Fare scene
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In Fare scene, Starnone racconta una storia individuale che si allarga fino ad abbracciare la parabola dell'Italia negli ultimi sessant'anni. Nella prima parte del libro, un bambino cresciuto nella Napoli proletaria del dopoguerra compie la sua educazione sentimentale circondato dall'atmosfera irripetibile delle sale cinematografiche di allora. Nella seconda parte, quel bambino, diventato un adulto di inizio secolo, non si limita a guardare i film, li fa: è diventato uno sceneggiatore. Ma il cinema di oggi non è più quello di Rossellini, Totò, Fellini, Anna Magnani. E così ? mentre assistiamo alla trasformazione di un ambizioso progetto cinematografico in un prodotto dolciastro e scontato ? ci rendiamo conto che non è solo il protagonista ad aver perso lo sguardo incantato, ma tutto un paese sempre più desolante.Questa edizione contiene un capitolo inedito.

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Informazioni

SECONDO TEMPO

Alla prima lettura le quattro paginette di Raggalli non mi dissero granché. I registi, quando raccontano sia a voce che per iscritto i film che vorrebbero girare, ti fanno sentire come un viaggiatore apprensivo che, appena fa buio, guarda dal finestrino del treno, vede semafori o luci in fuga e chiede di continuo: scusi, dove siamo, che stazione è.
Misi da parte i fogli convinto che non portassero da nessuna parte. Ma passò qualche giorno e le pagine di Raggalli non se ne andarono, anzi per vie segrete mi fecero tornare in mente mio nonno che era stato tornitore, mio padre che a diciotto anni aveva cominciato a lavorare nelle ferrovie come aggiustatore elettricista. Allora le riesaminai e questa volta mi sembrarono una manciata di ghiaia che, gettata in aria per gioco da un bambino, disegna per qualche attimo una figura nitida, poi precipita con un ticchettio disordinato. Perciò, tanto per sondare il terreno, telefonai a un amico che fa il produttore – uno che si chiama Nello, lo conosco da trent’anni – e gli dissi esagerando un po’:
«Ho letto quattro paginette di Raggalli, c’è in germe una bella storia di operai».
Nello restò zitto un attimo, poi borbottò:
«Gli operai non esistono più. Volete fare un film sui fantasmi?»
Discutemmo a lungo, ma lui tenne fermo il suo no e ci salutammo un po’ in freddo.
A fine giornata ricevetti una telefonata da Alda, la mia agente, che è una donna molto intelligente e combattiva. Era contenta, disse che aveva un nuovo lavoro per me: la vita di Tommaso Campanella in sei puntate. Il regista secondo lei non poteva essere che Nino Gargano, un suo assistito che aveva già diretto La vita di Benvenuto Cellini con grandissimo successo (io mi ricordavo che era stato un fiasco, ma tacqui). Non solo: per interpretare Campanella s’era fatto il nome di Sergio Castellitto, ma Castellitto, si sa, è un attore sempre impegnato e lei aveva pensato a due o tre clienti del suo studio che avrebbero fatto quella parte ugualmente bene se non meglio (secondo me no, ma tacqui). Quanto al produttore, disse, è Nello, lo conosci, ci hai lavorato sempre con soddisfazione, è bravissimo e molto affidabile. Certo, buttò lì a un certo punto, per la scrittura non ha ancora detto con chiarezza che vuole te, ma vedrai, lo dirà: sei lo sceneggiatore giusto per Campanella, figuriamoci se Nello, che ti stima tanto, non si rivolge a te. Concluse:
«Che dici, ti piace l’idea, sei contento?»
Tempo perso al telefono, pensai, è tutto in alto mare: si tratta di chiacchiere tanto per sondare il terreno, come se ne fanno ogni giorno in questo lavoro. Ma dissi ugualmente che era un progetto di grande interesse, non volevo che Alda si convincesse che non ero disponibile e assegnasse le sei puntate a un altro. Visto poi che aveva accennato a Nello, decisi là per là di parlarle delle quattro pagine di Raggalli.
Feci una premessa piuttosto generica sulla condizione operaia oggi, su come si era modificata l’idea e la sostanza del lavoro. Quando mi sembrò di averle comunicato a sufficienza che non le stavo per parlare di roba sorpassata, ma attualissima e poco esplorata, passai a Raggalli. Ma riuscii a dirle soltanto:
«Raggalli ha».
Lei mi bloccò subito:
«Raggalli? Il regista? Raggalli, bello mio, non ha. L’unica cosa che possiede a tonnellate è la merda in testa».
«Ma».
«Niente ma. Raggalli per moltissime ragioni ha chiuso per sempre col cinema».
«Guarda che è bravo».
«Ma che dici? Come può essere bravo uno che va in giro con un fidanzato impresentabile?»
«Che c’entra adesso il fidanzato».
«C’entra: dimmi con chi scopi e ti dirò chi sei».
«Alda, per favore. Conosco Raggalli, gli sono affezionato, siamo seri».
«Sono serissima. Ora ti racconto un po’ di cosette su questo signore».
Seguirono pettegolezzi che investirono ogni settore della vita del regista, al culmine dei quali lei disse amareggiata:
«Con Raggalli, caro mio, c’è già stata qualche occasione di lavoro e le cose sono andate così male che non voglio lavorarci più. Ti consiglio per il tuo bene di fare altrettanto».
Smisi di ribattere e lasciai che disegnasse un quadro foschissimo del mio futuro lavorativo se davo spago a Raggalli. Con lei bisognava fare così. Tanto lo sapevo che il problema non erano né i difetti di Raggalli, né quelli del suo fidanzato malaticcio, l’esile Vincent, ex attore di teatro nato a Bordeaux che aveva abbandonato il suo paese per amore. Alda avrebbe tollerato tutto da entrambi, se non ci fosse stata una macchia mai menzionata che però era l’unica a renderla astiosa: Raggalli non era suo cliente; e lei sottovalutava chiunque non fosse suo cliente, mentre era disposta a sopravvalutare qualsiasi imbecille le si affidasse. Alla fine, quando si fu del tutto sfogata, le dissi mentendo, ma con tono molto convinto:
«Guarda che Raggalli ha in mente una storia bellissima».
«Impossibile».
«Te la racconto?»
«Va bene».
Gliela raccontai inventandola là per là. Disse:
«E che è una storia, questa?»
«No», ammisi, «ma può diventarlo».
«Pensa a Campanella», mi spronò, «sono molti soldi».
Di Campanella per un po’ non sentii più parlare. Seppi poi che ne stava scrivendo uno sceneggiatore molto più giovane di me, pupillo di Nello, laureato in filosofia, di pretese miti proprio perché giovane, e cliente di Alda.
Va bene, pensai, ho già tante brutte cose sulla coscienza, meglio non averci anche Campanella, che ai suoi tempi ha già patito abbastanza. Per di più in quel periodo ero carico di lavoro. Mi alzavo alle sette ogni mattina e fino all’una scrivevo di camorristi efferati che ne combinavano di tutti i colori; poi, dopo il pranzo e un sonnellino pomeridiano, mi dedicavo dalle quindici alle diciannove a una storia in costume dove il musicista John Dowland, ormai avanti negli anni, si innamorava perdutamente di una fanciulla sua allieva ma, non riuscendo ad averla in alcun modo, scriveva un pezzo struggente da suonare a quattro mani componendolo in modo che, nell’eseguirlo insieme, lui fosse obbligato a sfiorarla nelle parti più intime e lei a fare altrettanto.
Non sapevo quasi niente di camorra e assolutamente niente di musica inglese tra il xvi e il xvii secolo, ma avevo in mente un mucchio di libri e di film che romanzavano sia le attività mafiose, sia la vita dei musicisti, sia gli amori senili, sicché mi parevano esperienze che padroneggiavo bene e scrivevo con facilità. In mattinata, che so, stavo dietro a un killer di Afragola che prima di sparare – eccolo, si esprimeva in dialetto, diceva orribili bestemmie – si accorgeva di avere una scarpa slacciata e si fermava ad allacciarsela. Nel pomeriggio stavo dietro a Dowland, che depresso si osservava il ventre gonfio, le gambe secche, le macchie nere sulle mani, la bocca con un paio di incisivi in meno, e mormorava: ah, quanto mi vergogno di come sono diventato, posso mai pretendere che lei, così giovane, così bella, mi accarezzi, mi abbracci, mi baci.
Recitavo le battute tra me e me mentre le scrivevo, e scuotevo la testa, e mi fermavo, e accennavo ad allacciarmi una scarpa, e bestemmiavo nel mio dialetto. Erano decenni che passavo il mio tempo così: ronzii di voci, personaggi che uscivano già belli e confezionati dalla storia del cinema e della letteratura per entrare, a seconda delle necessità, assottigliati, modernizzati, arcaicizzati, nel mio film; ombre di tutte le età e professioni, ragazzi e adulti, brava gente e farabutti, investigatori e assassini, maestrine e puttane, che si davano a grandi amori infelici poi felici, e scene di sesso sempre con lui sotto, semicoperto, e lei sopra, nuda; il tutto con una sua piacevolezza obbligata, anche le nefandezze, anche l’orrore.
Mi tormentavo i baffi, sospiravo, gesticolavo. Tenevo chiusa la porta della mia stanza per evitare che i miei familiari mi vedessero. La sera, quando andavo a cena o al cinema o al teatro o a un concerto, o vedevo qualche amico, ero sempre intontito, mi facevano male i polpastrelli, la schiena, il collo.
Una volta, a casa di conoscenti, incontrai Raggalli. Riparlammo delle sue pagine, mi disse che il nocciolo del film – le condizioni di lavoro degli operai oggi, osservate in una fabbrichetta vicino Ravenna – si era dolorosamente espanso.
«Dolorosamente in che senso?»
Nel senso che non si ricordava se mi aveva detto che l’idea di quel film gli era stata suggerita dalle esperienze lavorative di un suo amico d’infanzia, tale Giorgio.
«No, non me l’avevi detto, e allora?»
Allora lui e questo Giorgio erano cresciuti insieme in un paesino vicino Ravenna, e tra loro c’era stata una gran confidenza, molta solidarietà. Poi a diciotto anni Raggalli era venuto a Roma per frequentare il centro sperimentale, mentre Giorgio era finito a lavorare nella fabbrichetta del Ravennate, in condizioni veramente dure.
«E quindi?»
«Quindi», mi rivelò facendo gli occhi rossi, «il mio amico la settimana scorsa si è impiccato nel bagno di casa lasciando tre figli piccoli e una moglie disperata».
«No».
«Sì».
«Terribile».
«Infatti».
Tacqui, poi mormorai:
«Raggalli, questo è proprio un film».
La frase per me significava da decenni: sono fatti veri che hanno urgente bisogno di diventare finti per diffondere al meglio la loro verità (la variante letteraria era: questo è proprio un racconto; non usavo quasi mai la parola romanzo, mi sembrava troppo impegnativa).
«Sì», disse Raggalli.
«Glielo devi», esclamai io con una certa solennità.
La mattina dopo telefonai di nuovo a Nello, gli riproposi il progettino di Raggalli, ma aggiungendo in coda i drammatici sviluppi della storia. Nello non si commosse nemmeno un po’. Nessuno ci mette sopra una lira, disse gelido, nemmeno per mandare una corona di fiori a quel tizio di Ravenna. Ma poiché sul momento aveva mille guai da affrontare e non voleva perdere altro tempo, concluse: fatevi vedere mercoledì prossimo alle undici e vi spiego perché è meglio che ci rinunciate.
Riferii a Raggalli la conversazione per filo e per segno. Lui, che aveva una sua fierezza – l’unico film che aveva fatto, sei anni prima, era stato lodato molto in Francia sulle riviste specializzate – si inalberò:
«Quanto detesto questo andare a piatire. Chi cazzo è Nello? Che vuole? Ha solo quattro soldi, di suo. Per fare un film deve a...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Primo tempo
  3. Intervallo
  4. Secondo tempo
  5. Fine
  6. Indice