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La rivoluzione sobria di papa Francesco

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La rivoluzione sobria di papa Francesco

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Primo papa gesuita della storia, Jorge Maria Bergoglio è asceso al soglio pontificio a conclusione di una delle crisi più drammatiche nella storia della Chiesa cattolica, e ha segnato fin dai primi gesti e dalle prime dichiarazioni pubbliche una discontinuità radicale con chi lo ha preceduto, rilanciando l'idea di una Chiesa che sappia essere «ospedale di campo», proiettarsi nel mondo esterno e affrontare con decisione e realismo i grandi problemi che lacerano la contemporaneità: la carenza e precarietà del lavoro, l'emergenza ambientale, il moltiplicarsi dei fenomeni migratori e la crescita esponenziale di poveri e scartati, ad ogni latitudine.Profondo conoscitore tanto del gesuitismo quanto dei principi dell'economia e delle loro evoluzioni più recenti, Leonardo Becchetti interroga il pensiero di Bergoglio, spaziando da un'enciclica rivoluzionaria come la Laudato si' al memorabile discorso pronunciato davanti agli operai dell'Ilva di Genova; ne spiega l'impatto rivoluzionario su una scena politica radicata nelle piccolezze del presente; ne esalta la generatività, intesa come «percorso verso il futuro» e verso una sempre maggiore realizzazione e pienezza della comunità umana. E formula, partendo dalla propria esperienza nei settori dell'economia civile e della finanza etica, un ventaglio di soluzioni e idee che potrebbero trasformare in realtà i principi, nobilissimi e progressisti, della Bergoglionomics.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788833891705
Argomento
Business

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LE POSSIBILI RISPOSTE ALLA LUCE DELLA BERGOGLIONOMICS

Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas – deve essere sostituita progressivamente e senza indugio. In attesa di un ampio sviluppo delle energie rinnovabili, che dovrebbe già essere cominciato, è legittimo optare per l’alternativa meno dannosa o ricorrere a soluzioni transitorie.
Laudato si’, 165
Mi preparo a illustrare le possibili soluzioni al problema del riscaldamento climatico nel secondo giorno della chiusura delle scuole a Roma, dopo una giornata di venti e piogge torrenziali che un tempo vedevamo solo in televisione, e dentro servizi girati in India o nei Caraibi. Il cambiamento climatico è purtroppo sempre più tangibile e rende urgente e pressante una soluzione. Abbiamo già verificato che tale soluzione è complessa perché richiede il coordinamento di molte decisioni di singoli individui, amministrazioni locali e Stati. Le parole di Francesco nella Laudato si’ devono essere di sprone e di stimolo. Ma non si tratta solo di esortazioni morali. Mai come in questa occasione un’enciclica pontificia, che di solito resta nei piani superiori dell’enunciazione dei principi primi, lasciando a ognuno la libertà di tradurli nelle ricette di policy che vuole, entra invece a gamba tesa nel merito.
Il passaggio che ha fatto montare su tutte le furie alcuni ambienti conservatori d’oltreoceano è quello sulla sostituzione progressiva ma senza indugi delle fonti fossili, citato al principio del paragrafo.
Per capire la ratio di questo appello dobbiamo avere come riferimento della nostra ricerca di soluzioni al problema la famosa equazione di Kaya:
Variazione Inquinamento=Variazione popolazione*Variazione reddito pro capite*Variazione efficienza energetica produzione
A sinistra del segno uguale abbiamo la variabile obiettivo che ci proponiamo di ridurre, ovvero la variazione nel tempo della sostanza che produce il danno ambientale (nel caso del riscaldamento climatico, l’anidride carbonica pro capite). A destra la stessa variabile è semplicemente scomposta in quanto prodotto della variazione nel tempo di tre fattori. Il primo è la popolazione mondiale, il secondo il consumo pro capite per abitante e il terzo la quantità di CO2 prodotta per unità di Pil prodotto/consumato. Questa formula e questi tre fattori ci dicono molto semplicemente che se vogliamo ridurre la produzione di anidride carbonica per abitante, che a sua volta genera il fenomeno dell’effetto serra e del riscaldamento globale, abbiamo tre vie possibili. La prima è la via «malthusiana» della riduzione della popolazione; la seconda è quella legata alla teoria della «decrescita», ovvero la riduzione del reddito pro capite; la terza è l’aumento dell’efficienza energetica ovvero la riduzione della quantità di CO2 prodotta per unità di reddito.
La via malthusiana è sicuramente quella meno raccomandabile e più costosa in termini di libertà e di valori etici. Paesi come la Cina, che in passato si sono avventurati nella politica del figlio unico per controllare le nascite, sono tornati indietro, pentiti della loro scelta. Lavori di ricerca importanti condotti tra l’altro dal Nobel Amartya Sen dimostrano che la politica del figlio unico ha prodotto la tragedia degli aborti selettivi in Cina, con famiglie che, di fronte a un’ecografia che indicava la nascita di una futura figlia femmina, preferivano optare per l’aborto perché il figlio unico doveva essere maschio, e una figlia femmina, soprattutto nelle aree rurali, era percepita come una disgrazia da un punto di vista economico per via dell’istituto della dote. La prova «statistica» dell’aborto selettivo sta in un rapporto tra nati uomini e nate donne decisamente anomalo (molti più uomini che donne). E l’evidenza dell’importanza delle politiche di sussidio alla nascita di figlie femmine nelle aree rurali per prevenire questa piaga è stata dimostrata da studi condotti nei diversi stati indiani, dove la pratica era egualmente diffusa nonostante l’assenza di un divieto esplicito per il secondo figlio.
La politica «malthusiana», oltre a essere crudele, è sostanzialmente inutile. Il problema di tutti i paesi del mondo, a eccezione di pochissimi casi, è la natalità al di sotto della media di figli per donna (2,2) che garantirebbe la stabilità della popolazione. L’Italia è uno degli epicentri della crisi demografica: il nostro paese sta rapidamente invecchiando e rischia di diventare un paese «degiovanilizzato». Negli ultimi anni siamo infatti tornati a una media di nascite inferiore alle morti, che avevamo vissuto solo durante la tragedia della prima guerra mondiale.
Una delle evidenze empiriche più robuste negli studi economici sottolinea un dato molto semplice. Per «controllare» le nascite basta un buon livello di benessere economico e di istruzione femminile. Man mano che il reddito cresce e si esce dalla povertà i figli non sono più «prole» che si vuol «produrre» in gran numero per avere una qualche forma di assicurazione sulla vita e più braccia per aiutare nel lavoro nei campi. In società ricche, i figli diventano un investimento sempre più costoso perché bisogna assicurare loro gli standard di vita elevati di cui godono tutti i coetanei (mandarli a lezione di lingua, in vacanza in un college, fargli fare tutti i possibili sport). Inoltre, man mano che il livello d’istruzione femminile aumenta il costo legato all’opportunità di avere figli cresce perché implica per le donne rinunciare, almeno per un certo lasso di tempo, a un progresso in termini di carriera e di attività professionale (tanto più in paesi come il nostro dove, a differenza di altri paesi europei, gli aiuti economici alla maternità scarseggiano e non esiste una dote economica per il figlio).
La seconda via indicata dall’equazione di Kaya, quella della decrescita, è in fondo legata al tema della sobrietà che, come abbiamo sottolineato, è nota distintiva della Bergoglionomics e dell’enciclica Laudato si’. Arriviamo a un punto nevralgico e delicatissimo del discorso. Per capire il motivo va utilizzato un concetto che mette assieme il tema della lotta alla povertà e quello della sostenibilità ambientale e che è stato sviluppato da Kate Raworth, una studiosa di scienze naturali, utilizzando l’immagine della ciambella per spiegare l’esigenza di coniugare crescita e sostenibilità ambientale.8
La ciambella ha un limite superiore che può essere oltrepassato da un eccesso di crescita che ci fa superare i limiti di sostenibilità ambientale (la Raworth giustamente affianca al problema del riscaldamento climatico, che noi abbiamo preso a modello del nostro ragionamento, quelli del buco dell’ozono, dell’inquinamento con sostanze chimiche, dell’inquinamento dell’acqua, della perdita di biodiversità, dell’acidificazione degli oceani). E un limite inferiore che può essere oltrepassato da un difetto di crescita che mette a rischio le nostre conquiste sociali in materia di pace, democrazia, livelli d’istruzione e ci fa segnare passi indietro nella lotta alla povertà e alla disoccupazione. Siamo finalmente al nocciolo della questione e all’annoso problema della necessità di un approccio multidisciplinare. Viviamo in un mondo nel quale anche gli addetti ai lavori sono iperspecializzati, incapaci quindi di comprendere le esigenze delle altre discipline. E un po’ come se medici espertissimi di patologie dell’alluce suggerissero una cura che produce nel paziente un infarto, perché del sistema cardiovascolare conoscono poco o niente. Così, gli esperti di materie ambientali e a digiuno dei problemi dell’economia ci dicono che dobbiamo consumare di meno, mentre gli esperti di economia a digiuno di problemi ambientali ci dicono che dobbiamo consumare di più (e resta questo il mantra dei principali giornali economici, che non fanno che parlarci ogni giorno dell’obiettivo della crescita del reddito e dei consumi).
È possibile tenere assieme due esigenze apparentemente contrastanti (consumare di più per combattere povertà e disoccupazione e consumare di meno per vincere le sfide della sostenibilità ambientale)? La risposta è sì: disallineando la produzione di valore economico dalla distruzione di risorse naturali o dalla produzione di sostanze inquinanti, ovvero «dematerializzando» o «angelicando» il Pil, come afferma con un’immagine efficace un esperto di economia e ambiente come Tim Jackson.9 Questo significa che il grosso del lavoro dobbiamo farlo sul fronte del terzo fattore della nostra equazione di Kaya, ovvero l’efficienza energetica.
Usiamo un paradosso per capire meglio. Il Prodotto interno lordo (il Pil, ovvero la somma dei beni e servizi prodotti internamente e venduti sul mercato in un determinato paese) può essere fatto di hamburger o di ebook venduti in rete. Nel primo caso, per aumentare il Pil dovrò vendere un hamburger in più, allevando quindi più bestiame che richiederà più foraggio con un’impronta di consumo di acqua ed energia molto elevata. Nel secondo caso lo stesso bene immateriale prodotto (l’ebook) potrà essere consumato da più persone senza richiedere una nuova produzione fisica che implichi consumo di materie prime. «Professore, molto belle le sue teorie, ma noi non possiamo mangiare ebook, dobbiamo mangiare anche hamburger», mi disse una volta un partecipante a una conferenza. Ovvio che sia così. La direzione di marcia però resta quella indicata. Dematerializzare l’economia vuol dire ridurre progressivamente l’impronta di carbonio del Pil, ovvero creare valore economico producendo sempre meno risorse inquinanti. La via maestra (se guardiamo all’obiettivo di contrastare il riscaldamento climatico) è quella del passaggio alle fonti rinnovabili, coerentemente con quanto affermato nella Laudato si’. E soprattutto, la via della promozione dell’economia circolare, dove gli scarti della produzione e del consumo (i nostri rifiuti) diventano input (materia seconda, non prima) per nuove produzioni. Perché l’economia in futuro sia sostenibile dobbiamo imparare a chiederci, guardando un tavolo, a quale «ciclo di reincarnazione» quel tavolo sia arrivato, ovvero quante vite precedenti i materiali di cui è fatto hanno vissuto. L’economia del futuro o sarà circolare e sostenibile o non sarà. E le imprese del futuro o saranno ambientalmente sostenibili o non saranno.
In fondo, il tema della dematerializzazione del Pil ci condanna alla qualità. Torniamo alla reazione al già citato scandalo del metanolo nel nostro paese. Dopo quella storia l’Italia, per ricostruire la propria reputazione nel settore vitivinicolo, ha puntato con decisione alla qualità, il fatturato si è moltiplicato e il numero di bottiglie vendute si è ridotto. Qualità vuol dire che quello che produco vale di più e dunque significa fare più valore con meno materia prima. La qualità è anche ecologica.
Se questa dunque è l’indicazione operativa utile per raggiungere la meta, resta da domandarci se abbiamo la spinta necessaria per arrivarci. Non basta purtroppo aver individuato le ricette opportune per risolvere un problema. Dobbiamo capire se abbiamo degli inneschi che ci consentano di raggiungere la meta, ovvero la forza e le dinamiche politiche e socioeconomiche necessarie per arrivare al traguardo.
Torniamo alla metafora della malattia e del medico. Il problema del riscaldamento climatico (e in genere della sostenibilità ambientale) è un problema di cui conosciamo la cura. Ma non basta che il medico scriva la ricetta della «ricca sobrietà», che sottende tutto quello che ci siamo detti sinora. E non basta neanche che noi come singoli pazienti prendiamo con diligenza la medicina. Non guariremo se la scelta di curarci non sarà coordinata e non raggiungerà una determinata massa critica. Del come riuscirci parleremo nel prossimo paragrafo, prendendo spunto come al solito da suggerimenti e intuizioni della Bergoglionomics.

La soluzione top down e i suoi problemi

L’appello di un pontefice come papa Francesco alla responsabilità di governi e Stati è sicuramente prezioso ma rischia d’infrangersi contro scogli insormontabili. Possiamo evitare l’aumento della temperatura media del pianeta oltre livelli irreparabili solo con uno sforzo deciso di riconversione delle economie di tutti i paesi del mondo, in direzione della sostenibilità. Non basta, come già accennato, la scelta del singolo, e nemmeno il coordinamento delle scelte di tanti individui. È necessaria la volontà concorde di tutti o di gran parte degli stati nazionali. Un accordo come quello di Parigi, nel quale gli stati nazionali s’impegnano alla riduzione delle emissioni, è firmato tra pari e non esiste un’autorità gerarchicamente sovraordinata in grado di sanzionare eventuali violazioni (né esiste un accordo tra firmatari per comminare tali sanzioni). Si tratta dunque di un accordo volontario da cui ciascuno stato può recedere come e quando vuole, senza per questo incorrere in nessuna particolare penalità. I governi degli stati sanno di essere molto vulnerabili. Impegnarsi in direzione della sostenibilità ambientale può richiedere nel breve periodo sacrifici, e comporta mettersi contro le lobby delle energie fossili rischiando di perdere finanziamenti, consenso e voti. Tutti ritengono uno scandalo che ci siano sussidi alle fonti fossili. In principio è facile obiettare, ma provate a togliere gli aiuti all’acquisto di gasolio agli autotrasportatori e li troverete coi forconi in piazza Montecitorio, come già accaduto in passato.
L’elezione di Trump e la scelta di quest’ultimo di una politica di fatto contraria alla sostenibilità è stata un colpo durissimo agli accordi di Parigi, solo in parte mitigato dal fatto che molti stati americani, California in primis, hanno continuato nella loro autonomia a portare avanti politiche di riduzione delle emissioni. La volontà di ciascuno stato di proseguire su questa difficile strada dipende soltanto dalla possibilità che forze politiche che si pongono l’obiettivo di fare passi avanti sulla sostenibilità ambientale conquistino il consenso dei cittadini e vincano le elezioni.

La soluzione bottom up e i suoi problemi

Per capire in che modo si possa costruire un innesco per rendere più veloce il cambiamento, occorre ripartire dalle scelte individuali. La slide sicuramente più famosa e riprodotta in questi ultimi tempi è quella con i quadrati colorati degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals o SDGs) lanciati dalle Nazioni Unite con Orizzonte 2030.
Obiettivi di Svi- luppo Sostenibile (Sustainable Development Goals o sdgs) lan- ciati dalle Nazioni Unite con Orizzonte 2030
Gli SDG sono la nuova versione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che avevano come traguardo il 2015, ma segnano rispetto a essi una novità sostanziale. Con i nuovi SDG le Nazioni Unite escono finalmente dalla logica paternalistica in base alla quale gli esperti piombano da Washington con le loro soluzioni costruite in laboratorio, sperando di imporle e applicarle con successo alle comunità locali in qualche remota località africana o dell’America Latina. Questo modello «top down» (dall’alto verso il basso) ha dimostrato in più occasioni di essere fallimentare. Gli esperti che arrivano da lontano (oltre a proporre spesso ricette non corrette) vengono il più delle volte rigettati perché i destinatari non si sentono coinvolti nel percorso. La logica «top down» è figlia di un approccio «a due mani» dove, quando c’è un problema, la mano invisibile del mercato e quella visibile delle istituzioni lungimiranti bastano a risolvere la situazione. In realtà questo approccio non funziona, e a fallire non sono solo i mercati ma anche le istituzioni, spesso carenti in termini di benevolenza o lungimiranza visto che i politici sono schiavi del consenso a breve espresso dai sondaggi e delle pressioni delle lobby, poco propense a spingere in direzione del bene comune e della sostenibilità. Gli SDG segnano il passaggio a un approccio più intelligente e «a quattro mani», dove si riconosce che le due mani tradizionali, per funzionare, hanno bisogno dell’intervento della terza mano della cittadinanza attiva e della quarta delle imprese responsabili. Non a caso, l’obiettivo 12 degli SDG si chiama «consumo e produzione responsabile» e l’obiettivo 17 «partnership per il raggiungimento degli obiettivi».
In un recente lavoro con un gruppo di ricerca abbiamo provato a ripensare gli indicatori di benessere del nostro paese attraverso gli spunti forniti da una serie di focus group con esperti. La novità più interessante è l’identificazione di una responsabilità ambientale di territorio, fondata sulla consapevolezza che la sostenibilità di una determi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Indice
  3. Introduzione
  4. Per un’ecologia integrale
  5. / Perché per la prima volta un papa scrive un’enciclica che parla di ecologia
  6. / L’originalità della vision di Francesco: la ricca sobrietà
  7. / La ricca sobrietà: risorsa competitiva per l’Italia
  8. / La tassonomia delle risorse naturali
  9. / Le possibili risposte alla luce della Bergoglionomics
  10. / Le politiche del voto col portafoglio per realizzare gli auspici della Bergoglionomics
  11. Guardare il mondo a partire dagli scartati
  12. / Scartati e diseguaglianze
  13. / L’attacco della Bergoglionomics alla «ricaduta favorevole»
  14. / L’imperativo delle società odierne: ri-generazione
  15. / Il riscatto e la generatività degli scartati
  16. / I progetti sul campo che ridanno dignità agli scartati
  17. / Un campione della ri-generazione: la sfida della «generatività dei longevi»
  18. I paradossi del lavoro e le nuove risposte
  19. / Quale lavoro? l’ideale della Bergoglionomics in quattro aggettivi
  20. / Il campo da gioco
  21. / Come si fa a uscirne? la politica economica del lavoro della Bergoglionomics
  22. / Quanto e come lavorare? Il lavoro si può dividere?
  23. / La formazione e il paradosso della disoccupazione e dei posti di lavoro vacanti
  24. / La rivoluzione prossima ventura passa attraverso il voto col portafoglio
  25. / La formula del voto col portafoglio (ragioniamoci un po’)
  26. / Il dilemma del prigioniero
  27. / La strada per rendere il voto col portafoglio più efficace
  28. / Le nuove frontiere del voto col portafoglio
  29. / Le sfide future e i passi decisivi per vincerle
  30. Sensibilità e discernimento. La «piaga» dei migranti
  31. / Premessa
  32. / Cosa è successo in Italia?
  33. / La radice (economica e non solo) del fenomeno migratorio
  34. / Errori e ragioni dei sovranisti sui migranti
  35. / Le risposte
  36. / La logica della Bergoglionomics