Brother Ray. L'autobiografia
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Brother Ray. L'autobiografia

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Informazioni sul libro

Come fa un ragazzino nero cresciuto a piedi scalzi in un paesello della Florida negli anni Trenta a trasformarsi in un fenomeno musicale planetario? Come fa un cieco a farsi strada fino all'Olimpo delle star lasciandosi guidare, invece che da un cane e da un bastone, solo dal suo amore per la musica? Questa è la storia audace, appassionante e quasi miracolosa di Ray Charles, raccontata dal suo stesso protagonista con un candore e un entusiasmo rari. Dalle prime lezioni di piano nel retrobottega di un emporio ai tour nelle selvagge dance hall di provincia, fino agli studi delle grandi case discografiche e alle arene di mezzo mondo, Ray ripercorre le tappe di una vita avventurosa e determinata e di una carriera lunghissima, e insieme la storia della musica e della società americane (senza tacere nulla delle sue esperienze con il sesso e la droga, delle sue convinzioni politiche e dei suoi dilemmi religiosi). A chiudere questa imperdibile autobiografia, aggiornata fino agli ultimi giorni di vita dell'autore, c'è un'utile discografia completa e commentata.

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Informazioni

BROTHER RAY

CASA

Prima di cominciare, fatemi dire subito che sono un ragazzo di campagna. E guardate che per campagna intendo uno di quei posti verdi alberati lontani da tutto! Al principio del principio, e al cuore di tutta la storia, c’è questo. L’unica cosa che i miei occhi hanno visto – e prendetemi alla lettera – è la campagna.
Ho perso la vista solo a sette anni. Fu un processo graduale. Per cui ho in mente anni di immagini di luoghi di campagna, gente di campagna, animali di campagna.
Sono nato ad Albany, in Georgia, il 23 settembre del 1930. Pochi mesi dopo ci trasferimmo in una piccola cittadina nel nord della Florida, a soli cinquanta o sessanta chilometri dal confine con la Georgia. Sulle cartine geografiche c’è scritto Greenville, ma noi l’abbiamo sempre chiamata Greensville, con la s. Casa. Greensville in pratica somiglia molto a Plains, Georgia, se mi perdonate il confronto. Stessa campagna, stesso genere di villaggetto rurale.
Avete presente quelli che dicono di essere poveri? Sentite me: quando dico che eravamo poveri, intendo poveri con la P maiuscola. Anche rispetto agli altri neri di Greensville noi eravamo sul primo piolo della scala e dovevamo guardare tutti dal basso. Sotto di noi c’era solo la terra.
Per dire, ero già abbastanza grandicello quando ricevetti il mio primo paio di scarpe. Il bagno dentro casa, neanche ce lo sognavamo. Eppure qualcuno si prese cura di me. Ricevetti l’amore di due donne. Suona strano, ma effettivamente di madri ne ho avute due.
Mio padre si chiamava Bailey Robinson, e a dire il vero non ci scommetterei troppo che lui e mia madre fossero regolarmente sposati. Mia mamma si chiamava Aretha. La chiamavano tutti ’Retha.
Il vecchio non ebbe un grosso ruolo nella mia vita. Era un tipo alto, questo me lo ricordo. Ma difficilmente si faceva vedere dalle nostre parti. Per lavoro piantava chiodi nelle traversine della ferrovia tra Perry, in Florida, e Adel, in Georgia. A volte veniva a trovare Mamma, ma non molto spesso. Era così grosso, e lei così minuta, che la gente spesso li prendeva per padre e figlia.
Ricordo che una mattina, dovevo essere ancora molto piccolo, mentre se ne andava gli domandai se si sarebbe andato a mettere sopra Mamma per giocare con lei. Sapevo che facevano sempre una cosa del genere quando pensavano che dormissi. Ma non sapevo di cosa si trattasse esattamente.
Quelle catapecchie sfondate avevano le pareti sottilissime e in pratica si stava sempre uno sopra l’altro comunque.
Per cui Bailey andava e veniva a suo piacimento. Non lo conobbi mai sul serio. Forse perché lavorava alla ferrovia e non c’era mai; forse perché di me non gliene fregava niente. Non so dire.
In campagna ci sono due tipi di matrimoni, quelli di fatto e quelli regolari. Le relazioni tra uomini e donne sono cose che un bambino fatica a capire, e a tutt’oggi non sono sicuro di quali fossero i rapporti tra i miei genitori.
So invece che la prima moglie di Bailey, Mary Jane, mi volle bene e si prese cura di me come una madre. È probabile che proprio durante il matrimonio con lei Bailey abbia avuto la sua storia con ’Retha – che è il motivo per cui sono arrivato io. Dopo la separazione da Mary Jane, Bailey ebbe un’altra moglie. Si chiamava Stella e io non la conoscevo bene.
Davvero, Mary Jane si affezionò a me come fossi suo figlio. Ne aveva perso uno di figlio, Jabbo, e forse in qualche modo lo sostituivo. Chi lo sa?
Gran parte di questo periodo della mia vita, i miei primissimi anni, rimane un mistero, ma ricordate: ero troppo piccolo per fare domande serie. E comunque, a un bambino non è permesso fare domande.
A fronte di tutta questa confusione su chi amava chi, chi viveva con chi o chi lasciava chi, so con certezza che due donne, Mamma e Mary Jane, mi inondarono di affetto e si presero cura di me finché vissero. In pratica chiamavo ’Retha «Mamma» e Mary Jane «Mia madre».
Mamma era piccolina, sui cinquantacinque chili, ed era debole di costituzione. Non che non potesse lavorare. Di fatto lavorò per tutta la vita. Mollò la scuola dopo la quinta elementare e lavorò nei campi di tabacco e di cotone, sgusciò fagioli e piselli.
Ma il suo vero lavoro fu sempre lavare e stirare. Le altre donne del quartiere a servizio per i bianchi le passavano un po’ di lavoro extra. Come in subappalto. Non faceva tanti soldi, in questo modo, ma tutto quello che guadagnava lo spendeva per vestirmi e darmi da mangiare.
Mamma era un essere umano speciale. Non un tipo tenero: era severa come pochi. Voglio dire, di secondo nome faceva Disciplina. Mi ha insegnato che la disciplina è una forma d’amore. E io ci credo ancora oggi. Mamma mi ha insegnato ogni genere di cose, lezioni grandi e piccole, che io ho tenuto sempre con me e che uso nella vita di tutti i giorni.
Era una donna debole, ma solo nel corpo. Sotto ogni altro punto di vista era forte. Non beveva, non fumava, non bestemmiava. Un sacco di regole. Un sacco di buonsenso pratico terra terra. E in cima alla lista due cose: non mendicare e non rubare.
Abbiamo dormito insieme, io e Mamma, fino ai miei undici o dodici anni. Oppure dormivo sul pavimento. Là per terra era bello fresco, soprattutto nelle torride notti d’estate.
Abbiamo abitato in posti di ogni tipo, cambiando spesso casa. Spesso ci trovavamo in quel genere di catapecchia che prenderebbe fuoco solo a lasciar cadere un fiammifero acceso.
Ma in qualche modo ce l’abbiamo fatta.
Mamma e Mary Jane erano due donne molto diverse. Mary Jane aveva un paio di buoni lavori. Il primo era per dei bianchi, una delle famiglie più vecchie della città, pare: gli Osby. E lavorava anche alla segheria. In effetti Greensville era conosciuta proprio per la sua segheria. Le donne ci lavoravano assieme agli uomini. A dire il vero, gran parte degli uomini di oggi si tirerebbero indietro di fronte al lavoro che faceva Mary Jane: sollevare enormi tavole bagnate per gettarle nella caldaia.
Vi sorprenderà, eppure Mamma e Mary Jane andavano molto d’accordo. Mamma era molto più severa, Mary Jane più clemente, ma non era un problema. Per fare un esempio, Mary Jane non permetteva a Mamma di frustarmi. E di solito Mamma non aveva da ridire. Forse perché sapeva che Mary Jane mi passava un sacco di cose, roba da mangiare di cui ero goloso e piccoli articoli di vestiario.
Ricordo anche che quando Bailey e Mary Jane stavano ancora insieme, gestivano un caffè non lontano da casa di mia nonna, uno di quei posti dove si vendono caramelle, pane e birra. All’epoca dovevo avere tre anni, più o meno.
Mary Jane mi chiamava il suo «scimmiottino». Sì, mi chiamava così, ed era una donna incredibilmente protettiva. Al contrario, Mamma mirava un po’ di più a prepararmi ad affrontare il mondo. Mi lasciava gironzolare, commettere i miei errori, scoprire il mondo da solo.
’Retha aveva avuto due figli: mio fratello George e me. George aveva un anno di meno ed era un bambino fenomenale. A tre anni sapeva già fare le addizioni, le moltiplicazioni e le divisioni. I vicini venivano da noi apposta per vederlo fare le operazioni matematiche, ne erano affascinati.
George aveva anche uno spiccato talento per l’invenzione di giochi e la progettazione di giocattoli. Visto che non c’erano soldi per quel genere di cose, te li dovevi costruire da solo. E George lo sapeva fare: metteva insieme automobiline e altri oggetti usando corde e cavi. Era un ragazzino creativo e brillante sotto molti aspetti. Mamma era molto colpita da George, e come lei tutti quelli che ci vivevano intorno.
Eravamo spiriti liberi, io e lui. Scorrazzavamo per i boschi, lanciavamo sassi e ciottoli nei torrenti. Raccoglievamo le more e ridevamo quando Mamma ci urlava dietro: «Lasciate perdere quei cespugli di more prima che un serpente a sonagli spunta fuori e vi stacca la testa a morsi!»
Riesco ancora a vedere il paesaggio: le noci pecan, le bacche dell’albero dei rosari, i pini, i maiali, le mucche e i polli. Mi ricordo di quando ammazzavano i porci. Me li vedo ancora gli uomini che sparavano ai porci nelle orecchie e gli tagliavano la gola per far scorrere via il sangue. Poi, quasi subito dopo, ci ritrovavamo a masticare quegli stessi animali per cena.
La gente di campagna non butta via niente del maiale: le orecchie, i piedi, il dentro e il fuori. Mangiavamo tutto del porco tranne i grugniti. L’osso del collo e le interiora, e poi foglie di cavolo, riso ricoperto di sugo di cipolla, cavolo con pezzettoni di prosciutto, cocomero dolcissimo... Già, magari eravamo poveri, ma mangiavamo bene.
Se c’era il pollo era domenica, il giorno che si andava in chiesa. Oh, Signore, Mamma ci credeva che si dovesse andare in chiesa. La nostra era la Chiesa Battista di Shiloh, e la cosa che mi piaceva di più era che si cantava.
In chiesa la faccenda era semplice: il predicatore cantava o salmodiava, i fedeli gli rispondevano. Non c’era quasi nessun accompagnamento strumentale, il pianoforte ce l’abbiamo avuto quando ormai ero già grande, e la cerimonia era essenziale e senza fronzoli. Lì imparai le prime cose sulla religione e le prime cose sulla musica.
Ero un bambino curioso, magari un po’ dispettoso ma perlopiù mi comportavo bene. Ero stato educato a obbedire a mia mamma. In campagna si faceva quello che ordinavano gli adulti. Altrimenti, giù botte. Molto semplice.
Ero un bambino felice. Amavo la campagna, i suoi colori e i suoi misteri. Di notte, quando era così buio che se mi mettevo la mano davanti al viso non riuscivo a vederla, sgattaiolavo fuori sul retro con un pacchetto di fiammiferi e li accendevo tutti. I miei occhi brillavano di meraviglia, mi sembrava di illuminare a giorno il mondo intero!
Di giorno fissavo il sole, pure troppo, forse. E durante i temporali mi mettevo ad aspettare i lampi. Alla maggior parte dei bambini facevano spavento i lampi, ma per me erano stupendi. Provavo a saltarci dentro, tanto ero stupido. La vena bianca che correva al centro del cielo nero mi entusiasmava. E lo stesso effetto mi faceva l’incandescente radiosità del sole. Ripensandoci oggi, avrei potuto diventare un piromane; per me era un miracolo poter assistere alla manifestazione della potenza della luce e del calore.
E poi c’era la musica. Cominciai ad ascoltarla molto presto, non appena fui in grado di vedere, parlare e camminare. Era sempre nell’aria, in tutte le forme e i generi e i ritmi. La musica era la sola cosa per cui mi premeva alzarmi dal letto la mattina.
Sono nato con la musica dentro. È l’unica spiegazione che so darmi, visto che nessuno dei miei parenti sapeva né cantare né suonare uno strumento. La musica era una delle parti di cui ero composto. Come le costole, il fegato, i reni, il cuore. Come il sangue. Era una forza che si trovava già dentro di me quando sono entrato in scena. Era una necessità, come il cibo o l’acqua. E dal momento in cui appresi che sul pianoforte c’erano dei tasti che potevo pestare, cominciai a pestarli, cercando di fabbricare dei suoni a partire dalle mie emozioni.
A volte mi chiedono qual è stata la mia più grande influenza musicale da piccolo. Rispondo sempre lo stesso nome: il signor Wylie Pitman. Io lo chiamavo signor Pit.
Non troverete nessun signor Pit in nessun manuale di storia del jazz, e non è nella Hall of Fame di Down Beat. Ma tesori miei, credetemi sulla parola: il signor Pit sapeva tirar fuori dal suo pianoforte del vero boogie-woogie. E soprattutto, viveva nella nostra stessa via.
Red Wing Café. Riesco a vedere la vecchia grande insegna rossa proprio di fronte a me. Il locale del signor Pit. Un piccolo negozio di articoli vari in cui lui e sua moglie, la signora Georgia, vendevano prodotti come acqua di selz, birra, caramelle, torte, sigarette e kerosene. Il signor Pit aveva anche delle camere in affitto.
Io e Mamma eravamo sempre i benvenuti e in effetti, in un periodo in cui eravamo veramente messi male, per un po’ vivemmo dentro al Red Wing Café.
Il locale del signor Pit era il centro della comunità nera di Greens­ville, e quando entravi erano due le cose che ti saltavano agli occhi: due cose che hanno dato forma a tutto il resto della mia vita.
Sto parlando di un pianoforte e un juke-box.
Ah, quel pianoforte! Era un pianoforte a muro, vecchio e scassato: l’aggeggio più meraviglioso su cui avessi mai posato gli occhi. Il boogie-woogie andava forte all’epoca, e fu il primo stile che mi capitò di ascoltare. Il signor Pit suonava come i migliori pianisti. Solo che non era interessato a farsi una carriera nella mu...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. Dedica
  5. Ringraziamenti
  6. Introduzione di Ray Charles
  7. BROTHER RAY
  8. Postfazione di David Ritz
  9. Gli ultimi giorni di Brother Ray di David Ritz
  10. Discografia di David Ritz