tempo soggettivo è spesso la cronologia propria dei racconti e dei romanzi: è il filo continuo della rivelazione".

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214210
PRIMA PARTE
ASCOLTARE
Nella casa di North Congress Street a Jackson, nel Mississippi, dove sono nata nel 1909, io e i miei due fratelli minori siamo cresciuti al batti e ribatti degli orologi. Nell’ingresso c’era una pendola di quercia, in stile arte povera californiana, che mandava rintocchi come di gong per il soggiorno, la sala da pranzo, la cucina, la dispensa e su per la cassa armonica delle scale. Per tutta la notte riusciva a insinuarcisi nelle orecchie; talvolta, persino quando dormivamo nella veranda da letto, la mezzanotte ci svegliava. In camera dei miei genitori ce n’era una più piccola che le faceva da controcanto; e mentre l’orologio di cucina non faceva nulla a parte mostrare l’ora, quello della sala da pranzo era un cucù dotato di contrappesi attaccati a lunghe catene, a una delle quali il mio fratellino – dopo essersi arrampicato con l’aiuto di una sedia fino in cima al mobiletto delle porcellane – riuscì una volta, per un istante, ad appendere il gatto. Non so se c’entrasse in qualche modo la famiglia di mio padre, che veniva dall’Ohio ma nel Settecento, anteriormente all’arrivo dei primi tre fratelli Welty in America, era ancora svizzera; però noialtri abbiamo sempre avuto la fissa dell’ora, per tutta la vita. Fu un bene, almeno per una futura autrice di narrativa, il poter apprendere in modo così penetrante, e quasi come primissima cosa, tutto sulla cronologia; fu anzi una fra le tante, ottime cose che imparai senza quasi rendermene conto, e che all’occorrenza avrei ritrovato.
Mio padre adorava ogni strumento che fosse istruttivo e affascinante. Il posto in cui teneva queste cose era il cassetto del «tavolo della biblioteca» dove, poggiato in cima alle cartine ripiegate, c’era un telescopio con prolunghe in ottone, per cercare dopo cena la luna e il Grande Carro nel giardino di casa e non mancare agli appuntamenti con le eclissi. C’era una Kodak a soffietto che si tirava fuori a Natale, per i compleanni e i viaggi. In fondo al cassetto si potevano trovare una lente d’ingrandimento, un caleidoscopio e un giroscopio conservato in una scatola di rigida tela nera, che papà faceva danzare per noi su uno spago ben teso. Si era anche rifornito di un assortimento di rompicapo fatti con anelli metallici, maglie incrociate e chiavette incatenate fra loro che nessun altro di noi, per quanto pazientemente lui ce lo spiegasse, era capace di sciogliere; papà nutriva un affetto quasi puerile per l’ingegnosità.
A un certo punto sul muro della nostra sala da pranzo comparve anche un barometro, che però non ci serviva davvero; mio padre conosceva benissimo il tempo atmosferico e i suoi cieli, da vero ragazzo di campagna. Ogni mattina per prima cosa usciva, si fermava sui gradini dell’ingresso e dava un’occhiata e un’annusata in giro; era piuttosto bravo a fare profezie meteorologiche.
«Io invece no», commentava mia madre con enorme compiacimento.
Papà spiegava a noi bambini cosa fare se ci fossimo persi in un luogo sconosciuto. «Individuate il punto dell’orizzonte dove il cielo è più luminoso», diceva. «Là si riflette il fiume più vicino. Quindi mettetevi in cerca del fiume, e troverete un luogo abitato». Si preoccupava molto dei casi fortuiti: tra le sue cure paterne raccomandava a noi figli di adottare contromisure a fronte di eventualità tipo il venir colpiti dalla folgore. Durante i temporali elettrici, molto frequenti dalle nostre parti, ci faceva allontanare tutti dalle finestre. Mia madre si dissociava, beffandosi della cautela come di un difetto del carattere: «E pensare che io adoro le tempeste! In West Virginia il vento forte non mi dava nessun fastidio! Ma sentite che bel rumore! Un po’ di lampi e tuoni non mi hanno mai fatto paura! Anzi salivo in montagna e allargavo le braccia e mi facevo una bella corsa, sotto il temporale!»
Perciò ho sviluppato una forte sensibilità meteorologica. Anni dopo, quando ho cominciato a scrivere, il fattore atmosferico ha subito assunto un ruolo molto importante: il tumulto degli elementi e le sensazioni interiori suscitate dal loro perturbarsi incombente sono affiorate insieme in forma drammatica. (Per prima cosa mi cimentai con un tornado, in un racconto intitolato «I venti».)
Fin da piccolissimi, Babbo Natale ci portava sempre quei tipi di giocattoli che insegnano a maschietti e femminucce (separatamente) a costruire delle cose: blocchetti in pietra tagliati in forme adatte a erigere un castello, scatole di costruzioni Tinker Toys, il Meccano. Papà confezionava personalmente per noi complicatissimi aquiloni che bisognava portare chilometri e chilometri fuori città, fino a pascoli sufficientemente vasti (mio padre non aveva timore di farsi vedere da vacche e cavalli) perché lui potesse mettersi a correre e farli decollare attaccati a un lunghissimo spago di cui la mamma reggeva il rocchetto; poi lo spago passava a noi bambini, a strattonarci le mani come una cosa viva. Erano aquiloni solidi, eleganti, bellissimi, che per l’intera loro breve vita mandavano un delizioso profumo di coccoina. E naturalmente, non appena i miei fratelli raggiunsero a stento l’età giusta, ecco spuntare il trenino elettrico: la locomotiva con il suo bel fanale grande come un pisello che si accendeva veramente, la sua fila di vagoni, i binari completi di scambi e semafori, la stazione, i ponti e la galleria, che nel corridoio al piano di sopra bloccava ogni altro traffico. Perfino a pianterreno, e malgrado gli strilli dei bambini euforici, attraverso il soffitto si sentiva bene il garbato e scattante impeto del treno che percorreva all’infinito la sua pista a forma di otto.
Tutte queste cose, e il treno in special modo, rappresentavano la fede più radicata in mio padre: quella nel progresso, nel futuro. Con questi regali preparava i suoi figli.
E lo stesso faceva mia madre con doni diversi.
Già a due o tre anni sapevo che qualsiasi stanza in casa nostra, a qualunque ora del giorno, era fatta per andarci a leggere o a farsi leggere qualcosa. La mamma leggeva per me ad alta voce: la mattina nella camera grande, quando stavamo insieme sulla sua sedia a dondolo che faceva tic-tic al ritmo dell’oscillazione, come se avessimo un grillo ad accompagnare il racconto; nei pomeriggi d’inverno in sala da pranzo davanti al camino, con l’orologio a concludere la narrazione con il suo «cucù», e poi la sera dopo che mi ero infilata nel lettino. Probabilmente non le davo pace. Qualche volta leggeva per me stando seduta a fare il burro in cucina, col singulto della zangola come sottofondo a qualsiasi vicenda. La mia grande ambizione era che leggesse per me mentre io sbattevo la panna; e una volta lei esaudì il mio desiderio, terminando però la fiaba prima che io potessi portarle il burro. Era molto espressiva: quando leggeva «Il gatto con gli stivali», per esempio, era impossibile non capire che diffidava di tutti i gatti.
Ero rimasta sconcertata e delusa nello scoprire che i libri di fiabe erano stati scritti da persone, che i libri non erano meraviglie naturali, non crescevano da soli come l’erba. E tuttavia, da qualunque posto venissero, non so ricordare un tempo in cui non sia stata innamorata di loro: proprio dei libri in sé, copertina, rilegatura e carta su cui erano stampati, del loro odore, del loro peso e del mio possederli tra le braccia, catturati e stretti a me. Ancora analfabeta, per i libri ero già pronta, già impegnata a regalare loro tutto il mio possibile leggere.
I miei genitori non venivano da famiglie in cui ci si potesse permettere di comprarne molti; ma per quanto ciò dovesse pesare non poco sul suo stipendio – di giovanissimo funzionario in una giovane compagnia di assicurazioni – mio padre non cessava mai di scegliere e ordinare tutti i libri con i quali, secondo lui e la mamma, noi figli dovevamo crescere. Compravano in primo luogo per il futuro.
Oltre al mobile libreria del soggiorno, che tutti chiamavano «biblioteca», sotto le finestre della sala da pranzo c’erano il tavolino con le enciclopedie e il leggio dei dizionari che ospitavano, pronti per darci una mano a crescere dibattendo intorno al tavolo, il vocabolario Webster in edizione integrale, la Columbia Encyclopedia dell’omonima università, l’enciclopedia illustrata della Compton, la Lincoln Library of Information e, più tardi, il Book of Knowledge. E l’anno che ci trasferimmo nella casa nuova, l’evento fu festeggiato con la nuova edizione 1925 dell’Enciclopedia Britannica che mio padre, il viso sempre deliberatamente volto al futuro, era ovviamente pronto a giudicare migliore di qualsiasi altra edizione precedente.
In «biblioteca», dentro il mobile libreria in arte povera californiana con tre sportelli in vetro coperti da una griglia, insieme alla poltrona William Morris di papà e alla lampada con il paralume di vetro sullo scrittoio proprio lì accanto, c’erano libri che avrei potuto incominciare presto: e questo feci, leggendoli tutti quanti allo stesso modo e così come venivano, una fila dopo l’altra, dal primo scaffale in cima all’ultimo in fondo. C’era la serie completa delle Lectures di John Stoddard, con il loro bel lessico tardo Ottocento, i tratteggi di vita rurale e di pittoreschi usi e costumi, con le relative illustrazioni a mezzatinta: il Vesuvio in eruzione, Venezia sotto la luna, scorci di zingari intorno al fuoco dei bivacchi. E non sapevo allora che fossero all’origine del desiderio, forte in mio padre, di vedere il resto del mondo. Lessi da cima a fondo il suo altro grande «amore a distanza», il Victrola Book of the Opera, con le opere liriche in sinossi una dietro l’altra e ritratti in costume di Nellie Melba, Enrico Caruso, Amelita Galli-Curci e Geraldine Farrar; e alcune di queste grandi voci potevamo ascoltarle sui nostri dischi Red Seal.
Mia madre leggeva solo in subordine per trarne informazioni; da vera edonista, si abbandonava ai romanzi. Leggeva Dickens con lo spirito di un’innamorata pronta a fuggire con lui. E oltre ai suoi romanzi, a quelli di Scott e di Robert Louis Stevenson, le letture di gioventù che le erano rimaste impresse erano Jane Eyre, Trilby, La donna in bianco, Verdi dimore, Le miniere di Re Salomone. Ogni tanto spuntava il nome di Marie Corelli, ma mi rendevo conto che la signora era uscita dalle grazie della mamma, che aveva conservato Ardath solo per questioni di lealtà; e col tempo si lasciò catturare da Galsworthy, Edith Wharton e soprattutto il Thomas Mann del ciclo di Giuseppe.
A casa non avevamo St. Elmo, ma lo vedevo spesso in casa d’altri. È a questo celeberrimo romanzo sudista che si devono in principio le tante Edna Earl oggi tra noi: sono state tutte battezzate in onore della protagonista, la quale riusciva ad avere ragione di quel debosciato, ateo e peccatore del suo spasimante (che si chiama St. Elmo, appunto). Mia madre riuscì a soprassedere, però ricordava bene il consiglio dato ai coltivatori di rose su come innaffiare abbastanza a lungo le proprie piante: «Pigliatevi una seggiola e St. Elmo».
A entrambi i miei devo il precoce incontro con l’amatissimo Mark Twain. Sui nostri scaffali c’erano le sue opere complete e una nutrita serie di volumi di Ring Lardner, e col tempo furono quei libri a unirci tutti quanti, genitori e figli.
Fu leggendo ogni cosa mi trovassi dinanzi che m’imbattei in un vecchio libro consunto, privo di dorso, che era stato di mio padre bambino. Si intitolava The History of Sandford and Merton. C’è rimasto ancora qualcuno che lo ricorda, mi chiedo? Si tratta della famosa operetta morale scritta da Thomas Day verso la fine del Settecento, ma sul frontespizio di questo volume di lui non c’è traccia; qui c’è scritto Sandford and Merton in Words of One Syllable, di Mary Godolphin.1 Dentro ci sono il ragazzo ricco, il ragazzo povero e il signor Barlow, loro maestro e interlocutore nei lunghi discorsi alternati a drammatiche scene di pericoli e salvataggi, assegnati rispettivamente al protagonista ricco e a quello povero. E sarà anche scritto in parole monosillabe, ma quanto mai arcaiche; e termina non con una ma ben due morali, entrambe incise su anelli: «Fa’ ciò che déi, sia quel che sia», e «Gran non ti puo’ dir, se non sei pur buon».2
Il libro era orbo anche della copertina, la costola era tenuta insieme da strisce di carta incollata, a strati su strati, ormai ingiallite, e aveva le pagine macchiate, ticchiolate e lacere sui bordi; le illustrazioni variopinte si erano staccate ma erano state conservate fra una pagina e l’altra. Avevo la sensazione, perfino in tenera e noncurante età, che quello fosse l’unico libro che il mio papà ragazzino avesse posseduto. Se l’era tenuto stretto, e forse su quel frontespizio scoperto si era anche addormentato: aveva perso la mamma a sette anni. Con noi figli non aveva mai accennato a quel libro, però se l’era portato dietro dall’Ohio fino a casa nostra e l’aveva riposto sullo scaffale.
I volumi di Dickens li aveva portati mia madre dal West Virginia. Quelli pure avevano un’aria malandata: prima che io nascessi erano sopravvissuti a fuoco e acqua, mi disse la mamma, ed eccoli là allineati e coperti, capii in seguito, ad aspettare me.
Da che sono in grado di ricordare ho sempre ricevuto in dono libri scelti per me, che spuntavano per i compleanni e la mattina di Natale. Anzi, i miei non si stancavano mai di regalarmene: certo fecero molti sacrifici per farmi avere, in occasione del mio sesto o settimo compleanno – dopo che avevo imparato a leggere da sola – la serie in dieci volumi di Our Wonder World. Si trattava di bellissimi, sostanziosi tomi con i quali mi sdraiavo sul pavimento davanti al caminetto della sala da pranzo, e più sovente degli altri avevo sotto gli occhi il quinto volume, quello con le storie per l’infanzia. C’erano le favole note: i fratelli Grim...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ringraziamenti
  3. Prima parte: ascoltare
  4. Seconda parte: imparare e vedere
  5. Terza parte: trovare una voce
  6. Nota biografica dell’autrice