Creature ostinate
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Creature ostinate

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Con la sua originale miscela di surrealismo, prosa musicale e potenza emotiva, Aimee Bender è diventata una delle scrittrici di culto della nuova scena letteraria americana.I quindici racconti di questa raccolta sono incroci originalissimi tra la realtà e la fiaba: vi compaiono omini in miniatura tenuti in gabbia come animali da compagnia, piccole patate ambulanti, coppie con la testa a forma di zucca e sculture fatte d'aria e d'acqua in vendita nel bel mezzo del deserto del Nevada; ma anche l'inevitabilità della morte, la crudeltà delle adolescenti, le dinamiche irresistibili del desiderio, la solitudine e il conforto dell'amore, la voglia di sfidare il proprio destino. Nella scrittura della Bender, che unisce la sensibilità visionaria alla Tim Burton a uno stile cristallino degno di Raymond Carver, il genere fantastico diventa un mezzo per dipingere con acutezza ed empatia la realtà della condizione umana.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788875214777
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

SECONDA PARTE

L’UOMO CHE SCOPAVA LE MADRI

L’uomo che scopava le madri[1] arrivò sulla West Coast dal Midwest. Prese un treno, e conobbe donne di ogni tipo nelle varie città: Tina con le ginocchia dritte a Milwaukee, Annie con la risata caustica a Chicago, Betsy con il seno asimmetrico a Bismark, Heddie la matta a Butte, la domatrice di leoni a Las Vegas, la campagnola sveglia a Bakersfield. Alla fine, scese dal treno una volta per tutte alla Union Station di Los Angeles.
«Io scopo le madri», diceva a chi glielo domandava. «E le scopo pure bene», aggiungeva.
Era anche una persona a modo: non scopava le madri sposate, solo quelle disponibili che avevano voglia di uscire con qualcuno e assoldavano una brava baby-sitter per il bambino che le aveva rese, appunto, madri.
Le portava a mangiare, a bere e a ballare, le corteggiava offrendo martini e baci sul collo, bistecche al sangue e pinot nero, la parola bellissima pronunciata in tono sincero, appoggiandosi con nonchalance allo schienale del divanetto di un ristorante. Faceva domande acute, particolari. In genere entro mezzanotte se le era già portate a letto, i vestiti erano scomparsi in un lampo: la rapidità con cui le donne si spogliavano aumentava col tempo, era un gesto sempre più veloce, e lui era un ottimo amante, premuroso e sicuro di sé, che sapeva dare e ricevere, perciò le madri facevano la fila per uscire con lui mentre le baby-sitter si arricchivano, ficcandosi biglietti da venti nelle tasche strette da ragazzine.
Nessuna gli piaceva mai per più di un paio di serate. Oppure gli piacevano, ma non tanto da continuare a chiamarle. Le donne le amo tutte, si diceva. Gli piaceva anche entrare nei negozi per provarsi i cappelli.
Un pomeriggio si trovava a una festa elegante a Bel Air, in un giardino umido, a chiacchierare con gente umida ed elegante. Stavano in piedi in gruppetti di tre o quattro persone, a rigirare bicchieri di limonata allungati con la vodka, squalo liquido che nuotava fra le piume gialle della bevanda. L’uomo che scopava le madri gironzolò per il giardino diretto verso la giovane attrice, famosa per i suoi ultimi film, quella che portava il cappello di paglia rosso su un vestito dello stesso rosso, quella che guardava il figlio di quattro anni giocare sulle sedie da giardino, e il cui marito l’aveva lasciata per un altro uomo, o almeno così dicevano i giornali. Tutti gli altri avevano paura di parlarci.
Sotto il cappello rosso aveva i capelli lucenti, e non stava bevendo nulla, teneva le mani ferme lungo i fianchi.
L’uomo che scopava le madri le disse che gli piaceva il suo cappello. Lei disse: Grazie. Lui le chiese del figlio; lei disse: Ha quattro anni. Il bambino si stava rotolando sull’erba, coprendosi i vestiti di macchie che sembravano le scudisciate di una frusta verde.
«Io trovo che tu sia un’ottima attrice», disse l’uomo. «Ma perché scegli sempre personaggi così tristi?»
«Io?», fece lei. «Personaggi tristi?» E gli sorrise mostrandogli per un attimo i denti, quei denti lunghi e bianchi che ormai erano stati fotografati un milione di volte: altrettante porte splendenti che introducevano ai misteri della sua bocca.
L’uomo che scopava le madri disse sì. «Tu», ripeté.
Rimase a chiacchierare per un po’ con la giovane attrice e le disse che si era diplomato alla scuola per ventriloqui delle emozioni. Lei alzò un sopracciglio perfettamente sagomato. «No», disse lui, «non sto scherzando». Lei si mise a ridere. «No», ripeté lui, «dico davvero. Uno getta le proprie emozioni addosso alla gente che ha intorno», spiegò, «e poi vede come reagiscono».
«E come reagiscono?», chiese lei, mantenendo quel sopracciglio perfetto alzato fino a metà della fronte.
«Dipende», sospirò lui. «A volte te le tirano indietro tali e quali».
«A quanto pare la vita», le disse, «assomiglia molto al tennis».
Si incamminarono verso il gazebo. La festa stava finendo, il sole stava tramontando e l’erba aveva assunto una tonalità di verde più morbida. Lui sapeva che doveva fare qualcosa per restarle impresso nella memoria, perciò le si mise accanto, sotto il gazebo, a guardare il figlio, e le posò la mano sui famosi capelli lucenti, solo per un attimo, glieli sollevò dalla schiena e li lasciò di nuovo cadere. Lei trasalì.
«Uh!», disse lei. «Scusa», disse lui, «i capelli ti si erano attaccati alla schiena».
Poi non la toccò più, per intere settimane.
Si fece dare il suo numero di telefono dalla persona che aveva organizzato la festa. Gli uomini che scopano le madri sanno il fatto loro. Gli bastò raccontare una sola bugia e se ne andò con quelle dieci cifre, un trattino e due parentesi infilate con cura nel taschino della camicia.
Tornato a casa, chiamò Heddie la pazza, quella di Butte. Le fece mezz’ora di domande penetranti e poi cercò di fare sesso al telefono ma scoprì che non riusciva davvero a provarci gusto. Era distratto. Il giorno dopo chiamò l’attrice e la invitò a cena.
Lei si mise a ridere. Al telefono sembrava ancora più carina. «Ma non hai paura di me?», gli chiese. «In fondo, sono una stella del cinema». Lui disse che no, non aveva paura di lei, gli sembrava soltanto una donna bella e interessante che si trovava a fare un mestiere che la metteva sotto gli occhi di tutti. Lei disse che quella era sicuramente una maniera molto originale di vedere le cose. Si diedero appuntamento a un bistrot italiano su Vermont Avenue, dove lei firmò dodici autografi e lui le chiese in che senso la professione di attrice e quella di ventriloquo delle emozioni si assomigliavano, ma lei rispose che erano al ristorante e c’erano troppe distrazioni quindi finché erano lì conveniva fare discorsi più leggeri. «Forse sei tu che hai paura di me», le disse lui. Lei lo guardò da più vicino, con gli occhi verdi e magnetici. «Forse sì», rispose, e per il resto della cena non parlarono più molto. Il cameriere le chiese di fargli un autografo su un tovagliolo di carta, e quando se ne andarono il tovagliolo era già appeso con una puntina rossa vicino al leggio del maître, accanto a delle foto in bianco e nero firmate da altre star, molte delle quali ormai erano persone normali, oppure morte.
L’uomo che scopava le madri vide una delle madri che si era scopato seduta a un tavolo sulla destra e uscendo la salutò con la mano, ma la madre non rispose al saluto perché era gelosa e perché le giovani attrici la mettevano un po’ in imbarazzo.
All’attrice, l’uomo che scopava le madri sembrava una persona affidabile, perciò lo invitò nella sua casa nuova in mezzo alle curve buie delle colline di Hollywood, con i pavimenti di parquet marrone lucido, i cuscini romantici, le riviste intonse. Si sedettero a fare una bella chiacchierata sul divano da qualche migliaio di dollari. Lui le parlò del suo viaggio in treno e lei gli disse che suo padre faceva da anni il macchinista. Parlarono di scali ferroviari. Alla porta lui non la baciò né la abbracciò, disse soltanto che era stato benissimo, e lei gli chiuse la porta alle spalle, pensierosa. Fece un po’ avanti e indietro per la stanza e poi si mise a guardare la tv. Si vide al telegiornale.
L’uomo che scopava le madri se ne andò a casa, noleggiò uno degli ultimi film con la giovane attrice e lo guardò con attenzione, e anche se era una commedia guardò il sorriso che lei aveva in faccia e decise che era forse la persona più triste che avesse mai conosciuto o corteggiato.
Non la toccò neanche quando andarono a pranzo insieme e lei si mise a piangere parlando della sua casa vuota. Di come aveva sempre saputo del marito senza mai osare ammetterlo a se stessa. Non la toccò neanche quando lei alzò verso di lui i suoi occhi limpidi da film e gli fece lo sguardo che per il pubblico di tutto il mondo significava Baciami. Lui lasciò che le altre madri gli telefonassero mille volte senza mai alzare la cornetta o richiamarle. Invitò l’attrice a uno spettacolo di danza classica e durante il secondo atto le prese la mano, e mentre il palco era pieno di persone camuffate da piante e da uccelli, che cercavano con tutti i loro muscoli di diventare più leggere dell’aria, le loro mani si conobbero l’un l’altra, dita su dita, palmo su dorso, palmo su palmo, lato su polso, con un gran tintinnio di cinturini perché a tutti e due piaceva sapere sempre che ora era.
Lui la riaccompagnò a casa ma disse che non poteva fermarsi. Lei rimase delusa. Sognò di fare l’amore con lui dentro un cesto per la biancheria.
Arrivò una telefonata di Heddie, quella di Butte. Suo padre era arrabbiato con lei per una cosa successa quattro Natali prima e lei era tutta sottosopra. L’uomo che scopava le madri ci parlò per un poco, ma non riusciva a concentrarsi e le disse che doveva andare a scrivere la sua tesi di dottorato sul rapporto fra la tristezza, il mimo e il ping-pong. «Ah, non sapevo che stessi ancora studiando», disse Heddie. «Vorrei che mi parlassi più spesso di te». L’uomo che scopava le madri finse di avere un avviso di chiamata. Si salutarono in maniera brusca.
Invitò di nuovo l’attrice a cena. A lei fece piacere. «Mi tratta», raccontò alla sua amica, l’altra giovane attrice sulla cresta dell’onda, «come una persona normale». «Ma perché mai», disse l’amica, l’altra attrice, «dovresti volere una cosa del genere? Allora mi spieghi a che serve», le chiese, «essere un’attrice famosa?» La nostra attrice si mise la mano sulla guancia. Il suo rossore era del colore di una scogliera corallina, ma liscio. «Secondo me è il fatto di sentirsi gettare delle emozioni addosso», disse.
Durante questa seconda cena bevvero una bottiglia di vino e nessuno si fermò al loro tavolo per farsi fare l’autografo. (L’attrice portava un cappello.) Lei gli chiese di andare di nuovo a casa sua, magari per bere un tè. Fecero il gioco delle mani sotto il tavolo e stavolta il volume era due volte più alto. Tutto il corpo di lui era teso per lei. «George dorme», disse l’attrice, riferendosi al figlio. Tornarono a casa in macchina e lei pagò la baby-sitter, aggiungendo una grossa mancia perché si levasse di torno il prima possibile, poi andò in cucina e mise il bollitore sul fuoco, e il momento del primo bacio venne tirato per le lunghe, le lunghe, le lunghissime: lei gli offrì il tè, gli offrì il vino, poi andò in bagno e lui se la immaginò lì dentro, che guardava della carta igienica non giallina ma bagnata di un altro liquido trasparente, e poi tornò, si sedette accanto a lui sul divano, prese in mano una rivista, si alzò in piedi, si sedette, si alzò in piedi, si sedette, e lui pensò: È passato un bel pezzo dall’ultima volta che questa donna è stata con un uomo che vuole stare con le donne. E così sulle prime rimase seduto lì a pensare alle donne, alle cose che gli piacevano delle donne, alle curve e ai gioielli, alle linee e ai cerchi, ai seni di tutte le dimensioni, all’emozione, all’apertura, alle contrazioni.
La guardò. Lei appoggiò la testa sulla propria stessa spalla, con fare civettuolo, nervoso.
«Sto pensando a te», disse lui.
«E cosa pensi?», chiese lei. Mentalmente, passò in rassegna una serie di scene da film. Erano tutte opzioni molto piacevoli. Lui rispose: «Penso a quanto sei nervosa».
Lei ci rimase malissimo. «Cosa?»
«No», disse lui, imbarazzato, «mi piace molto il fatto che sei nervosa». La sua espressione, una volta tanto, era aperta e sincera. Lei gli tenne gli occhi addosso, e in quel momento fece una risata, la risata che aveva rubato il cuore a un milione di spettatori, che aveva riempito il portafoglio a un bel gruppetto di dirigenti delle case di produzione, e lui disse: «Aspetta».
«Che c’è?», disse lei.
Lui indietreggiò di un passo e la guardò. Lei fece una battutina ironica sui registi. Poi avvicinò il viso a quello di lui, pronta a baciarlo, a dimostrargli quanto era poco nervosa, quanto era audace, piena di spirito, ma lui non si mosse. «Ferma, aspetta», disse lui.
Lei prese ancora più coraggio, lo interruppe, disse: «Ehi, andiamo fuori. È pieno di cespugli». L’uomo che scopava le madri ci pensò su un attimo, sorrise, disse di no. Allora lei si girò da un’altra parte e disse: «Vieni, andiamo ad appoggiarci sul mobile del bagno». Nei film aveva fatto scene di sesso sia sul mobile del bagno che fra i cespugli. Il pubblico le aveva gradite moltissimo. Lui scosse la testa: no. «Facciamolo sotto un albero, sull’orlo del dirupo!», cinguettò lei, ma lui rifiutò. «Voglio fare l’amore con te in un letto», fu la sua proposta.
A quel punto lei sentì di aver perso completamente il controllo.
Lui le si avvicinò. Per qualche motivo, gli tremavano le mani. Usando un dito a mo’ di bacchetta, tracciò una linea invisibile tutto attorno a lei. Le disse: «Ascolta. Guarda. Il desiderio è una casa. Al desiderio servono spazi chiusi. Il desiderio scappa via dalle porte e dalle finestre, dalle fessure e dai buchini, e sotto il cielo non ci sta, è uno spazio troppo ampio. Devi chiudere le porte. Chiudere le finestre. Appena ti metti a ridere per il nervosismo o fai una battuta o dici qualcosa tanto per dire o cominci a fissarti coi cespugli, è come se aprissi una finestra nella tua casa del desiderio, e a quel punto la casa non riesce più a riscaldarsi come si deve. Entra uno spiffero freddo».
«Non è una casa tanto grande, vero?», disse lei.
«Non sorridere», disse lui. Lei ritrasse le labbra.
«Non sorridere», disse lui. «Non deve mica essere grande. Anzi, dovrebbe essere il più possibile vicina alle dimensioni reali del tuo corpo».
Lei se lo sentiva traboccare sulle labbra quel sorriso da superstar, la forma arcuata, i denti lunghi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Dedica
  3. PRIMA PARTE
  4. SECONDA PARTE
  5. TERZA PARTE